E-Book, Italienisch, 320 Seiten
Reihe: Sírin
Zadan / ?adan Il convitto
1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-6243-430-0
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 320 Seiten
Reihe: Sírin
ISBN: 978-88-6243-430-0
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Nato nel 1974 nell'Ucraina orientale, è scrittore, poeta e performer. Salutato come 'il Rimbaud ucraino', in narrativa è esploso con il romanzo Depeche Mode, pubblicato in Italia nel 2008. Vincitore di ventuno premi internazionali, è tradotto in tredici lingue. Polemista e saggista acuto e ironico, è compositore e cantautore, ha creato una band di successo ed è un instancabile ideatore e interprete di progetti culturali multimediali.
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GIORNO SECONDO
Non litigavano neppure. Quando qualcosa non le piaceva, lei semplicemente si limitava a tacere. E quando qualcosa non andava bene a lui, usciva semplicemente di casa. Poi tornava. Sedevano in cucina come se nulla fosse. Paša correggeva i compiti degli alunni con ostentata lentezza, Marina scriveva un’infinità di brevi messaggi come se si stesse cimentando in un test infinito. Andavano a letto a turno. Prima lei, poi, dopo aver aspettato che si addormentasse, lui. Si stendeva con cautela per non svegliarla. Lei, era ovvio, non dormiva. Lui, naturalmente, lo sapeva.
Due anni prima, dopo lunghi, lunghissimi mesi di incontri e conversazioni, dopo pause di riflessione e sorprendenti accessi di tenerezza, Paša le aveva chiesto di sposarlo. Marina se l’era presa. Però era rimasta con lui. Avevano continuato a vivere così, con un senso di disagio celato e inspiegabile. Marina non voleva sposarlo, ma per qualche ragione non gli andava di cacciarla di casa: in fondo era stato lui a chiederle di stare insieme, ora non era il caso di mandarla via. E così dormivano nello stesso letto. Il peggio era che ora Paša non poteva nasconderle nulla, lei lo vedeva da vicino e capiva tutto. La mattina vedeva il suo corpo, il suo volto, la pelle che perdeva elasticità, si afflosciava, si rinsecchiva come carta di giornale al sole. Vedeva come trattava il padre, come non riusciva a mettersi d’accordo con lui neppure per le cose più elementari. Vedeva che aveva paura della sorella. Vedeva che cercava di evitare il nipote. Che odiava in silenzio la direttrice e non si curava degli alunni. Che semplicemente non sapeva come comportarsi con lei, come parlarle, come dormire insieme. Viveva come se commettesse un terribile delitto sotto gli occhi di un potenziale testimone che poi, a sangue freddo e senza pietà, avrebbe riferito per filo e per segno ogni dettaglio, senza trascurare alcun episodio. Mi sono legato le mani da solo, pensava a volte Paša sconsolato, chissà perché me la sono presa in casa, si chiedeva osservandola con attenzione. L’inverno scorso le cose si erano messe proprio male. L’aria era cambiata, sembrava elettrica, parevano tutti impazziti: parlavano solo di politica, guardavano le notizie e si scambiavano opinioni. Paša le notizie non le guardava ma parlava anche lui. Però non era convincente. Marina s’infuriava terribilmente. Qualcosa tra le parole si era spezzato, incrinandosi come il ghiaccio su uno stagno quando arriva marzo, sul punto di frantumarsi in una miriade di pesanti schegge appuntite. Paša non aveva neppure tentato di aggiustare la situazione: si può forse aggiustare il ghiaccio che s’infrange e sprofonda nell’acqua gelida? È un peccato, certo, pensava, ma che ci puoi fare? Continuava a dormire con lei. Semplicemente la raggiungeva a letto dopo un’attesa ancora più lunga, dandole il tempo di assopirsi. E dormiva con la tuta sportiva per non sentire il calore di lei.
La mattina si svegliava e restava a lungo sdraiato senza muoversi. In modo che lei non capisse in nessun caso che si era svegliato, che non tentasse di chiedergli nulla, che non lo toccasse accidentalmente, e che in nessun caso a lui a sua volta non capitasse di toccare lei. Comunque lui era abituato a svegliarsi presto e restare sdraiato senza muoversi per strappare alla vita dei momenti supplementari di calma, in cui non occorresse parlare né ascoltare nessuno. Proprio come adesso. Prende il cellulare, fissa l’ora finché lo schermo non si spegne, poi guarda il pavimento di cemento. Gli stivali sono accanto al sacco a pelo, sembrano pesi da palestra, grossi e pesanti. Sono le sette di mattina, lo schermo si spegne, è di nuovo buio, nella tenebra la giacca invernale odora di umidità, del fumo e della pioggia di ieri. Non è bastata la notte per farla asciugare, impregna l’aria di pioggia e raffreddore. Paša aspira l’odore degli abiti bagnati, vi distingue il sentore della calce e dei mattoni rotti, del pietrisco gelato e dell’erba folta in cui si è dovuto trascinare. E la giornata precedente, con i suoi odori, i suoi bagliori e le sue voci, gli piomba interamente addosso, lo sbatacchia come l’ultimo passeggero rimasto in un tram vuoto. Alla fine Paša si puntella sui gomiti, ascolta la tenebra, si strofina la faccia con la mano intorpidita.
– Ma è possibile dormire tutto questo tempo? – sente dire nella tenebra.
