E-Book, Italienisch, 600 Seiten
Waltari Gli amanti di Bisanzio
1. Auflage 2014
ISBN: 978-88-7091-378-1
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 600 Seiten
ISBN: 978-88-7091-378-1
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È il 1452 quando Johannes Angelos arriva a Costantinopoli. Letterato, mistico, avventuriero, la sua vita è stata un perenne errare, dal Palazzo dei Papi di Avignone al Concilio di Basilea, dalla ricca Firenze all'ultima crociata, fino a un posto d'onore alla corte di Maometto II. Ma rispondendo al richiamo del destino e delle sue segrete origini, rinuncia a tutto per andare a difendere Bisanzio dai turchi. È lui stesso a raccontare nel suo diario l'epocale assedio, l'impotenza di un popolo che assiste al crollo delle sue mura millenarie, l'agonia di un impero ormai snaturato dagli intrighi di potere tra greci e latini, la timorata lealtà di Costantino XI contro l'astuzia machiavellica del Sultano. Pronto ad affrontare la morte certa, l'ultima cosa che Angelos si aspetta è di trovare l'amore tra le braccia di Anna Notaras, l'intoccabile figlia del temuto megaduca. Un amore tempestoso come la battaglia che imperversa sui bastioni e impossibile come il futuro dell'ultima Roma. Scritto all'indomani della Seconda guerra mondiale, Gli amanti di Bisanzio è il monumentale affresco del tramonto di un'epoca. Racchiudendo in sé la fede, gli ideali e gli universali di un'antichità che ha saputo conciliare Oriente e Occidente, Angelos è destinato a soccombere a un nuovo tempo in cui la materia ha il sopravvento sullo spirito, la legge economica su quella morale, il calcolo sulla passione: la fine dell'età di dio e l'avvento dell'età dell'uomo.
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12 dicembre 1452
Ti ho vista per la prima volta e ti ho parlato.
È stato come se un terremoto mi avesse investito, sconvolgendomi fino ai precordi, scoperchiando il sepolcro del mio cuore, tanto che non sono più stato me stesso.
Compiuti i quaranta, pensavo di essere ormai giunto all’autunno dei miei anni.
Ho molto viaggiato, molto sperimentato, molte vite ho vissuto.
Dio mi aveva parlato, si era manifestato a me sotto varie forme, mi erano apparsi angeli, ma io non avevo creduto.
Vedendo te non ho potuto non credere, dato che mi veniva concesso un tale miracolo.
Ti ho vista davanti a Santa Sofia, accanto alle porte di bronzo. La folla usciva dalla cattedrale dove il cardinale Isidoro aveva letto in latino e in greco, in un silenzio di tomba, la proclamazione dell’Unione delle Chiese. Nella messa solenne che era seguita, aveva recitato il Credo. Quando era arrivato a pronunciare le parole “e dal Figlio” molti si erano coperti il volto con le mani, mentre dai matronei giungevano amari singhiozzi. Io ero in mezzo alla ressa in una navata laterale, dietro una colonna grigia. Toccandola la sentii madida, come se anche da quei pilastri traspirasse il sudore freddo dell’angoscia.
Uscirono tutti dalla chiesa nell’ordine prescritto da un rito secolare, e in mezzo a loro avanzava il Basileus, l’imperatore Costantino, grave e solenne, la testa già incanutita sotto la corona ornata di pennacchi. Ciascuno portava abiti e colori conformi alla cerimonia, dignitari del Palazzo delle Blacherne, ministri, logoteti e antìpati, l’intero Senato, seguiti dagli arconti di Costantinopoli, nell’ordine protocollare. Nessuno se l’era sentita di non essere presente, manifestando il suo dissenso. Alla destra dell’Imperatore riconobbi fin troppo bene Giorgio Sfranze, il cancelliere, che con algidi occhi azzurri scrutava la folla. Tra i latini notai il bailo di Venezia e diverse altre personalità.
Ma il megaduca Luca Notaras, il comandante della flotta imperiale, non avevo ancora avuto occasione di vederlo. Era di una testa più alto di tutti gli altri, bruno e altezzoso. Lo sguardo era acuto e penetrante, ma nel viso riconobbi quella malinconia comune a tutte le antiche famiglie greche. Uscendo dalla chiesa sembrava agitato e furioso, come se non potesse tollerare la terribile onta inflitta alla sua Chiesa e alla sua gente.
I colori degli abiti, il bianco e l’azzurro dei greci, le mantelle da cerimonia con le iscrizioni in oro e perle, le pietre preziose multicolori scintillavano fin nelle pupille della gente. Il sole sfolgorava, e il piazzale davanti alla chiesa si era riempito di una gran folla. C’erano monaci barbuti con alti copricapi neri, gli occhi furenti di disperazione, artigiani e mercanti in gran fermento, marinai delle navi ormeggiate in porto, pescatori. Ma, soprattutto, c’erano monaci. Tra i passanti che si incontrano per le strade di Costantinopoli, uno su tre è un monaco. In mano loro ci sono già centinaia di chiese, solo sette restano sotto il controllo del patriarca riconosciuto dal Papa, e che il popolo definisce patriarca fantoccio, Gregorio Mammas.
Quando furono condotti i cavalli, la folla cominciò a fremere e inveire contro i latini. “Abbasso le interpolazioni illecite! Abbasso il primato del Papa!” gridavano. Non ce la facevo ad ascoltarli. Le avevo sentite fino alla nausea quelle proteste, nella mia giovinezza. Ma la rabbia e la disperazione della folla erano come il ruggito di una tempesta, il boato di un terremoto. Finché le voci educate al canto dei monaci lo trasformarono in un inno intonato all’unisono, come nella liturgia: “Non dal Figlio, non dal Figlio!” Era la festa di santo Spiridione.
