Witt | Future Sex | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 273 Seiten

Witt Future Sex


1. Auflage 2017
ISBN: 978-88-7521-847-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 273 Seiten

ISBN: 978-88-7521-847-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
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Nel corso della vita abbiamo letto tante favole, ma nessuna finiva con «e vissero da soli, felici e contenti». Eppure per un gran numero di persone la vita va proprio così. Dopo la fine di una storia importante, Emily Witt si è ritrovata a gestire una libertà emotiva e sessuale che l'ha disorientata: di fronte all'infinita varietà di esperienza sessuali di colpo a portata di mano grazie a nuovi e insospettabili canali, si è ritrovata priva di un nuovo sistema di regole - sia lessicali che comportamentali - che facessero da guida: era ancora consentito innamorarsi di un partner di letto? E sognare una famiglia? La sicurezza quotidiana era compatibile con la libertà sessuale? Insomma, a vent'anni da Sex & the City e a cinque dal lancio di Tinder, «le nostre relazioni erano cambiate, ma il nostro modo di definirle no». A caccia di un nuovo vocabolario del corpo e degli affetti, la Witt intraprende allora un viaggio che spazia dalle prime agenzie di incontri virtuali al porno femminista, dagli orgasmi durante le sedute di yoga alle politiche sulla fertilità che restano pericolosamente retrograde, e lo fa con uno slancio empatico, con una scrittura intima e radicale degna delle più grandi interpreti della controcultura degli anni Sessanta.

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1

ASPETTATIVE


Ero single, eterosessuale e femmina. Nel 2011 avevo trent’anni e credevo ancora che le mie esperienze con il sesso sarebbero giunte a un epilogo, come un trenino delle giostre in battuta d’arresto. Sarei scesa, mi sarei ritrovata al cospetto di un altro essere umano e saremmo rimasti per sempre nella stazione d’arrivo della nostra vita: il futuro.

Non avevo scelto di essere single, ma l’amore è raro e spesso non è ricambiato. Senza l’amore, non vedevo il motivo di instaurare un legame definitivo con un posto piuttosto che con un altro. Era l’amore a definire il modo in cui le persone si disponevano nello spazio. Poiché aveva la capacità di ancorare le persone ai loro legami a lungo termine, quelli attorno a me lo concepivano come un evento escatologico, quasi messianico nella sua totalità. I miei amici credevano con zelo quasi religioso che un giorno sarebbe arrivato anche per me, come se l’amore fosse qualcosa che l’universo ci deve per forza, al quale nessun essere umano può sottrarsi.

Avevo avuto delle storie sentimentali in passato, ma appunto perché sapevo cos’era l’amore, sapevo anche quanto fosse vano cercare di suscitarlo o di fare in modo che durasse. Eppure continuavo ad alimentare l’idea del mio futuro, facendolo coincidere con l’automatico compimento della mia sessualità: come se fosse un destino più che una scelta. Quella visione rimaneva sospesa e luccicante nella mia testa, impervia alle tempeste delle mie esperienze reali, un punto di arrivo cristallino. Ma sapevo che l’amore non arrivava per forza per tutti, e man mano che invecchiavo iniziai a preoccuparmi che per me non sarebbe arrivato.

Ero capace di stare un anno o due insieme a un ragazzo, e vivere un anno o due senza. Tra un uomo e l’altro, a volte andavo a letto con i miei amici. Nel giro di pochi anni, anche molti dei miei amici e delle mie amiche erano andati a letto tra di loro. L’attrazione nasceva e moriva in maniera flessibile; a volte poteva dare luogo a scene di dolore o di temporanea infermità mentale, ma nella maggior parte dei casi tutto funzionava in maniera pacifica. Eravamo anime fluttuanti in un limbo, che si ammucchiavano l’una sull’altra come foglie morte, in attesa delle trombe e delle campane nuziali della fine dei tempi.

Il linguaggio che usavamo per descrivere quei rapporti non era sufficiente per formulare una definizione. La loro caratteristica saliente era che li intrattenevi pur restando single, senza sapere bene quale fosse il modo migliore per definire quel certo grado di legame. «Farsi una scopata» implicava che i nostri incontri fossero privi di convenevoli o di gentilezza. «Amanti» era un’espressione antiquata, e spesso eravamo solo amiche delle persone con cui facevamo sesso, per non dire che eravamo «solo amici e basta». Di solito, per spiegare quello che stavamo facendo, usavamo l’espressione «uscire con qualcuno», che poteva definire le sveltine di una notte come anche le relazioni che andavano avanti per anni. Le persone che uscivano con qualcuno erano single, a meno che non stessero frequentando qualcuno. Anche la parola «single» aveva perso la sua specificità: poteva significare nubile o celibe come sulla carta d’identità, ma le persone non sposate spesso non erano single: erano «in una relazione», una definizione provvisoria per indicare un impegno verso qualcuno per cui non esistevano aggettivi di una sola parola. «Ragazzo», «ragazza» o «compagno» e «compagna» implicavano un rapporto serio e una volontà specifica, e quindi andavano bene solo in alcuni casi. Una volta una persona mi ha parlato di un «non-ex» con cui aveva portato avanti una «non relazione» per un anno.

I nostri rapporti erano cambiati, ma le parole che usavamo per descriverli no.

Continuavamo a parlare come avevamo sempre fatto, come se nulla fosse cambiato, ma i vocaboli che usavamo ci facevano sentire fuori sincrono. Molti volevano avere un rapporto a cui si poteva dare un nome, come se questa combinazione potesse offrire qualcosa di più, invece di limitarsi a garantire qualcosa di familiare. Alcuni di noi hanno provato a inventare dei neologismi. La maggior parte di noi li ha evitati. Eravamo finiti lì per caso, non di nostra volontà. Qualsiasi cosa stessimo facendo, nessuno la definiva una «scelta di vita». Nessuno parlava dell’essere single a New York e del sesso occasionale con i suoi conoscenti in termini di «identità sessuale». Per me era solo una condizione provvisoria, che avrebbe cessato di esistere con il sopraggiungere dell’amore.

