Yates | Bugiardi e innamorati | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 320 Seiten

Reihe: Minimum classics

Yates Bugiardi e innamorati


1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-3389-008-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 320 Seiten

Reihe: Minimum classics

ISBN: 978-88-3389-008-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



La giovane moglie di un professore universitario, due bambini figli di madri divorziate, un'impulsiva prostituta londinese, un soldato in licenza a Parigi, una scultrice che sogna fama e gloria, un impiegato che aspira a una vita libera, uno scrittore in trasferta a Hollywood: da questi personaggi così vari, eppure uniti da uno stesso desiderio di qualcosa di nuovo che cambi le loro vite, il genio narrativo di Richard Yates tira fuori sette racconti che descrivono magistralmente quel groviglio di sentimenti contraddittori, talvolta inconsapevoli e spesso incomprensibili che costituiscono un amore. E il lettore non può fare a meno di sentirsi trascinato, coinvolto, messo a nudo e infine assolto dalla propria umanità, così come vengono assolti, prima dell'ultima riga, i protagonisti di questa magnifica carrellata di affetti e menzogne.

Yates Bugiardi e innamorati jetzt bestellen!

Weitere Infos & Material


Innamoràti delle bugie di Giorgio Vasta


L’ingegnere demolitore colloca le cariche di esplosivo in una serie di punti strategici. Poi si allontana e osserva ancora una volta la scena. A quel punto raggiunge il detonatore, le cariche vengono fatte brillare, trascorrono alcuni secondi sospesi e poi, con una lentezza inaspettata e prodigiosa, il fabbricato si scuote, si contrae, collassa e comincia laboriosamente a implodere. Accade tutto con calma, con una dolcezza morbida che appare consapevole, antropomorfa, la delicatezza sonnambolica di chi potrebbe ancora riprendersi e in un rapido colpo di reni recuperare la postura originaria opponendosi al crollo. Potrebbe, ma non lo fa: nel giro di un minuto l’edificio sprofonda e dove c’era la struttura adesso c’è un magma di polvere che continua lentissimo a ingrossarsi.

I racconti di quell’ingegnere demolitore della letteratura che è Richard Yates funzionano allo stesso modo. In ogni narrazione è descrizione di un crollo, la lenta cronaca di un disastro, un ralenti in grado di rivelare, dello sgretolamento, le fasi più minute e sfuggenti, l’interstiziale che nell’esperienza quotidiana tende a scomparire. Nel momento in cui la letteratura si fa moviola, Yates si impone e ci impone di riconoscere che le distruzioni esterne, quelle alle quali assistiamo nel corso di tutta una vita (abitazioni dismesse, vestiti logori, carrozzerie arrugginite, paesaggi che progressivamente invecchiano), hanno – e sono – una durata, tempo che scorre in una progressione di metamorfosi.

Questa consapevolezza ne produce una seconda. Spietata: noi non siamo soltanto gli spettatori protetti di distruzioni che si generano fuori: siamo, in primo luogo, teatro della distruzione. Dentro ognuno di noi – e nello spazio tra i nostri corpi e le nostre storie, ovvero in quella cosa che si chiama – non si dà altro che disgregazione. Stare al mondo, racconta Yates, è un processo degenerativo. La nostra storia – nella sua estensione e nella sua composizione – è un naturalissimo disfacimento.

Rispetto alla metafora ingegneristica c’è però, nella letteratura dell’autore di Yonkers, una difformità fondamentale.

Il crollo messo in scena nelle sue storie non è l’esito patologico di qualcosa – il legame, appunto – che all’inizio era nitido e saldo; tutt’altro che essere condizione della fine, il crollo al quale Richard Yates si ostina a dare forma è originario. L’ingegnere demolitore, dunque, non è un necroforo, un esecutore testamentario, colui il quale compare nel momento in cui una struttura ha esaurito la propria funzione e deve essere drasticamente azzerata; nei racconti e nei romanzi di Yates l’ingegnere demolitore si presenta subito, all’inizio, quando il legame comincia a prendere forma, perché Yates – non come qualcosa di accidentale ma come una regola naturale – la coincidenza, se non la compenetrazione, di genesi e apocalisse. Cominciare finire.

Quando, subito prima di far brillare l’esplosivo, l’ingegnere osserva l’edificio, non sta quindi semplicemente prefigurando le macerie che da lì a qualche minuto si materializzeranno dall’implosione: così come – si dice – lo scultore è in grado di riconoscere una forma plastica imprigionata in un blocco di roccia, allo stesso modo Yates osserva i legami e percepisce in filigrana la loro costitutiva natura di rovine.

Non si tratta di sfiducia, tantomeno di nichilismo: quando Yates fa esistere i legami come sostanze fisiologicamente agoniche e disgregate non intende screditare bensì constatare. L’umano – ci racconta una frase dopo l’altra – è questo: una cosa che ci illude per deluderci, un grumo, una mistura, un ordigno prepotente e fragilissimo che deve di continuo difendersi da se stesso inventandosi miraggi e divagazioni.

E dunque i personaggi di Yates sono tutti straordinari fabbricatori di abbagli. Martiri senza carnefice – per quanto facciano di tutto per considerarsi vittime di qualcuno o di qualcosa – hanno sviluppato l’impressionante capacità di schiacciarsi nell’angolo e così, da quella prospettiva, attraversare il mondo condannati all’impotenza (ma anche – e la perversione straordinaria che Yates racconta è proprio questa – l’impotenza assolti).

Proviamo allora a ragionare più da vicino su questi scienziati del velleitarismo.

