E-Book, Italienisch, 230 Seiten
Reihe: Minimum classics
Yates Cold Spring Harbor
1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-7521-978-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 230 Seiten
Reihe: Minimum classics
ISBN: 978-88-7521-978-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
A Cold Spring Harbor, cittadina residenziale di Long Island, nel corso di un'estate si incrociano i destini di due famiglie: il matrimonio dei giovani Evan e Rachel - lui rissoso, svogliato, appassionato di motori e ragazze: lei fragile ed eterea, fulcro involontario di una rete di rapporti tumultuosi - fa da anello di congiunzione fra gli Shepard, un militare andato troppo presto in pensione per accudire la moglie malata e ormai alcolizzata, e i Drake, un padre assente, una moglie perennemente sull'orlo di una crisi di nervi e un figlio, Phil, alle prese con un'adolescenza inquieta. Ma l'apparente armonia è illusoria e l'unione rivela ben presto un lato oscuro e insidioso. Gli ingredienti della narrativa yatesiana ci sono tutti e sono incarnati nei vari personaggi di questo romanzo corale, l'ultimo di Richard Yates, tradotto oggi per la prima volta in italiano. Sullo sfondo la provincia americana degli anni Quaranta, con lo specchio sempre in agguato della seconda guerra mondiale. E la voglia di dare a questa vita tranquilla una svolta che sembra non arrivare mai.
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PREFAZIONE
«Perché lo sai che cosa diventerai? Diventerai un uomo». Nell’universo di Richard Yates le parole con cui si conclude possono suonare come una condanna. È un universo in cui si aprono abissi di dolore sotto ogni gesto, sotto ogni sorriso e sotto ognuno di quei comportamenti codificati e semiautomatici con cui si tenta di attenuare la fatica di stare al mondo. Abissi di cieco, idiota, inutile dolore, come se le strategie per sopravvivere (le strategie di chiunque, dal militare all’artista al disperato, e ogni tipo di strategia, dalla creazione alla psichedelia alla ragione) non fossero che arbitrari ghirigori, forme fragili – di rado eleganti – tracciate sulla superficie di un caos al disotto del quale regnano demoni pazzi e insensati come gli dèi di Lovecraft. Ogni racconto di Yates è una sinfonia del vuoto. Terrificante e insieme amaramente, stranamente divertente. Uno spettacolo in cui qualsiasi tecnica per sopravvivere rivela la sua natura di finzione, arte, artificio e tragedia. Non si può che riderne, del riso feroce con cui i morti ridono delle illusioni dei vivi nelle danze macabre medievali.
Leggendo Yates si ha la certezza che a protagonisti e antagonisti, che si scambiano ruoli e simpatie nel procedere della narrazione (il punto di vista cambia incessantemente, e ogni identificazione del lettore con un personaggio prelude a un allontanamento successivo in direzione del punto di vista opposto, delle ragioni di qualche antagonista: in queste pagine nessun eroe resta a lungo eroe e nessun cattivo, cattivo), ogni cosa non potrà che andare nel peggiore dei modi possibili. E la sapienza con cui Yates tratteggia le situazioni e conferisce ai dialoghi la perfezione asciutta ed essenziale dei grandi maestri non fa che aumentare la sensazione di minaccia che affiora da ogni frase: sappiamo con certezza che qualunque progetto, in questo mondo, si rovescerà nel suo opposto, spesso per pura inerzia, rivelando la sua sostanziale inconsistenza. Ogni scelta e ogni fuga, per drammatiche o estreme che siano, non avranno altro effetto che aprire un nuovo, più ricco campionario di delusioni e fallimenti. Così è per il sogno europeo dei Wheeler di , per le velleità cinematografiche del protagonista di , per le aspirazioni intellettuali delle sorelle Grimes in , e così sembra essere, radicalmente, per tutti i tentativi che i personaggi di faranno per darsi un destino appena migliore. Non un destino eroico o inimitabile, intendiamoci: nessuno dei personaggi di Yates ha aspirazioni di questo tipo. Semplicemente puntano a una qualche quiete dell’animo e a un ragionevole successo nei parametri della normalità che l’epoca in cui vivono impone.
Già, l’epoca. Sembrerebbe che qui si tratti di drammi individuali, sordide vicende suburbane, piccoli pettegoli rancori. Yates è maestro di ironia, tratta ogni soggetto con eleganza e apparente distacco, e il risultato è spesso la strana commistione di divertimento e inquietudine che si insinua nei suoi lettori. Inquietudine da cui non ci si libera, ficcante, appiccicosa, un che quasi toglie il sonno: c’è qualcosa qui dentro che mi riguarda, anche se sono storie di un altro tempo, di un altro continente. Diciamo che per adesso non ci penso e vado avanti nella lettura, oppure spengo l’abat-jour e dormo, se riesco. Diavolo: quest’uomo si sta prendendo gioco di me? Ironia ed eleganza sono una cifra del lavoro di Yates, un suo modo per non fare sconti. Traspare il ghigno di Kurt Vonnegut a cui il libro è dedicato, un altro che ride del suo lettore e di sé. E traspare di Vonnegut il confronto serrato con la Storia: situazioni private, microconflitti familiari o sentimentali – come le escursioni di Vonnegut nella fantascienza o nel grottesco – sono in realtà vesti che Yates impone alla sua narrazione per fare i conti con la condanna di un’epoca ansiosa di conformismo fino all’autodistruzione. L’epoca dell’, della commissione McCarthy, della guerra mondiale, della paura della bomba, l’epoca della costruzione di una nuova normalità che abolisce il tweed e indossa il marketing, i sobborghi e il pettegolezzo.
