E-Book, Italienisch, 175 Seiten
Reihe: collezione SUR
Trabucco Zerán Quando le donne uccidono
1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-6998-478-5
Verlag: SUR
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Quattro storie vere
E-Book, Italienisch, 175 Seiten
Reihe: collezione SUR
ISBN: 978-88-6998-478-5
Verlag: SUR
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Alia Trabucco Zerán (1983) è una scrittrice e saggista cilena. Dopo un master in scrittura creativa alla NYU, si è dottorata in letteratura latinoamericana presso lo University College di Londra. Il suo esordio, La sottrazione (SUR 2020), è stato finalista al Booker International Prize mentre il suo secondo romanzo, Pulita (SUR 2024), è stato tradotto in diciotto lingue e le ha valso nel 2024 il Prix Femina Étranger. Quando le donne uccidono ha vinto il British Academy Book Prize nel 2022 e il suo adattamento cinematografico, Due vite parallele (2024), è già disponibile su Netflix.
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Introduzione
Fuorilegge
Assassine, rispondo sempre quando mi chiedono qual è l’argomento del mio libro. Sto studiando casi di donne assassine. E ogni volta, come in un copione già noto, si verifica la stessa scena. Uomini e donne aggrottano la fronte, mi guardano compunti, fanno cenno di sì con la testa e approvano la mia decisione di affrontare un problema così urgente, così terribile, così comune in America Latina. È il mio turno. Il momento in cui devo correggere l’equivoco, scandendo lettera per lettera, e constatare che l’empatia si trasforma in disapprovazione e diffidenza. Invece di sentire la parola , per uno strano lapsus tanti capiscono il contrario: .
Superato lo sconcerto, il malinteso mi ha permesso presto di capire un punto fondamentale: era più facile immaginare una donna morta che una donna dispensatrice di morte. Potevo anche dire o , ma lo stesso abbaglio, più culturale che uditivo, riusciva a cancellare l’immagine perturbante di una donna armata e sostituirla con una disarmata e sotto terra. Donne assassine era un vero e proprio ossimoro, parole inascoltabili se messe insieme, inimmaginabili, al punto di provocare curiosi fenomeni di sordità o le fantasie più terrificanti: l’evocazione di streghe, medee, vampire, .
Questo genere di lapsus, peraltro, non si dà con la parola , e anche in questo caso l’udito non c’entra. Le invisibili leggi di genere agiscono in modo sotterraneo, incanalando il copione della violenza sempre nella stessa direzione. Un uomo che uccide, non importa quale sia il movente e chi la vittima, quali l’arma e le circostanze, non mette in discussione la propria mascolinità. Il suo atto violento rientra nel novero delle possibilità e addirittura ne conferma la condizione di . Una donna che uccide, al contrario, è doppiamente fuorilegge: fuori dalle leggi penali codificate e fuori dalle leggi culturali che regolano la femminilità. E quella doppia trasgressione, quella ribellione duplicata era la causa dell’eloquente cortocircuito. Se volevo scrivere questo libro, se il mio intento era rintracciare casi emblematici di donne omicide, sarebbe stato necessario riaddestrare l’udito per sentire l’eco dei loro spari.
Ma perché volevo scrivere questo libro? Cosa mi portava a frugare tra fascicoli polverosi e affrontare sguardi pieni di sospetto e di timore? In un momento in cui il femminismo è sceso in piazza per denunciare le dimensioni epidemiche della violenza di genere, non è una domanda banale. Di sicuro ci sarà qualcuno che riterrà questa pubblicazione un errore. Un’inutile divagazione in un tema minoritario proprio quando si è appena risvegliata una fragile coscienza di quali sono in maggioranza le vittime del maschilismo. E ci sarà anche chi scaverà in queste pagine in cerca di un’ingannevole equivalenza tra la violenza sistematica subita dalle donne e una violenza, di fatto, eccezionale. Non è mia intenzione servire agli scopi di quei lettori. Non voglio sminuire la frequenza allarmante dei femminicidi né promuovere l’assassinio come arma di lotta femminista. Le donne che uccidono sono un’eccezione ed è meglio così. Perché allora accostarmi alle autrici di quei delitti? Cosa mi ha attratto nelle omicide?
Lo stimolo che innesca un libro è sempre difficile da individuare. Quando ripenso alla nascita di questo, vedo un intreccio di curiosità, cocciutaggine, interesse morboso, desiderio e ribellione. A queste origini intricate si aggiungono un’intuizione e un aneddoto. Comincerò dalla prima. Si tratta di un sospetto che mi ha guidato fin dall’inizio ma che solo ora, al termine di un percorso tortuoso, sono riuscita a confermare: anche ricordare le donne è un compito del femminismo. E non mi riferisco alla riabilitazione di figure ingiustamente perseguitate come le streghe che Silvia Federici salva dalla pira dell’ignoranza. E neanche alla guastafeste che Sara Ahmed rivendica quale commensale più fastidiosa e necessaria al desco familiare. Sto parlando di vere malfattrici, di assassine confesse, di donne al limite dell’irrecuperabile, ma cruciali per un femminismo che voglia ampliare il ventaglio affettivo di uomini e donne. Uomini che non fondino più la loro mascolinità sulla violenza e donne che possano esprimere la rabbia senza perdere la loro umanità.
