Yates | Disturbo della quiete pubblica | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 302 Seiten

Reihe: Minimum classics

Yates Disturbo della quiete pubblica


1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-3389-435-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 302 Seiten

Reihe: Minimum classics

ISBN: 978-88-3389-435-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



New York, 1960. John Wilder è un insoddisfatto venditore di spazi pubblicitari con un sogno nel cassetto: diventare un produttore cinematografico di successo. Sposato con Janice e padre del piccolo Tommy, desidera anche una vita affettiva più dinamica rispetto a quella che gli offre la sua pragmatica moglie. Un giorno, dopo aver lasciato impulsivamente il lavoro e aver preso una sbronza colossale, si ritrova ospite di un reparto psichiatrico: qui incontra persone tormentate e isolate che, come lui, non sono più in grado di esistere così come la società prescrive. Tra riunioni degli Alcolisti Anonimi, una relazione extraconiugale e la ricerca di finanziatori disposti a coprodurre un film sulla sua esperienza in ospedale, John conoscerà soltanto il fallimento delle proprie ambizioni e una lenta, ineluttabile discesa nella follia. In questo romanzo Richard Yates torna a dissezionare l'apparente normalità della middle class americana sullo sfondo dell'ottimismo e della prospettiva dell'era Kennedy, con lo sguardo penetrante e implacabile che già permeava Revolutionary Road, ma con toni se possibile ancora più drammatici. Nella sua prefazione, A.M. Homes afferma: «Questo è il mio preferito tra i libri di Yates proprio per la stessa ragione per cui altri lo trovano duro da digerire: la sua scrittura è onesta fino alla brutalità, terrificante per la sua chiarezza: è una freccia scoccata dritto in mezzo al cuore».

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Prefazione


Richard Yates non ha paura del buio; non gli occorre il confortante tepore di un lumino da notte che brilla in un angolo. In effetti, sembra quasi che riesca a vedere al buio. I suoi romanzi e racconti sono radiografie dell’anima americana. Per identificarsi con i suoi personaggi bisogna essere disposti a guardarsi allo specchio e non vedere il proprio lato migliore, quello che si considera più attraente, ma il peggiore, quello che si tiene nascosto, quello roso dall’incertezza, dall’ansia e da quello che chiamerei un genere particolare di nervosismo americano: una preoccupazione intensamente antagonistica su come si viene visti dall’esterno, quanto si regge il confronto con gli altri, quanto siano favorevoli o coronate da successo le proprie prospettive. I suoi personaggi sono sempre intenti a calcolare, a valutare, a cercare di capire chi ha avuto la metà più grossa. Sono rosi dall’idea che qualcun altro possa avere di più, o più facilmente. Le sue storie parlano del volere tutto, del meritarsi tutto, dell’aspirare alla grandezza senza riuscire a raggiungerla. Non ha senso fingere; i personaggi yatesiani ne sono dolorosamente consapevoli, sono nei guai fino al collo e questo per il lettore è tangibile al punto di diventare talvolta straziante.

I suoi personaggi hanno un modo molto particolare di ingannare se stessi: una versione contorta della speranza; per quanto questi uomini e queste donne restino indietro, aspettano anche che il mondo li veda come sono davvero: persone dotate, fortunate, talentuose. Aspirano alla grandezza; si sentono capaci di una grandezza che rimane irrealizzata perché le persone che li circondano non vedono le loro doti eccezionali. Se soltanto il mondo li riconoscesse per quelli che sanno di essere, sarebbe tutto diverso; sono allo stesso tempo migliori e peggiori di chiunque altro. Questo ha a che fare con la debolezza, la vulnerabilità e le illusioni che ci si crea per riuscire a sopravvivere, le illusioni di essere in qualche modo diversi dal resto dell’umanità, in qualche modo migliori: illusioni che possono soltanto finire in tragedia. I personaggi di Yates restano paralizzati, storditi quando si accorgono che non verranno innalzati alla posizione di eccellenza che gli spetta, sconvolti dall’incapacità di andare oltre e innanzitutto dal fatto di essersi ficcati in un tale pasticcio. Non era questo che gli avevano promesso, non era questo che avevano pattuito, è come se si fossero svegliati accorgendosi che tutto quello in cui credevano era una specie di bidone rifilatogli dal «venditore del mese» e non l’espressione del sogno americano. Il Mondo di Richard Yates si divide in bastardi fortunati e perdenti... e insomma, questi sono i perdenti. Una volta Yates ha detto: «Credo che le persone di successo non mi interessino molto. Credo che mi interessino di più i falliti».

è il mio preferito tra i romanzi di Yates proprio per la stessa ragione per cui altri lo trovano duro da digerire: la sua scrittura è onesta fino alla brutalità, terrificante per la sua chiarezza: è una freccia scoccata dritto in mezzo al cuore.

Il libro ha inizio nel 1960 con John Wilder che telefona alla moglie da un bar di New York per dirle che non può tornare a casa dopo un viaggio d’affari. Perché? I motivi sono anche troppi: non ha portato un regalo al figlio Tommy, a Chicago si è scopato una ragazza per tutta la settimana, e quando la moglie Janice continua a dire che dovrebbe tornare a casa, lui conclude: «Lo vuoi veramente sapere, dolcezza? Perché ho paura che potrei uccidervi, ecco perché. Tutti e due».

