Valcanova / V?l?anova | L'isola del crollo | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 208 Seiten

Reihe: Sírin

Valcanova / V?l?anova L'isola del crollo


1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-6243-447-8
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 208 Seiten

Reihe: Sírin

ISBN: 978-88-6243-447-8
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Due donne, Radost e Asja, con la loro storia. Fatta per l'una di chili persi e di amori orgogliosamente ignorati in cambio di un rigoroso equilibrio solitario, per l'altra di un compagno scorbutico e di un ex marito da raggiungere in una seducente isola croata. Si conoscono a malapena, eppure le unisce un legame inatteso: Radost si diletta di astrologia e, quando legge nelle stelle che su Asja incombe una minaccia, infrange il proprio guscio per tentare di salvarla. Ma il suo intervento sembra creare scompiglio negli astri, perché le rispettive vite, prima così agli antipodi, iniziano man mano a convergere, fin quasi a scambiarsi di posto... Un romanzo sul desiderio di controllare il mondo e sulla ricerca della libertà, che parla di quella cosa bizzarra a cui diamo il nome di 'destino'. E di certo, nessuno sa essere ironico quanto il destino. Un romanzo che parla di donne, uomini, di bambini e gatti. Anche di un'isola. E del pericolo che tutto crolli.

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seconda parte

? Già dalla prima mattina il tempo è cambiato. Quando mi sono svegliata non c’erano nuvole e il sole splendeva accecante, ma per la prima volta senza vento. Mi infilai i jeans e scesi in cortile. Tutto appariva diverso, agitato e irrequieto, molto luminoso e nuovo di zecca. Come se il vento con una enorme scopa avesse spazzato via tutta l’intimità, il silenzio e il raccoglimento. Adesso il cielo sembrava enorme e molto alto, la luce feriva gli occhi e gli ulivi si flettevano fino al suolo, come argentee ballerine.

Ho raccolto i fichi caduti in terra e mi sono diretta in cucina per mettere su l’acqua per il caffè. Sul tavolo c’era un biglietto piuttosto gentile di Emco, non mi aveva svegliato perché era partito alle cinque, quanti chilometri doveva fare fino a Monaco, e che insomma, facessi la brava.

Tento di dosare il caffè in modo che non ne venga fuori un litro, ma non è che mi riesca molto. Alla fine ottengo 200 grammi di acqua marrone scuro, che sembra piuttosto un tè. Almeno però è bollente.

Porto fuori la tazza, le fette di pane abbrustolito e tutti i formaggi che trovo nel frigo. Il silenzio è perfetto e si sente solo il vento. Le vicine villette in legno sono chiuse con i catenacci e sul davanti non ci sono macchine. Arrivano i due gatti randagi e mi si strofinano contro per avere un po’ del mio cibo. Ora sono la loro unica speranza e mi si stringe il cuore a chiedermi cosa faranno durante l’inverno. E io cosa farò, durante l’inverno?

Durante l’inverno chiudo le portefinestre che danno sui due balconi, le blocco con il fermo e ci infilo sotto le stuoie, in modo che non passi l’aria. Durante l’inverno porto dentro la casetta del gatto e metto il tappeto sulle assi nude del soggiorno, in modo che sembri più caldo. Durante l’inverno lavoro a maglia, ma non ho la sensazione che mi aspetti un inverno del genere. Tutti i fili appaiono recisi, e io adesso sono Robinson sull’isola deserta. Robinson nel labirinto.

Apro la mappa e con una penna evidenzio tutti i sentieri che ho intenzione di percorrere. Poi comincio a preparare il bagaglio. In ogni caso rimango in jeans, anche se fa caldo. Il pullover nello zaino, un litro di acqua minerale e due sandwich, la stuoia, il costume, perché là dove posso arrivare a piedi mi sarà necessario il costume, un libro per leggere e la macchina fotografica che Emco mi ha comunque lasciato. Scatto una foto ai due gatti, che mangiano felici l’emmental, e agli ulivi-ballerine che danzano nel vento. Termino con un “autoritratto”, distendo le braccia e mi faccio una foto. Sembro stordita e un po’ spaventata. Come al solito, non sono venuta bene, ma la conservo. La chiamerò “Primo giorno”.

Mi accendo una sigaretta e bevo il caffè annacquato. Proprio così: “Primo giorno.” Perché sono venuta per questo. Solo per il tempo in cui rimarrò assolutamente sola. Io non rimango mai da sola. Mišo grande lavora in casa. Quando sono in ufficio, intorno a me c’è sempre un manicomio e rimango sola unicamente quando cammino per la strada. Ma anche le strade sono piene di gente. Non puoi pensare che il modo di rimanere sola è quello di camminare per la strada. Diventi pazza. Ho la sensazione che nella mia vita avrei dovuto portare a termine qualche cosa di molto importante e non ci sono riuscita, anzi non l’ho neanche cominciata, e non ho avuto nemmeno il tempo di pensare quale potesse essere, solo perché non sono mai rimasta da sola.

Si impadronisce di me una positiva voglia di fare qualcosa. Pulisco il tavolo. Controllo ancora una volta lo zaino. La mappa, naturalmente. E i soldi. Ho alcune kuna ma per qualsiasi evenienza prendo anche una banconota da 100 euro che ancora non ho cambiato. La penultima. In ogni caso non sono affatto sicura di poter ritrovare la casa, stasera. Bene. Sigarette e accendino. Mi impossesso di una bella stecca di cioccolato dalle riserve di Emco. Che altro? Non ho un sacco a pelo, e perciò ficco nello zaino una giacca impermeabile appesa all’attaccapanni. Chissà se dovrò passare la notte sotto qualche cespuglio. E anche gli assorbenti, è un po’ presto ma non si sa mai. Ancora un attimo, metto pure delle aspirine, se mentre cammino comincia a farmi male qualcosa, ma mi rendo conto che sto esagerando e mi fermo in tempo.