In «Oh, Giuseppe, sono tanto stanca», il racconto di apertura, Helen ha l’ambizione – che dal suo punto di vista tutto corrobora – di scolpire la testa del presidente Roosevelt per fargliene poi dono, mentre la sua amica Sloane, segretaria a Wall Street, desidera più d’ogni altra cosa scrivere sceneggiature per la radio. Entrambe protese verso la realizzazione di questi salvifici obiettivi, non otterranno mai ciò che desiderano (o, meglio, che di desiderare) e resteranno per sempre così, mineralizzate, asintoticamente allungate verso un sogno del quale non possono – non vogliono – riconoscere la reale essenza di fata morgana.

In «Partecipare alla corsa», introducendo Elizabeth Hogan Baker, la protagonista del racconto, Yates chiarisce in una sola frase in che modo disinvoltura formale e spietatezza di sguardo possano perfettamente coincidere: «Era una donna prestante, bionda, solida e ancora giovane, con una risata a piena gola sempre pronta per tutto ciò che le sembrava assurdo, e quella non era affatto la vita che aveva previsto di fare».

E ancora: in «Motivi di famiglia» Paul Colby, militare in licenza a Parigi, si concentra su un’unica ossessione: fare l’amore per la prima volta. Ma se il modello al quale ti ispiri è Hemingway – da Yates ironicamente maltrattato – e ai suoi eroi vuoi adeguare postura, andatura e visione del mondo, allora ti condannerai a una strategica inadeguatezza; la stessa incapacità di essere e di fare che contraddistingue Bill Grove, la voce narrante di «Saluti a casa», che presume di essere uno scrittore e lavora presso la Remington Rand scrivendo e correggendo i testi di una «pubblicazione aziendale esterna», progetta di andare a vivere a Parigi (l’identica utopica ambizione dei coniugi Wheeler di ) pur sapendo – glielo dice l’amico-vittima Dan Rosenthal – che «se la tua vita è pronta per andare in pezzi, andrà in pezzi dovunque».

Jack Fields, infine, in «Addio a Sally» è il perfetto uomo d’ yatesiano – un matrimonio polverizzato, una nuova relazione che si espande inerziale nel tempo, una figlia che lo costringe alla vergogna, mesi e mesi amleticamente trascorsi tra Malibu e Beverly Hills per scrivere una sceneggiatura.

Se allora, con Ennio Flaiano, «la felicità è desiderare ciò che si ha», i personaggi di Richard Yates vivono imprigionati (per nulla loro malgrado) nella condizione di chi non fa altro che desiderare ciò che non ha, intenti a ipotizzare escamotage per venirne fuori, dunque a progettare la propria infelicità.

Ma con sistema, con scrupolo.

In ogni sua narrazione, infatti, Yates mette minuziosamente in scena le illusioni e i tormenti del americano, individuandone i connotati più intrinseci e costitutivi – una media tra middle class in ascesa, i nuovi lavori della tecnologia e dell’informazione, l’identità WASP – e ponendo questi connotati in reazione con una specie di istintivo bovarismo che vorrebbe essere oltrepassamento del proprio stato (del proprio ceto, del proprio censo, di tutta la propria vita), un miglioramento indefinito ma necessario.

Nei racconti di ognuno è dunque persuaso di essere migliore della vita che conduce. Se il quotidiano è immeritata mortificazione del talento e dello stile, si deve allora necessariamente individuare una meta fuori scena – trasferirsi a Parigi, finire di scrivere una sceneggiatura, realizzare una scultura – che serva da propellente alle ambizioni. Ma desiderare, per questi Don Chisciotte borghesi nei quali a prevalere è la zavorra dei loro consustanziali Sancho Panza, vuol dire avere a che fare con l’incapacità del cambiamento. Nutriti di quella perfida consapevolezza che ti permette di conoscere la tua miseria ma ti impedisce di reagire, a questa miseria, in un modo che sia minimamente efficace, i personaggi di Yates vedono la soglia, la contemplano, non la superano. Ed è allora, quando raccontano la frustrazione suscitata dalla coscienza di non saper cambiare, che le storie di Yates trascendono il sociale, la storia e la geografia – gli anni Sessanta, New York, Los Angeles – e si conficcano, come in o in , al centro dell’umano.

Il non essere adatti (mai, a nessun costo), per i bugiardi innamorati yatesiani non è un guasto sporadico o un incidente superabile: è un marchio di fabbrica, il concretizzarsi di una specie di progetto genetico. Il loro imbarazzo non è episodico ma costante, la sostanza nella quale ogni racconto è immerso a bagnomaria – insieme a un’altra sostanza, l’alcol, l’ yatesiano, l’idolo depositato sul fondo dei bicchieri (e ai punteruoli da ghiaccio che di continuo sgretolano e tritano – ogni scena scandita da scricchiolii, da sbrinamenti). L’imbarazzo – il disagio, il turbamento, la vita come prurito, come orticaria – è presupposto e forma di ogni legame, ciò che ne modula l’evolversi.

Un imbarazzo epocale, dunque. Come quello che Franz Kafka, in un frammento, impone al padre che di fronte...



Ihre Fragen, Wünsche oder Anmerkungen
Vorname*
Nachname*
Ihre E-Mail-Adresse*
Kundennr.
Ihre Nachricht*
Lediglich mit * gekennzeichnete Felder sind Pflichtfelder.
Wenn Sie die im Kontaktformular eingegebenen Daten durch Klick auf den nachfolgenden Button übersenden, erklären Sie sich damit einverstanden, dass wir Ihr Angaben für die Beantwortung Ihrer Anfrage verwenden. Selbstverständlich werden Ihre Daten vertraulich behandelt und nicht an Dritte weitergegeben. Sie können der Verwendung Ihrer Daten jederzeit widersprechen. Das Datenhandling bei Sack Fachmedien erklären wir Ihnen in unserer Datenschutzerklärung.