E-Book, Italienisch, 390 Seiten
Testoni Essere eterni
1. Auflage 2025
ISBN: 979-12-5981-340-4
Verlag: Il Saggiatore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Manifesto contro la morte
E-Book, Italienisch, 390 Seiten
ISBN: 979-12-5981-340-4
Verlag: Il Saggiatore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Una delle cose che abbiamo compreso nel corso della nostra storia è che la morte è, tra tutte, l'esperienza più universale e ineludibile. Eppure, nello stesso momento in cui noi esseri umani abbiamo realizzato la sua esistenza, abbiamo anche iniziato a desiderare il suo superamento. Questo desiderio ha dato vita nei millenni a superstizioni fugaci e religioni millenarie, visioni mistiche e fantasie letterarie, sistemi filosofici complessi e ricerche scientifiche postumane, ma ognuna di queste soluzioni ha finito per alimentare una ulteriore voglia di allontanare i limiti che la biologia ci ha imposto. In queste pagine Ines Testoni ripercorre la tradizione del pensiero occidentale per offrire nuove risposte a un presente assieme colmo di disincanto rispetto alla possibilità di una vita spirituale dopo la morte e ossessionato dalla necessità di sconfiggere il tempo. Ripercorrendo le riflessioni di Parmenide sul nulla assoluto, «impensabile» e «inesprimibile», e gli studi della psichiatra Elisabeth Ku?bler-Ross sui malati terminali, la sensazione di eternità provata e descritta tra gli altri da Jorge Luis Borges e le conclusioni di Baruch Spinoza o Emanuele Severino, Testoni tenta di individuare una nuova via per superare il terrore dell'annientamento senza finire in derive autoritarie o nichilistiche. Essere eterni è un manifesto per liberarci dall'angoscia della fine. Un invito a ripensare il rapporto tra tempo, morte e trascendenza in modo non dogmatico, riconoscendo attraverso la ragione ciò che siamo davvero: esseri in bilico tra il desiderio di assoluto e la coscienza della nostra fragilità. Perché quando riusciremo a scoprire ciò che ci rende, da sempre, immortali, allora potremo anche trovare un modo radicalmente nuovo di vivere questa esistenza.
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Ricordo immortale
Quando suo padre morì nel 1863, Caroline Haskell Ingersoll non si limitò a vivere il dolore del lutto privatamente, ma pensò di elaborarlo proiettando nel futuro un’iniziativa che facesse sopravvivere lei e il caro estinto legando il comune cognome a riflessioni sull’oltrepassare la morte. L’intenzione era quella di non far tramontare alcuni cardini degli insegnamenti paterni, in particolare la possibilità di mantenere acceso un confronto franco e aperto su ciò che crediamo segua l’ultimo respiro. Laureato ad Harvard, dove aveva appreso e poi incarnato i principi dell’universalismo liberale, George Goldthwait Ingersoll per decenni aveva servito come ministro unitario in parrocchie del Vermont, Massachusetts e New Hampshire. I suoi sermoni erano tutt’altro che dogmatici e, poiché materialismo e nichilismo imperversavano, erano volti a coltivare domande piuttosto che sentenze, per esprimere un cristianesimo interiore profondamente dialogico e forse anche consentaneo a quello di Søren Kierkegaard. A quel tempo non era facile essere testimoni del Risorto, perché le riflessioni, tra gli altri, di Ludwig Feuerbach, Karl Marx, Max Stirner, Michail Bakunin, Ivan Sergeevic Turgenev, Arthur Schopenhauer, Giacomo Leopardi e Friedrich Nietzsche mettevano drammaticamente in luce i sintomi evidenti dell’agonia irreversibile e incurabile di Dio, ovvero di ogni volontà di verità relativa alla sopravvivenza di alcunché dopo la morte. E quella tempesta oscillante tra pessimismo e riduzionismo, che fomentava in Europa sentimenti di delusione, sconcerto e risentimento, aveva ormai già attraversato l’oceano e influenzato profondamente anche gli ambienti accademici statunitensi.
Dinanzi a siffatto scenario, quando venne il suo momento, trent’anni dopo il trapasso del genitore, Caroline decise quindi di non darsi per vinta e istituì con un lascito di 5000 dollari – somma all’epoca piuttosto ingente – le Ingersoll Lectures on Human Immortality. Capace di intuire che né dogmatismi né ortodossie avrebbero più potuto rimediare al tramonto delle certezze tradizionali, stabilì che ogni anno, all’Università di Harvard, le figure ritenute più prestigiose che avessero affrontato con i propri studi questi temi avrebbero tenuto letture magistrali sull’immortalità umana, nel libero rispetto di prospettive non confessionali o comunque sempre ecumeniche, aperte alla filosofia, alle scienze e alla letteratura. Correva l’anno 1896 quando il magnifico rettore Charles William Eliot varò la rassegna, accogliendo una lectio magistralis sulla teodicea tenuta da George Gordon.1 Di maggior impatto fu però la lezione dell’anno successivo, quella di William James,2 il quale prese in considerazione l’oggetto più impegnativo del contendere, senza appellarsi ad alcuna religione, con l’intento di difendere l’idea che noi umani siamo immortali e che le critiche mosse dal riduzionismo psicologico erano da considerarsi inconsistenti.