Gli occhiali da sole. Sono indispensabili con questo vento e questa luce bianca che ferisce. Mangio l’ultimo fico e mi avvio.

? Salgo la scala puzzolente di piscio di gatti, trovo la chiave ed entro. Da Me è tutto pulito e in ordine, come sempre, ma non oso guardarmi nel grande specchio. Anche senza lo specchio però vedo che il mio collant ha una smagliatura, e l’orlo della gonna a destra si è scucito, e pende. Avverto di essere sudata e di avere in bocca un cattivo sapore. Il cappello ormai è immettibile, gualcito com’è, e lo devo buttare. Sembra che sia stato calpestato. Invece di gettare tutto nel cesto della biancheria sporca e di preparare la vasca da bagno, faccio ancora due passi verso il letto e mi ci sdraio con i vestiti indosso. Più gualciti di così non potranno essere. Sono affamata, anche se ho mangiato un intero pacchetto di popcorn sul treno.

Afferro la mia borsa dal pavimento e tiro fuori il quaderno che mi ha dato Žecka. La scrittura lo riempie quasi per intero ma la mia grafia è talmente brutta da essere quasi irriconoscibile, e il tutto sembra scritto da un pazzo.

Non so quanto tempo mi occorrerà per ristabilire il mio equilibrio, per ripulirmi dai veleni che ho inghiottito e per tornare a essere io. Questa andata a Mezdra mi sembra un errore madornale. Non solo non ho avuto risposta alla mia domanda, ma la domanda stessa ormai mi appare assai poco chiara. Cos’è che desideravo capire, e se adesso consulto il tema natale, davvero le cose si metteranno a posto da sole?

Perché mi è chiaro cosa ha voluto fare Žecka con me. Ho letto abbastanza su cose di questo tipo.

Mi alzo e vado all’armadio cinese. Ho la sensazione che le mie gambe siano diventate più pesanti e mi è difficile immaginare di poter correre di nuovo. Apro la carta e la osservo davanti a me – circolare e divisa in settori. Mi è chiaro a cosa somiglia. Somiglia a una grande pizza calda.

Poi faccio di nuovo cose che non ho mai fatto. Mi tolgo il collant, lo butto sul pavimento e mi infilo le scarpe sui piedi nudi. Prendo la borsa e mi avvio – con la gonna scucita e la borsa che emana ancora odore di sudaticcio. Non mi lavo neanche i denti. Scendo le scale e mi dirigo verso via Pirotska.

La gente non mi guarda, esattamente come non mi guardava prima, quando la gonna era ben stirata e l’orlo non pendeva. La prima pizzeria che si incontra è molto più giù, dopo aver attraversato il canale. È un baracchino a buon mercato self-service, con i tavoli sulla strada. Mi prendo due pizze e una birra. In un bicchiere di plastica.

Tutti i tavoli sono liberi, non ci sono altri clienti. In questo almeno sono fortunata. Metto una pizza davanti a me e l’altra di fronte, come se fossi con qualcuno che è andato un attimo al gabinetto. Non mi guardo attorno e comincio subito a mangiare. Solo che adesso dal baracchino esce un tizio corpulento di una certa età, con i baffi, e si siede al mio tavolo, anche se gli altri sono liberi. Pure lui si è preso due pizze, e anche due birre. Appoggia tutto sul tavolo, si siede e la mia seconda pizza viene a trovarsi proprio davanti a lui. Allungo la mano e me la avvicino.

– Non aver paura, non voglio mangiarti la tua pizza – dice l’uomo.

Indossa una specie di tuta, pulita però, e forse persino stirata. La tuta è verde, e ha smaglianti bande gialle sui lati. Certamente è la sua tenuta abituale per andare a spasso, perché non sono i suoi abiti da lavoro. I suoi abiti da lavoro sono azzurri, di tela grezza, sporchi di pittura a olio bianca. Adesso lui salda il ferro e fa le grate per le porte, ma prima ha dipinto le finestre con pittura a olio bianca. Si chiama Petko.

– Non è che ti do fastidio, vero? – dice Petko e io capisco che se gli dicessi che mi dà fastidio, non si sposterebbe affatto.

Petko si è seduto al mio tavolo, nonostante gli altri fossero liberi, con la chiara intenzione di darmi fastidio. Si sarà detto: “Con che diritto questa qui ha a sua disposizione un intero tavolo? Facciamola stare un po’ più stretta.” Proprio questo si è detto, e proprio con queste parole. E inoltre suo figlio è in prigione e a lui hanno giocato un brutto tiro per una divisa. Lo guardo e dico:

– Non mi disturba affatto, non si preoccupi.

Questo fa imbestialire Petko ancora di più, sperava di poter litigare, ma adesso si confonde e decide che forse si tratta di un caso diverso. Per questo dice:

– Alla salute. Aspettiamo qualcuno?

E tocca il suo bicchiere di plastica con il mio.

Io continuo a mangiare la mia pizza, ma ormai non sono più così affamata. Lo hanno ingannato facendosi dare 200 euro per una divisa. Gli hanno detto che gli avrebbero procurato un lavoro all’estero come capo di un cantiere. E Petko è molto tirchio e si considera povero. In confronto a me è piuttosto ricco, ma si riterrà sempre povero. Inoltre Petko è malato, ma ancora non lo sa. Non partirà mai per lavorare all’estero.

Dico:

– Alla salute.

E bevo il mio bicchiere di birra. Poi dico:

– Le hanno cucito una divisa molto bella, e il lavoro andrà in porto. Deve solo avere pazienza. Se vuole, può mangiare anche la...



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