Molti temi che caratterizzano l’intera opera narrativa di Yates si ritrovano in : per esempio l’innaturale condanna autoinflittasi da chi sceglie di vivere nelle aree suburbane, né città né campagna, treni da pendolare e comportamenti di convenienza con vicini impiccioni e altrettanto intrappolati. Oppure la madre divoratrice, maestra nelle armi del vittimismo e dell’imbarazzo altrui, traccia della Dookie che generò Richard. O ancora l’adulterio, sempre consumato correndo lungo le linee di minor attrito, adulterio facile, quasi inerziale e poi blandamente coperto di minuscole e poco convinte sfumature romantiche, tanto per rendersi sopportabile la frattura che immette nella vita. Ma soprattutto la guerra, che quasi mai è raccontata, ma sempre incombe nel futuro imminente o nel passato recente dei personaggi, determinandone gran parte del destino.
La guerra è un’esperienza che ha segnato molto la vita di Richard Yates, ma non soltanto nel senso che siamo più disposti ad accordare a questa considerazione: quello del trauma, della violenza, del dolore. E neppure soltanto a causa dell’insensatezza e dell’indifferenza che si richiude sulle ferite, altro tema assai frequentato in letteratura. Fin qui arriva Vonnegut, per poi navigare in un’altra direzione. Yates sceglie invece una rotta meno battuta, penetra in qualcosa di rimosso, di quasi intollerabile, quel qualcosa, a cui si accennava, che fa sì che leggendo ci si senta continuamente, inspiegabilmente, chiamati in gioco, messi in piazza, come se Yates ci stesse frugando negli occhi e, attraverso gli occhi, in certi cassetti segreti che vorremmo tenere ben chiusi, anche se facciamo in modo di non ricordare bene che cosa ci avevamo messo. La guerra è per Yates, infatti, anche il tema della frustrazione, della finzione, dell’uso spregiudicato e opportunista che si fa delle proprie esperienze, del proprio e altrui dolore. Non l’esperienza, ma l’uso che se ne fa determina il valore morale di una vita, sembra dire Yates. Anche su , come in tutte le sue opere, aleggia il fantasma della guerra, dell’arruolamento. Fantasma in almeno due sensi possibili del termine: incubo e speranza. Sanno tutti che la guerra fa male, tutti compiangeranno o ammireranno il reduce, l’eroe, ma pochi sono disposti a dire a viso aperto che la guerra, come la malattia, è una chance formidabile per l’opportunista: può dare identità, garantire un destino, un riconoscimento e un ruolo nel mondo. Spesso fittizio, d’accordo, come nel caso del capitano Shepard, uomo di princìpi che si affretta a spiegare a chi insiste a chiamarlo con il suo grado che lui non è ufficiale di marina e nell’esercito un capitano è poca cosa. La guerra lo ha segnato, ma come un’occasione mancata. Quella di avere un posto nel mondo, di stare in piedi, dritto al centro di se stesso, di essere qualcosa e guardare dritto in faccia ogni interlocutore. L’opportunità, si dovrebbe dire, di essere una volta, finalmente e per sempre un adulto. O almeno di sembrarlo.
Ma la seconda guerra mondiale, come sa e racconta Yates in ogni sua storia, ha tritato soltanto bambini, ha piegato le esistenze di chi vi ha preso parte e di chi è rimasto a casa a un gioco di finzioni, di maschere, di gesti convenuti in cui riconoscersi e nella cui rete tentare di apparire diversi, migliori, in ordine con il proprio tempo. Come Frank Wheeler in , come tutti i personaggi di o delle : nessun eroe e tanti adulti mancati. Impegnati a giocare agli adulti nella speranza che nessuno venga a vedere il bluff, almeno non troppo da vicino. È la cifra dell’esistenza borghese nel secondo Novecento. Se c’è un trauma che Yates racconta nelle sue sfumature più profonde è quello che si prova svegliandosi alla vita, sul tardi, e rendendosi conto . Che gli adulti sono come te: approssimazioni di umano, privi di formule salvifiche e codici sicuri di comportamento. Da quel momento di consapevolezza in poi, da quell’illuminazione sinistra, per il resto dei propri giorni si cammina su ghiaccio sottile e già incrinato, senz’altra direzione che quella imposta dall’equilibrio precario e scivoloso del qui e dell’ora.
Ecco il territorio che ci è stato assegnato per viverci: una crepa. La frattura fra ciò che si è e ciò che si appare, e di più: la frattura fra ciò che si appare e ciò che si vorrebbe apparire. È lo spazio delle vite umane, così come lo racconta Yates. Se le cose stanno così e ogni esistenza è un’esistenza di faglia, allora ogni situazione non può che essere una situazione di disagio. E la prima spia del disagio è nel linguaggio. In Yates, in questo libro in particolare, molte future catastrofi si annunciano con la percezione di una dissonanza linguistica, un’incrinatura nel lessico, un’espressione fuori posto che compare in bocca a un personaggio e su cui un altro personaggio riflette. Troppi «carino» detti da Gloria Drake, o l’espressione del collega di Evan, «Quando sarai pronto»: come si fa a capire quando si è pronti per qualcosa?, pensa Evan con fastidio. O ancora il gelido «Basta che non diventi un’abitudine», la frase con cui Mary Shepard congeda l’ex marito, «una frase che solo una ragazza fredda, solo una ragazza “dura” avrebbe pensato...




