E-Book, Italienisch, 186 Seiten
Reihe: Minimum classics
Yates Proprietà privata
1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-7521-974-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 186 Seiten
Reihe: Minimum classics
ISBN: 978-88-7521-974-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Richard Yates, autore di romanzi indimenticabili come il celebre Revolutionary Road, ha lasciato alla letteratura del Novecento anche un imponente corpus di racconti. Le sue raccolte, Undici solitudini e Bugiardi e innamorati sono unanimamente considerati dei capolavori nel genere della short story. Arriva ora per la prima volta in Italia quest'antologia di racconti mai pubblicati in volume durante la vita dell'autore; alcuni erano usciti su riviste, altri erano rimasti completamente inediti fino a quando, dopo la sua morte, sono stati riportati alla luce e raccolti. Un'occasione preziosa per immergersi ancora una volta nella sua scrittura intensa e commovente: storie di esistenze comuni ambientate perlopiù nell'America del secondo dopoguerra, un luogo di tensioni nascoste sotto l'apparente prosperità, di ambizioni e fallimenti che Yates racconta con uno sguardo lucido e inconfondibile.
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Prefazione
Un party, il tintinnio dei bicchieri di martini spostati su un carrello, una conversazione a molte voci in cui futilità, pettegolezzi e improvvisi squarci rivelatori stringono i presenti nella cornice di un quadro che altrimenti finirebbe per esplodere. Le atmosfere innaturalmente rilassate degli anni Cinquanta in un paese sospeso tra la bufera appena diradatasi e l’ottimismo di un benessere mai sperimentato prima – con l’apocalisse nucleare come ipotesi quotidiana – rappresentano un vero e proprio (narrativo, estetico) della letteratura statunitense appena uscita vincitrice dal secondo conflitto mondiale. O forse, più correttamente, si dovrebbe parlare degli scrittori nordamericani che avevano avuto la ventura di combattere o semplicemente di trovarsi in Europa, nell’epicentro del disastro, e che ora, tornati in patria, cercavano di conciliare l’indicibile sperimentato laggiù con lo swing di un’infinita parentesi conviviale da dopolavoro piccolo o medio borghese; ore e ore trascorse a parlare della carriera quale unica potenza trascendente in grado di sconfiggere la morte e della morte in guerra (sfiorata, evitata per miracolo soltanto pochi anni prima) come di una giocosa palestra preliminare ai successi nel mondo del giornalismo, della pubblicità, delle agenzie immobiliari e assicurative che questa strana, ineffabile pace piombata su tutto il continente sembrava pronta a dischiudere. La pace e l’ottimismo dei primi anni Cinquanta negli States – l’epoca in cui Bing Crosby non ha ancora ceduto lo scettro a Elvis e al Rat Pack – come un lungo discorso logorroico travestito di frivolezze necessarie a filtrarlo dagli abissi di una mostruosa rimozione: ecco cosa il miglior «realismo» del periodo ci lascia intravedere. Basta leggere del resto tra le righe che descrivono quei party nella più significativa produzione letteraria (e cinematografica) dell’epoca per individuare, sullo smalto dei sorrisi degli astanti, lo scintillio del puro e semplice terrore.
Tra gli scrittori statunitensi scesi nel ventre di balena che fu l’Europa degli anni Quaranta c’è Richard Yates, «uno dei grandi scrittori meno famosi d’America», lo sfortunato irascibile semialcolizzato (ma quale romanziere americano del periodo ha intrattenuto un discorso ragionevole con l’alcol?) autore di , maestro riconosciuto post mortem il cui titolo più noto, prima della riabilitazione, non riuscì a vendere più di 12.000 copie. Arruolato nell’esercito degli Stati Uniti, Yates fu mandato in Francia nel 1944. Dopo la fine della guerra verrà trasferito nella Germania occupata fino al 1946. Tornato in patria, lavorerà per la United Press e come copywriter per la Remington Rand, tenterà la carta di Hollywood come sceneggiatore, terrà corsi universitari, si spingerà a scrivere i discorsi dell’allora ministro della Giustizia Robert Kennedy concedendosi di osservare da diverse prospettive quella crudele forma di insuccesso che è il successo mancato di un soffio. Così, se i suoi romanzi più famosi sono tutti sbilanciati sul (gli Stati Uniti in cui il sogno a stelle e strisce arroventa in modo ormai maturo il paesaggio interiore delle grandi masse, rappresentando al contrario, per molta letteratura ispirata, un crudele luminoso occhio di bue dischiuso intorno al circostante fallimento delle vite ordinarie), queste fotografano molto bene il rito di passaggio: ovvero il momento cruciale in cui il paese guidato da Truman e da Eisenhower, in seguito a una guerra i cui significati più oscuri è forse troppo giovane per metabolizzare, si trova a raccogliere da un’Europa distrutta il testimone della prima potenza d’Occidente.