Un inizio e una fine perfetti. Nella scrittura di Yates c’è una rabbia, un’intensità che non si trova, per dire, nell’opera di Cheever o Updike. Ho sempre sospettato che il motivo per cui Yates è poco per volta scomparso dagli scaffali delle librerie sia stato in parte la franchezza della sua prosa: i lettori non vogliono affrontare le cose faccia a faccia, e io sospetto che la stessa onestà brutale appartenesse a Yates stesso, che fosse il modo in cui affrontava il mondo. Conosceva anche troppo bene i percorsi tortuosi della mente, le manipolazioni e le minuzie che possono abbattere un uomo, il grande potere della negazione dell’evidenza, e sembrava molto orgoglioso del fatto di raccontare le cose così come stavano, a qualunque costo; il che si addiceva alla patologia dell’alcolizzato figlio di un alcolizzato che era Yates. Non si ha mai l’impressione che Yates fosse una persona facile da trattare.

In Yates descrive Janice, la moglie di Wilder, come una donna che ama le parole , , e . «Erano poche le cose che la sconvolgevano o la spaventavano; le uniche a riuscirci, al punto di farle gelare il sangue, erano le cose che non capiva».

Il concetto di «cose che non capiva» esprime chiaramente qualcosa che riguarda non solo il matrimonio dei Wilder, ma anche l’America di quel periodo, l’America appena uscita dalla guerra fredda degli anni Cinquanta, ancora aggrappata al benessere postbellico ma che sta cominciando a entrare in un periodo di grandi tenebre e confusione; un periodo dal quale non ci siamo ancora completamente ripresi. In tutta l’opera di Yates c’è un sottofondo sociale/politico, un modo di ripercorrere la patologia politica dell’epoca attraverso le vite dei suoi personaggi. John Wilder vende «spazi», spazi pubblicitari per la rivista . La sua sbronza lo conduce all’ospedale Bellevue, nel «Reparto Maschile Violenti», per un intero ponte festivo. Il luogo è pieno di gente scoppiata, che per un motivo o per l’altro non riesce più a mantenere la facciata prescritta dalle convenzioni sociali. Dopo il suo rilascio – nelle mani del fin troppo ragionevole amico avvocato, Paul Borg – Wilder trascorre qualche giorno in campagna con Janice e Tommy, vicino a un lago nel nord dello Stato di New York, dove ancora non riesce a rilassarsi, tormentato dal fatto di non riuscire a tenersi alla pari con la sua stessa famiglia, perché non sa nuotare. È difficile non vedere l’incapacità di nuotare di Wilder come una metafora più ampia della sua pura e semplice incapacità di tirare avanti, di essere una persona che segue la corrente, accettando la vita così come viene. Wilder s’immerge in riunioni degli Alcolisti Anonimi, sedute psichiatriche, conversazioni sul presidente Kennedy e via dicendo. In la vita viene recitata sullo sfondo dei media; si sente la pressione delle questioni riguardanti lo «stile di vita», perché quella era l’epoca in cui le riviste sullo «stile di vita» come , , istruivano i lettori su come vivere al meglio. Era il periodo dei programmi televisivi come , della diffusione di immagini mediatiche piene di idee sulla «famiglia perfetta». Ci sono voluti tutti gli anni Settanta e parte degli Ottanta, quando il tasso di divorzi ha raggiunto il cinquanta per cento, per farci venire in mente che il concetto di perfezione potesse essersi incrinato. Ci siamo allontanati dall’idea di trovare conforto nella famiglia per trovare conforto negli oggetti, nel denaro. Fingendo di preoccuparci per la nostra salute, inoltre, ci siamo allontanati dal conforto dato dall’alcol per passare ai medicinali, ai farmaci antidepressivi e ansiolitici che fanno sì che non c’importi molto di quello che potrebbe mancarci o che potremmo avere perso.

Dall’inizio alla fine di si avverte l’ombra onnipresente dell’autobiografia: in tutta l’opera di Yates appare chiaro che l’autore si include nel numero dei falliti tanto quanto i suoi personaggi. Non si ha mai l’impressione che come scrittore li guardi dall’alto in basso o li giudichi. John Wilder o Richard Yates potrebbero essere uno qualunque di noi. Diventa quindi ancora più interessante leggere le pagine in cui Yates racconta di come Wilder distrugga in maniera inconscia eppure sistematica tutto ciò che c’è di promettente nella sua vita: «I semi dell’autodistruzione sono in quest’uomo fin dall’inizio». Si parla inoltre di un personaggio, lo scrittore Chester Pratt, alcolista inveterato e autore di , che accetta l’incarico di scrivere discorsi per Robert Kennedy. Lo stesso Yates, nel 1963, fu assunto per scrivere i discorsi a Kennedy, e per un certo periodo lavorò anche a Hollywood, dove scrisse una sceneggiatura da di William Styron che poi non fu mai prodotta.

In , quando dopo l’assassinio del presidente Kennedy la tv mostra le immagini di Oswald trascinato in carcere, Wilder si rende conto di provare una certa solidarietà nei confronti dell’assassino.

Kennedy era troppo giovane, troppo ricco, troppo bello e troppo fortunato; era l’incarnazione dell’eleganza, dell’intelligenza e della finezza. Il suo assassino aveva parlato in nome della debolezza, delle tenebre nevrotiche, della battaglia senza speranza e delle passioni autodistruttive dell’ignoranza, e John Wilder comprendeva tutte queste forze anche troppo bene.

I suoi personaggi sono i meno eroici, i meno romantici che si possano immaginare: ci affascinano per la pienezza della loro imperfetta umanità; Yates è straordinariamente brillante nella sua capacità di rappresentarci per quello che siamo, senza battere ciglio, senza mai tirarsi...



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