La pressione con cui a noi tutte viene imposto di essere madri perfette, figlie e mogli esemplari e professioniste di successo ha raggiunto livelli insostenibili. L’angelo del focolare di Virginia Woolf aleggia intorno a noi e ci assilla con le sue feroci richieste dentro e fuori casa. Opporre resistenza alle sue pretese e interrogare le sue intenzioni è oggi un gesto di sopravvivenza. Chiedere all’angelo perché mai dobbiamo essere sacrificate e passive, mute e servizievoli, e cosa c’è di male nell’esprimere la nostra rabbia o frustrazione. Woolf propone perfidamente di assassinarlo. Io suggerisco invece che quell’angelo e le omicide si prendano per mano. Sotto il suo sguardo vigile, propongo di recuperare non eroine ma delinquenti, detenute, anche donne che hanno impugnato un’arma e sparato a bruciapelo. In risposta alle importune pretese dell’angelo, suggerisco di riscattare dall’oblio un pugno di assassine, di donne anomale, agli antipodi di Simone de Beauvoir o di Amanda Labarca, con vite che in nulla assomigliano a quelle di Flora Tristan o Mary Wollstonecraft, ma che ci permettono di constatare cosa succede quando deludiamo le aspettative che ci pendono come una ghigliottina invisibile sulla testa. I loro delitti, per quanto sconvolgenti, sono una finestra privilegiata da cui osservare com’è cambiato il significato storico dell’essere donna. Le loro contraddizioni e i loro fallimenti fungono da specchio opaco in cui vedere riflessi sentimenti di rado concessi alle donne. Ed è per questo che ricordarle, ripercorrere i loro atti e i processi che le hanno viste sul banco degli imputati, ricostruire le scene dei loro delitti è fondamentale per il femminismo. Vederci in loro, vederle in noi e pronunciare i loro nomi senza timore: Corina Rojas, Rosa Faúndez, Carolina Geel e Teresa Alfaro.
Le ragioni che mi hanno portata a concentrarmi su queste quattro donne sono tante: le armi che hanno impugnato, usate contro bambini e adulti, la risonanza pubblica dei loro delitti, le condanne sorprendenti e il fatto di avere ispirato romanzi, canzoni, poesie, opere teatrali e film. Avrei potuto includerne altre, certo. Assassine come la statunitense Aileen Wuornos, immortalata nel film , o come la contessa sanguinaria Erzsébet Báthory, resa indimenticabile dalla penna di Valentine Penrose e Alejandra Pizarnik. O anche María del Pilar Pérez, i cui plurimi omicidi le hanno valso in Cile, meno di dieci anni fa, il nomignolo di «nuova Quintrala». E poi, perché no, avrei potuto occuparmi della vecchia Quintrala, Catalina de los Ríos y Lisperguer, battezzata dalla critica Alicia Muñoz «la madre perversa della nazione cilena», e accusata in epoca coloniale di avere avvelenato il padre, ordinato la morte dell’amante e torturato e assassinato numerosi schiavi. Invece ho preferito seguire una strada meno battuta. Ho voluto vedere e ascoltare donne come tante altre, professioniste, proletarie, aristocratiche e donne di servizio, che hanno commesso i loro crimini nel Cile del xx secolo ma mi hanno permesso di guardare oltre gli angusti confini del paese e lo specifico dei casi che le hanno viste coinvolte.
Gli omicidi commessi da Rojas e Faúndez, da Geel e Alfaro hanno suscitato nella società cilena reazioni estreme: indignazione, incredulità, stupore, terrore e perfino un silenzio eloquente. Possibile che delitti così sanguinosi fossero opera di donne? Quella violenza omicida era frutto dei progressi del femminismo? Una volta raggiunta la temuta uguaglianza, le donne avrebbero ucciso tanto quanto gli uomini? Iconici nella storia giudiziaria cilena, questi omicidi si sono verificati in momenti chiave del femminismo. O forse la logica va invertita: ogni passo avanti del femminismo ha avuto il suo delitto esemplare, crimini che sarebbero serviti da capro espiatorio per punire la donna insubordinata. Non è fortuito che il caso di Corina Rojas, del 1916, abbia coinciso con gli albori della prima ondata femminista; che quello della giornalaia ambulante Rosa Faúndez sia servito nel 1923 a sottolineare le conseguenze dell’inserimento delle donne nel mondo del lavoro; che il delitto commesso nel 1955 dalla scrittrice María Carolina Geel sia stato preso a pretesto per discutere dei pericoli del femminismo dopo la conquista del pieno diritto di voto; e che la serie di omicidi scoperti nel 1963 e commessi della collaboratrice domestica María Teresa Alfaro si sia verificata nel decennio della liberazione sessuale delle donne. Questi casi e le loro rappresentazioni, come nota con lucidità l’intellettuale argentina Josefina Ludmer, coincidono con irruzioni delle donne nella sfera pubblica e servono a contenere, mediante la condanna o la grazia, l’ansia innescata dagli imminenti cambiamenti nelle strutture di potere maschili.
Man mano che avanzavo nella ricerca, le cose si facevano sempre più difficili....