È molto rappresentativo da questo punto di vista «Il canale», racconto ambientato nel 1952 a cui solo la triste ironia che accompagna il suo autore consentirà di venire pubblicato sul ben nove anni dopo la morte di Yates – l’occasione è celebrare la pubblicazione del postumo (e, ironia delle ironie: fortunato) . Si tratta della storia di due reduci della seconda guerra mondiale, i quali, a un party privato, fiancheggiati dalle rispettive mogli, raccontano da diverse prospettive un’operazione bellica a cui hanno partecipato in Europa durante il marzo del ’45. Gli ingredienti e le dinamiche del classico di genere ci sono tutti. Il primo reduce (Tom Brace) è il tipico ragazzone americano dal cuore semplice, gonfio di quel sano cameratesco pragmatismo che non ne farà mai un individuo profondo: in effetti, parla dell’episodio in cui ha rischiato di perdere la vita (la notte durante la quale, tra l’altro, incominciò a tirare bombe a mano sui «crucchi» ritrovandone due «morti stecchiti») come fosse una partita di football. L’altro, Lew Miller, è il vero protagonista del racconto. Lui, al contrario di Brace, preferirebbe non rammentare l’episodio. Non è stato un gran soldato negli anni della guerra; anzi, era una specie di pasticcione capace di compromettere se stesso e i commilitoni proprio nel corso delle missioni più pericolose. Il disagio della vergogna individuale sembra tuttavia continuamente trapassato da un disagio e una vergogna più vasti. Vergogna per la guerra? Per il «genere umano perduto»? Vergogna per questa pace innaturale calata sui morti e sui feriti a morte da un trauma troppo vasto per non voltare il capo dall’altra parte, verso il futuro, le carriere, il progresso e le opportunità che la seconda parte del Novecento lascia chiaramente indovinare? Si tratta – la pace come esercizio di amnesia collettiva su ciò che è accaduto prima – di un tema presente in tutta la rielaborazione artistica occidentale dell’immediato dopoguerra (basti pensare, su latitudini e poetiche completamente diverse, a di Eduardo De Filippo), e sono domande che, nel racconto in questione, Richard Yates è tanto saggio e delicato da lasciare in sospeso.
Un altro tocco di bravura consiste nel far sentire il delle mogli dei due reduci quando ancora si trova a livello latente. Travisamenti formali a parte, Tom e Lew stanno pur sempre parlando della notte in cui attraversarono un canale sotto il fuoco di sbarramento dell’esercito nazista (certo, i toni di Bob sono da cronista sportivo e Lew è piuttosto reticente, ma è chiaro che si tratta di due schemi retorici – più coraggioso quello di Lew – per difendersi da un dramma vissuto in prima persona). La signora Miller e la signora Brace sono invece capaci di portare il travisamento a un grado di ben maggiore alienazione. Per le due donne è in corso non tanto la rievocazione di un’esperienza cruciale ma una partita tra mariti, una competizione in cui la guerra è al limite un eccitante gioco a premi, o forse il momento di singolarità la cui prosecuzione con altri mezzi è ciò che adesso, nel presente, veramente conta: la carriera, la scalata sociale. Alla fine del racconto questo tifo si espliciterà del tutto nella signora Miller, che in privato rimprovera Lew per essersi fatto sopraffare dalla (primitiva, ma solo per noi lettori) brillantezza di Bob, nella quale la donna ravvisa con tutta evidenza una maggiore garanzia di promozione sociale. Insomma, siamo nel 1952 – questo viene suggerito incidentalmente quando i «sette anni» che separano il marzo del ’45 dalla rievocazione durante il party «si dissolsero» davanti a Lew – e il clima di promessa, paranoia e simulata innocenza del periodo pervade magicamente il racconto riga dopo riga, senza che Yates sia costretto a calcare la mano per farcelo capire (un’ineffabile sensazione da orchestrina sul che – in chiave middle class, sul capo opposto del conflitto mondiale – potrebbe ricordare le splendide feste sature di tragedia raccontate da Francis Scott Fitzgerald, il quale per Yates fu infatti non solo un maestro ma l’autore senza il quale «non credo sarei mai diventato uno scrittore»).
E tuttavia, a leggere ancora più in profondità, si ha l’impressione che persino la moglie di Bob e quella di Lew – quando non sono totalmente ipnotizzate dal vuoto scintillio delle proprie stesse voci – parlino continuamente di qualcosa per evitare di parlare d’altro, neanche l’intero party non fosse che un esorcismo mascherato. Ma esorcismo contro cosa?
Prima di tentare di rispondere, non è inutile riflettere sul fatto che se il Richard Yates delle piccole esistenze borghesi ormai definitivamente incanalate nella triste commedia della vita di ogni giorno ha come più degno rivale le di Raymond Carver, il vero concorrente di questo Yates è invece il J.D. Salinger dei .
Più anziano di sei anni rispetto a Yates, Salinger trascorse un’infanzia più regolare ma non così socialmente sofisticata da farne un aspirante scrittore con un bagaglio culturale più vasto. Al pari di Yates, partì per la seconda guerra mondiale, nel corso della quale partecipò a scontri terribili come lo sbarco in Normandia (dei 3080 membri del suo reggimento ne sopravvissero 1130) e la battaglia delle Ardenne. Infine, rielaborò letterariamente le tragedie interiori dei reduci usando forme e schemi narrativi non diversi da quelli del collega. In questo modo, non è difficile trovare nel Seymour Glass di «Un giorno ideale per i pesci banana» un corrispettivo lunatico di Lew Miller (così come Muriel tiene il parallelo con la meno volatile signora Miller – e la piccola protagonista di «Proprietà privata», il racconto che dà il titolo a questa raccolta di Yates, non è forse una cugina neanche...