L’anno in cui compii trent’anni, una storia finì. Ero molto triste ma la mia tristezza ammorbava tutti, me compresa. Avendo già patito quello scoramento in altre circostanze, pensavo che ne sarei uscita fuori piuttosto in fretta. Uscivo con delle persone conosciute su internet ma faticavo a provare desiderio sessuale per degli sconosciuti. Invece mi imbattevo negli amici: quando andavo alle feste o ero in metropolitana, incontravo dei ragazzi su cui avevo fatto un pensierino in passato. Durante quell’autunno e quell’inverno feci sesso con tre persone, e ne baciai una o due. Pensavo fosse un numero ragionevole e sobrio. Si trattava sempre di persone che conoscevo da diverso tempo.

Con le persone, mi sentivo più felice quando non c’erano mediazioni tra di noi, ma a volte un non-fidanzato poteva avere un riverbero oscuro che si manifestava nel mio telefono. Era un senso di mancanza che non poteva essere colmato, privo di un destinatario specifico. Fissavo le ellissi che si rompevano e si riformavano sui vari salvaschermi. Analizzavo le foto sui social media come se fossi un medico legale. Esprimevo la mia leggerezza con punti esclamativi, risate esplicite ed emoticon. Posticipavo le mie risposte in maniera calcolata. Mi impegnavo a fingere di essere troppo indaffarata per fare caso a un messaggio, simulavo di non averlo visto se non proprio all’ultimo momento. Detestavo l’idea che il telefono mi avesse trasformata nell’ostaggio di certi stereotipi. I miei obiettivi erano la serenità e il buonumore. Andavo a tutte le feste di Natale.

Quella soddisfazione di facciata sopravvisse all’autunno e al Capodanno. A marzo, gli alberi erano ancora scheletrici ma in fase di disgelo quando un uomo mi telefonò per consigliarmi di fare un test per le malattie a trasmissione sessuale. Eravamo andati a letto circa un mese prima, qualche giorno prima di San Valentino. Ero in un bar vicino casa sua. Lo avevo chiamato e lui mi aveva raggiunta. Ci eravamo incamminati per le strade deserte verso il suo appartamento. Non ero rimasta a dormire da lui e non gli parlavo da allora.

Si era accorto di qualcosa di strano e aveva fatto un esame. I risultati del laboratorio non erano ancora arrivati ma il dottore sospettava fosse clamidia. All’epoca in cui eravamo andati a letto insieme lui stava frequentando un’altra donna che viveva sulla West Coast. Era andato a trovarla per il giorno di San Valentino, e ora lei era infuriata. Lo aveva accusato di averla tradita e lui si sentiva uno stronzo: la malattia lo aveva punito per la sua trasgressione morale. Era uno dei motivi per cui aveva letto di Joan Didion. Io mi ero messa a ridere quando me lo aveva detto – era il suo saggio peggiore – ma lui era serio. Gli ho risposto nell’unica maniera che ritenevo possibile, cioè dicendogli che non era una persona cattiva, che noi due non eravamo persone cattive. Era stata una notte spensierata ed era finita lì. Non meritava che le dedicassimo tutte quelle attenzioni. Una volta riagganciato, ero rimasta sdraiata sul divano a fissare le pareti bianche del mio appartamento. Presto avrei dovuto traslocare.

Pensavo che la faccenda si sarebbe chiusa con quella telefonata, prima di ricevere una lettera piena di recriminazioni da parte di un’amica dell’altra donna. «Mi sorprendi», diceva la lettera. «Sapevi che stava per andare a trovare un’altra donna e questo non ti ha impedito di comportarti così». Era vero. Me ne ero fregata. Quando lui mi aveva detto che «si vedeva con una», mi ero sentita rassicurata sulla natura temporanea del nostro incontro, non l’avevo considerato un modo per mettere alla prova la mia moralità. «Ti suggerisco di riflettere su ciò che hai fatto a mente fredda, da adulta», scriveva la mia corrispondente. Mi consigliava di «piantarla con quelle pantomime in cui ero sempre su di giri» e di «ponderare le conseguenze umane e reali delle azioni che si compiono nella vita».

Il giorno dopo, seduta nella sala d’attesa di un ambulatorio affollato di Brooklyn, vidi un medico spiegare come si mette un preservativo a un pubblico mezzo addormentato e in ostaggio. Aspettavamo che chiamassero il nostro numero. A mente fredda, da adulta, presi in considerazione ciò che avevo fatto. Il bisogno di contatto umano di una persona single non va sottovalutato. In quel momento ero circondata da altri newyorchesi imperfetti che forse non si erano comportati in maniera prudente e avevano violato le regole. Se non altro, a fine mattinata, avrebbero saputo come usare un preservativo.

Quando erano partiti degli sberleffi o dei segnali di concitazione da parte della folla, il medico non aveva perso la sua compostezza. Aveva detto «no» con rispetto quando una ragazza aveva chiesto se il preservativo femminile si poteva usare «dietro». Dopo il suo intervento, mentre continuavamo ad aspettare, sugli schermi montati sul muro apparvero delle pubblicità progresso sulla salute; venivano mandate a rotazione. Risalivano agli anni Novanta, e sceneggiavano la vita disordinata delle persone come me, solo che quella vita era peggiorata di gran lunga dai...



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