Tranquillo / Conte | I dieci passi. Piccolo breviario sulla legalità | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 240 Seiten

Tranquillo / Conte I dieci passi. Piccolo breviario sulla legalità


1. Auflage 2011
ISBN: 978-88-96873-16-8
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 240 Seiten

ISBN: 978-88-96873-16-8
Verlag: ADD Editore
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Mafia, legalità, società, informazione, soldi, dovere. Questi e altri termini fanno sempre più parte del dibattito mediatico e del nostro vocabolario di tutti i giorni, e dare un senso alle parole è una questione di vitale importanza. Per tutti, tutti i giorni. A farlo, con dieci termini chiave che formano il percorso evocato dal titolo, ci prova una coppia inusuale, quella formata da un giudice palermitano, Mario Conte, e da un giornalista sportivo milanese, la voce del basket italiano, Flavio Tranquillo. Partendo da un'amicizia cementata dalla comune passione per lo sport e l'antimafia che va ben al di là dei rispettivi ambiti professionali, il libro prende le mosse da un processo, celebrato dal giudice Conte, in cui alla sbarra sono finiti estortori e favoreggiatori di Cosa Nostra, condannati a risarcire anche le associazioni anti-racket che stanno sorgendo numerose in Sicilia. Dallo specifico processuale il discorso si allarga su altri mondi, a partire dalla magistratura e dall'informazione per arrivare alla vita quotidiana e alla società civile. L'idea è quella di porre le basi per un'antimafia che deve coinvolgere tutti nel nome della legalità, del senso del dovere e della responsabilità individuale, nella convinzione che coinvolgere tutti nella battaglia contro questa 'malapianta' da estirpare sia l'unica maniera di fare non solo dieci, ma cento passi avanti.

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La prima mafia da combattere è quella che sta dentro di noi.

Rita Atria

In teoria dovrei saperlo, ma non so se riesco a spiegarlo bene. Come ci è venuto in mente di scrivere questo libro?

La risposta più banale, ma allo stesso tempo più fedele, è «parlando». Parlando delle cose che ci interessano e appassionano. Dando consistenza alla prima delle parole chiave di questo libro, «dialogo». Ognuno di noi si prefigge dei traguardi, che cerca di raggiungere piano piano nel corso della propria vita.

Quello che ci muove nello specifico è il tentativo di riportare nella nostra società maggiore obiettività e farle ritrovare rigore etico. Per mostrare alle nuove generazioni la strada giusta da seguire. E per raggiungere un traguardo così ambizioso il dialogo è a dir poco fondamentale.

E, attenzione, per obiettività non si intende che tutto e tutti hanno lo stesso diritto di cittadinanza e sono sullo stesso piano. E neppure che si possa dire qualsiasi cosa facendola finire in un’insalata dialettico-mediatica in cui il tono di voce prevale sui contenuti.

Beh, un traguardo da nulla…

Detto così potrebbe sembrare un proposito fin troppo maestoso, lo ammetto. Ma se uno deve provarci, tanto vale pensare in grande. In realtà credo che ci abbia unito un comune senso del dovere, cioè del rispetto delle regole che ogni società civile decide di imporsi al momento della sua nascita. Quello che cerco di rispettare nel lavoro, come durante la celebrazione di «Addiopizzo quater», un processo che tornerà molto spesso all’interno del nostro colloquio.

Soltanto un recupero del senso dello Stato può consentirci di evitare la triste deriva che sta travolgendo le regole di cui sopra. E per senso dello Stato intendo il significato più alto dell’espressione, quello simboleggiato dal sacrificio di tutti coloro che hanno perso la vita per servirlo.

È particolarmente significativo che tale esigenza nasca da due persone cresciute nel culto dello sport vero, della competizione leale in cui vince il migliore, colui che veramente lo merita. E il secondo accetta il verdetto e abbassa la testa per migliorarsi dentro le regole, non fuori o al confine delle stesse. Con la voglia matta di vincere la prossima volta e di superare l’avversario. Prendo a prestito le parole di Blaise Pascal: «L’impegno a pensare bene è il principio della morale».

Galateo vorrebbe che le presentazioni stessero all’inizio. Ma come avrete modo di capire nel corso della lettura, aspettatevi l’inaspettato. Detto quindi perché siamo qui, il che ci premeva assai, onoriamo con piacere il dettato delle buone maniere. Io sono un giornalista televisivo, classe 1962, che si occupa di basket per Sky Sport. Se nessuno dei miei datori di lavoro sta leggendo, faccio pagato quello che farei gratis: guardare delle partite di pallacanestro e parlare. Sono curioso per natura e varie vicende mi hanno portato ad approfondire l’argomento della lotta al crimine organizzato. Cercherò di esaudire le mie (inesauribili) curiosità nella parte dell’intervistatore interessato (nel senso buono del termine). Per fortuna almeno uno dei due autori fa un lavoro serio…

Come mi hanno insegnato i miei genitori, l’educazione innanzitutto. Mi chiamo Mario Conte e sono nato a Palermo il 7 luglio 1967.

Da giovane ho avuto due grandi passioni: scrivere e lo sport.

A chi lo dice…

Quindi sono già diverse le cose che ci uniscono. Anch’io, peraltro, faccio un lavoro che mi piace. Magari più pericoloso ma molto affascinante.

Quando avevo diciassette anni ho cominciato a collaborare con un giornale locale e ho scritto per quasi dieci anni di sport, diventando pubblicista.

Mi sono laureato in giurisprudenza a ventun anni e ho subito iniziato la trafila dei concorsi.