Prende di nuovo il cellulare, accende la torcia, si guarda attorno. Il ragazzo siede sulle coperte come un Buddha, serafico e un po’ intontito dalla solitudine. Maglione a collo alto tirato su fino al naso, pantaloni di felpa, calzini da donna fatti a maglia. Un condannato a morte in cella d’isolamento.
– E tu perché non dormi? – Paša esce dal sacco a pelo e sente il gelo penetrargli in tutto il corpo. Nel sonno la temperatura non si percepisce, ma basta riemergerne per avvertire subito il freddo, come se ci si avvicinasse di notte ad acque invisibili.
– Dormire con te è impossibile – dice tranquillo il ragazzo. – Parli da solo. Ecco perché Marina ti ha piantato.
– Non mi ha piantato nessuno – risponde Paša un po’ troppo brusco. Si rinfila nel sacco a pelo, cerca gli occhiali, li inforca e se li aggiusta con le dita storpie. – Non eravamo sposati – aggiunge per ogni evenienza.
– Sì, certo – replica il nipote con un tono così spocchioso che Paša rabbrividisce.
– Fa freddo, eh? – dice Paša prendendo i jeans. Prova a infilarseli, ma si confonde con le gambe e vacilla. – E cosa ho detto? – chiede cauto, come se volesse saperlo senza però dare l’impressione che la faccenda lo interessi più di tanto.
– Qualcosa sui consigli di classe – dice il ragazzo.
– Quali consigli di classe? – domanda Paša senza capire.
– Quelli con i genitori – precisa il nipote. – Vabbè, dài, – ammette alla fine – hai chiamato una certa Anna. Chi è questa Anna?
– Una cameriera.
– Ah ah! – ride il ragazzo. – Quindi chiamavi una cameriera. Quando hai mangiato l’ultima volta?
In effetti, quando è stato? si chiede Paša in piedi su una gamba sola come una gru, e rimane lì in piedi a pensare. Poi tira su i jeans in silenzio, infila il pullover e il giaccone pesante e umido che non si è asciugato. Quando ho mangiato? ripete fra sé.
– Andiamo – taglia corto il ragazzo.
Si alza, cerca gli stivali di gomma, da adulto, da uno tira fuori un grosso coltello, dall’altro una torcia elettrica, si butta addosso una giacchetta verde ed esce per primo nel corridoio. Paša ci mette del tempo per allacciare gli scarponi, ripiega in fretta il sacco a pelo e corre dietro al ragazzo. Lui lo aspetta alla fine del corridoio, guarda Paša con aria di rimprovero.
– Gli scarponi – spiega Paša.
– Già – risponde il ragazzo. – Puzzano, lo so.
Paša fa per rispondere, ma il giovane è già scattato avanti, gira l’angolo, e Paša decide di non continuare quella strana conversazione.
Salgono al pianoterra. Il ragazzo si volta.
– Vuoi che ti faccia vedere lo sminatore?
– Quale sminatore? – chiede Paša senza capire.
– Quello morto – risponde lapidario il ragazzo e prosegue.
Salgono verso il primo piano, tra una rampa e l’altra il giovane socchiude una finestra e si arrampica sul davanzale. Dalla finestra penetra un vento umido che porta con sé il rombo lontano delle esplosioni e delle scariche di mitra, ancora più inquietante nell’aria rarefatta del mattino. Paša esita, non capisce da quale parte sparino, da dove venga il pericolo, ma il ragazzo tende la mano verso di lui per tranquillizzarlo.
– Forza, – dice – comunque non possiamo passare dalla palestra. Lì c’è Nina. Non ci lascerebbe andare.
Paša si fa coraggio e sale sul davanzale lasciando impronte nere come timbri di un ufficio. Il ragazzo scende su una tettoia, poi sui sacchi di sabbia accatastati davanti alla porta di servizio, infine salta giù nella fitta nebbia mattutina. Paša gli va dietro. Nella nebbia la giacchetta verde del nipote scintilla come un grumo fosforescente. Paša lo segue.
Percorrono un viottolo asfaltato sul retro del convitto ed escono nel giardino. Nella nebbia le foglie non raccolte rilucono di giallo, affondano sotto i piedi, come se al passo successivo dovessi scivolare fino alla cintola in una fossa o in una botola aperta. Poi il viottolo scompare, ma il ragazzo conosce la strada, si orienta sicuro fra i tronchi degli alberi, evita un’impalcatura di ferro che s’innalza dall’erba, oltrepassa una colonna di cemento che giace fra i meli, si china sotto i fitti rami bagnati. Paša comincia ad ansare ma cerca di non farlo notare, non vuole che il ragazzo si accorga di quanto sia faticoso per lui correre di mattina fra i meli bagnati.
– È lontano? – chiede sforzandosi di trattenere il fiatone.
Ma il ragazzo non risponde. O forse ha risposto ma Paša non ha sentito. All’improvviso s’imbattono in un recinto metallico. Come allo zoo, pensa Paša. Ce n’è uno uguale nella loro scuola. Il ragazzo trova un buco nel recinto, si infila dentro, scivola dall’altra parte del meleto. La stessa operazione richiede a Paša un po’ più di tempo: prima tenta, resta incastrato, entra in panico, torna indietro, si toglie il giaccone, alla fine riesce a passare attraverso le sbarre metalliche. Il ragazzo non c’è più.
– Saša – grida Paša nella nebbia fitta. – Saša, dove sei?
Si leva gli occhiali, li pulisce, li rinforca, ma non cambia nulla. Si rimette la giacca, tenta di scaldarsi. La pioggia è cessata, ma la nebbia è scesa come neve...