Quando il corteo delle nobildonne uscì dalla chiesa, parte del seguito si era già mescolata alla folla ondeggiante che agitava le braccia al ritmo di quella litania. Era rimasto solo uno spazio vuoto intorno alla sacra persona dell’Imperatore. Il quale montò a cavallo col viso adombrato dalla sofferenza. Indossava una tunica di porpora ricamata d’oro, e stivali anch’essi di porpora ornati di aquile bicipiti.
Mi ero ritrovato ad assistere alla realizzazione di un sogno secolare, l’Unione della Chiesa d’Oriente con la Chiesa d’Occidente, la sottomissione della Chiesa ortodossa al Papa e l’abbandono della formula originaria del Credo. Dopo diatribe protratte per più di dieci anni, finalmente l’Unione aveva assunto valore legale, dal momento in cui il cardinale Isidoro aveva letto la proclamazione nella cattedrale di Santa Sofia. Quello stesso testo era stato letto in greco nella cattedrale di Firenze dal metropolita Bessarione, quel grande erudito dal testone rotondo che, come Isidoro, aveva ricevuto da papa Eugenio IV il berretto cardinalizio in ricompensa dei servigi resi alla causa della riconciliazione.
Già quattordici anni erano passati. Quella sera stessa avevo venduto i miei libri e le mie vesti, distribuito il ricavato ai poveri, e lasciato Firenze. Cinque anni dopo prendevo la croce. Mentre il popolo urlava, davanti a Santa Sofia, mi tornavano in mente la strada che porta ad Assisi e il campo di Varna coperto di cadaveri.
Le grida erano di colpo cessate, alzai lo sguardo e vidi che il megaduca Notaras era salito sul piedistallo di una colonna di marmo ingiallito. Con un gesto della mano impose il silenzio alla folla, e il vento gelido di dicembre mi portò alle orecchie il suo grido imperioso: “Meglio il turbante turco della mitra papale!”
A quella sfida clamorosa il popolo e i monaci risposero con urla frenetiche di entusiasmo. I greci di Costantinopoli ripeterono a squarciagola “Meglio il turbante turco della mitra papale!” Così un tempo gli ebrei avevano urlato “Liberaci Barabba!”
Tutto il gruppo degli aristocratici e degli arconti si raccolse intorno a Notaras con atteggiamento provocatorio, come a dimostrare che stavano dalla sua parte ed erano pronti a sfidare apertamente l’Imperatore. Alla fine la folla fece largo e il sovrano avanzò con il suo seguito diradato. Il corteo delle nobildonne stava ancora sfilando attraverso le enormi porte di bronzo e finì per disperdersi tra la folla vociante.
Ero curioso di vedere come la gente avrebbe accolto il cardinale Isidoro, che si era tanto adoperato in favore dell’Unione, pur essendo greco. Ma non comparve. La carica cardinalizia non l’aveva impinguato, era sempre lo stesso omino dagli occhietti vispi e sembrava ancora più magro da che si era tagliato la barba alla maniera latina. All’epoca di Ferrara e Firenze me lo ricordavo barbuto. È gravoso il ruolo di mediatore. Marco di Efeso l’aveva maledetto, accusandolo di aver portato lui la peste da Kiev a Ferrara, dove erano morti quasi tutti i suoi domestici. E aveva interpretato la disgrazia come un intervento della giustizia divina per punirlo della sua apostasia.
Il popolo in piazza, sotto l’ombra dell’enorme cupola di Santa Sofia, ondeggiava tumultuante. In mezzo al nero delle tuniche dei monaci luccicavano i copricapi trapunti di pietre preziose e le tuniche di seta multicolori di nobili dame finite lì per caso. Il cielo era algido, di un colore livido, nonostante il sole.
“Meglio il turbante turco della mitra papale!” Era fuori dubbio che queste parole il megaduca Notaras le aveva pronunciate dal cuore, per amore della sua città e della sua fede, e in odio ai latini.
Ma nonostante l’innegabile sincerità, non potevo impedirmi di leggervi un sottile calcolo politico. In mezzo a quella folla tumultuante aveva giocato le sue carte per garantirsi il sostegno della stragrande maggioranza della popolazione. Nessun greco era favorevole all’Unione, nemmeno lo stesso Imperatore, che vi si era rassegnato solo per portare a buon fine il trattato di alleanza e di assistenza che doveva assicurare a Costantinopoli, in quelle ore di pericolo, l’appoggio della flotta pontificia.
La flotta la stavano già armando a Venezia. Il cardinale Isidoro aveva assicurato che avrebbe preso il mare non appena fosse giunta a Roma la notizia ufficiale della proclamazione dell’Unione. Ma oggi il popolo, al passaggio dell’Imperatore, aveva inveito contro di lui: “Apostata! Apostata!” L’offesa più tremenda, vile e devastante che si possa rivolgere a un uomo. Era il prezzo che a Costantino toccava pagare per dieci navi da guerra. Sempre che arrivassero.
Il cardinale Isidoro aveva già portato con sé un manipolo di arcieri reclutati a Creta e nell’arcipelago. Le porte della città erano state murate. I turchi avevano saccheggiato i dintorni e chiuso il Bosforo. La loro base era una fortezza che il Sultano aveva fatto costruire in pochi mesi l’estate prima nel punto più stretto delle due sponde, dalla parte di Pera, sulla riva cristiana. Fino alla primavera precedente nello stesso luogo si ergeva la chiesa dell’arcangelo Michele, ma adesso le sue colonne marmoree servivano a rafforzare le mura dei...