Sono entrato in magistratura nel 1995 e mi ritengo una persona fortunata perché esercito una professione che mi dà soddisfazioni e mi consente di fare qualcosa di utile per la società.

Nel periodo del tirocinio, che da noi dura in media sedici mesi, ho avuto la possibilità di girare tutti gli uffici giudiziari e di vivere esperienze straordinarie come quella del processo Andreotti, che mi ha insegnato tante cose. Quando sei giovane certe cose le vedi soltanto sui giornali o in Tv. Trovarcisi all’improvviso dentro provoca emozioni di intensità ineguagliabile. Ricordo ancora con orgoglio le prime pagine dei quotidiani dell’epoca in cui si faceva cenno, all’interno dei resoconti sul processo del secolo, alla figura di un giovane magistrato, piccolino e con la barba, che seguiva quasi impaurito le toghe dei Pubblici ministeri di quel processo, Natoli, Lo Forte e Scarpinato. Non dimenticherò mai le riunioni nella stanza del procuratore Caselli in cui si discuteva per ore di strategie processuali e la straordinaria disponibilità di tante persone, che fino a quel momento avevo visto soltanto in televisione, nei miei confronti.

Poi in realtà, al momento della scelta della prima sede, preferii optare per il posto di giudice al Tribunale di Palermo. Ritornando al mio vecchio amore, ovverosia la procedura civile, materia nella quale mi ero laureato.

Se non domandassi qualcosa di più sul processo Andreotti farei torto al mio ruolo di maieutico della domenica.

È stato un processo affascinante, un processo che ha fatto storia.

Per me è stato come recitare la parte di Alice (per ironia della sorte il nome di mia moglie) nel Paese delle meraviglie. Ricordo come se fosse ieri la prima volta che sono entrato in una macchina blindata con Gioacchino Natoli e l’ingresso nell’aula bunker dell’Ucciardone. La calca dei giornalisti, le discussioni del professor Coppi, l’alterità del presidente Ingargiola: tutte cose che per un giovane appassionato di diritto come me erano manna caduta dal cielo.

Naturalmente la domanda più frequente che gli amici mi facevano era: «Ma, alla fine, Andreotti è colpevole o innocente?»

Sono abbastanza sicuro che anche l’attenzione del lettore casuale sia salita, nella speranza di trovare una risposta univoca a quella domanda. Risposta che neppure la sentenza di Cassazione è stata in grado di dare, esprimendosi in maniera articolata. Mi spiace deludere, ma il fatto è che non ci si può proprio esprimere in questi termini (colpevole vs innocente) su una vicenda simile. Avendo conosciuto dall’interno la straordinaria complessità del fascicolo, ho maturato la ferma convinzione di non parlare mai di un processo senza averne studiato davvero a fondo le carte.

Oggi invece si tende a parlare di tutto senza preoccuparsi di averne conseguito il titolo o le capacità. Chiedere a un giudice se un soggetto è colpevole o innocente senza avergli consentito di vedere «le carte» è come chiedere a un medico se un paziente è sano o malato senza consentirgli di visitarlo. Figuratevi chiederlo a uno che fa un altro mestiere.

Comunque, almeno della sentenza passata in giudicato possiamo parlare.

Certamente, soprattutto per spiegare il significato tecnico della pronuncia giurisdizionale (il verdetto) relativa al processo in questione.

La dichiarazione di prescrizione su parte della contestazione mossa al senatore, ad esempio, è stata interpretata dai più come un’assoluzione, quando invece è l’esatto contrario! Basti pensare che la sentenza contiene l’espressione «il reato di associazione per delinquere commesso fino alla primavera del 1980 è estinto per prescrizione». Laddove la prescrizione, per espressa previsione normativa, viene dichiarata tutte le volte in cui non risultano dagli atti elementi per poter pronunciare assoluzione piena. Come dire che il nostro sistema giudiziario mette al centro l’accertamento della colpevolezza dell’imputato. Se un soggetto è innocente e ciò emerge dagli incartamenti processuali, il giudice ha il preciso dovere di emettere una sentenza di assoluzione piena.

La prescrizione, di contro, è una causa di estinzione del reato. Per cercare di essere più chiari, quando emerge dagli atti che vi sono elementi a carico di un soggetto ma è trascorso un certo lasso temporale dal momento della commissione del reato, l’ordinamento prevede che, pur accertata sostanzialmente quell’azione illegale, il colpevole venga «salvato» proprio dal decorso del tempo.

Può sembrare una soluzione barbara, ma a ben pensarci è già una sorta di richiamo fatto dal legislatore al contenimento dei tempi dell’accertamento e del processo, fondamentali per somministrare autentica giustizia.

Allora capii che veramente io ero il più sapiente perché ero l’unico a sapere di non sapere, a sapere di essere ignorante.

Socrate

L’aspetto saliente da osservatore esterno mi pare la necessità di conoscere fatti e norme prima di partire in quarta verso le conclusioni. Le motivazioni della sentenza Andreotti parlano di «partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi di una mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una concreta collaborazione». Definirla un’assoluzione è, come dire, leggermente impreciso… Forse sarà che nello sport e nell’informazione, due campi che conosco bene, si vuol solo sapere chi vince e chi perde, chi ha ragione e chi torto, chi è innocente e chi colpevole. Ma la vita, purtroppo o per fortuna, è ben più complessa di così.

Il nostro è un Paese strano, che vive un momento particolare.

C’è una spasmodica ricerca della verità, agevolata anche dalla facilità ad acquisire informazioni grazie allo sviluppo dello strumento informatico e in particolar modo di...



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