Nel corso del Novecento e quasi fino ai giorni nostri, le Ingersoll Lectures si sono affermate come un’importante piattaforma di dialogo interdisciplinare sui temi del morire, dell’aldilà, dell’anima e della persistenza della coscienza, accogliendo prospettive provenienti da filosofia, psicologia, teologia e scienze della natura. Il programma prevede l’avvicendamento ogni anno di relazioni di grande interesse, volte a delineare le possibili argomentazioni che potrebbero aiutare a fronteggiare la morte, di cui con certezza sappiamo soltanto di non sapere che cosa ci attenda dopo. Ma mentre in quella prestigiosa sede procedeva la discussione sui possibili rimedi da attribuire alla finitudine, si sviluppavano in misura crescente anche le scoperte neuroscientifiche che irresistibilmente rafforzavano la prospettiva secondo cui tutto ciò che abbia a che fare con la fenomenologia della coscienza può essere spiegato rimandandone l’origine alla materia grigia. È stato forse inevitabile, dunque, che, dopo una prima fase in cui sembrava che si potesse recuperare una qualche forma di dualismo che autorizzasse a coltivare l’idea che l’ultimo respiro non sia la fine di tutto perché qualcosa di simile all’anima sopravvive al corpo, di fatto le Lectures di Harvard abbiano assunto toni sempre meno teoretici, abbandonando la volontà di persistere sulla linea di James per rivolgersi in misura preponderante alla descrizione delle forme di rappresentazione meramente psicologica e culturale dell’immortalità.
In questa traiettoria, sono state molto apprezzate la relazione di Paul Tillich3 e certamente non di meno quella di Elisabeth Kubler-Ross, la quale ha saputo intercettare nel suo indimenticabile lavoro con i morenti e i loro familiari quella sensazione speciale che sentiamo nel fondo del nostro cuore, la stessa che ci dà il coraggio quotidiano di affrontare la vita con tutte le sue difficoltà.4 Stiamo parlando del sentimento di immortalità al quale ormai – dopo la morte di Dio – diamo tanto meno credito quanto più speranzoso affidamento. Come dice la psichiatra svizzera, si tratta di un intimo vissuto che spesso associamo al termine spiritualità, in quanto ci fa sentire parte di un tutto che trascende la materia, donandoci la possibilità di percepirci oltre i confini del corpo mortale. Ciò che però è necessario oggi capire bene è che, proprio mentre intercettiamo tale stato d’animo, simultaneamente temiamo che si tratti di un’illusione. E da siffatta discrasia dipendono gli esiti più rischiosi, perché, come ogni dissonanza cognitiva, essa ci induce a cercare teorie e ideologie che ci convincano che si tratta di una speranza dotata di senso, fugando così i dubbi che invece potrebbero metterci in allarme rispetto ad alcune implicazioni che sarebbe bene mantenere sotto controllo. Ciò che meno sospettiamo nel subire questi effetti è che cerchiamo affannosamente un rimedio al terrore suscitato da ciò che riteniamo essere il maggiormente temibile, come mostra inconfutabilmente Emanuele Severino,5 perché crediamo nell’impossibile, ovvero attribuiamo alla morte il potere di annientarci.
Partendo dal punto fermo secondo cui immortalità non significa vita individuale infinita che si mantiene perennemente nello scenario del mondo, il «manifesto» che questo libro espone per un verso intende rendere esplicito perché ci sentiamo immortali e per l’altro perché siamo anche convinti di non esserlo. Peraltro, la trattazione non vuole considerare irrisori gli effetti di tale contraddizione, la quale ci porta a fidarci di risposte già date o perché ci sembrano più facilmente comprensibili o per il semplice fatto che sono le uniche che conosciamo, nonostante esse siano già state messe irreversibilmente in questione.
Ignorare l’eterno
A partire dal pensiero eternalista di Severino, questo testo entra quindi nel merito di due aspetti inscindibilmente legati: da un lato l’eternità che già da sempre riguarda ogni essente – quindi l’impossibilità che morire significhi cadere nel nulla – e dall’altro l’esperienza che ne abbiamo, la quale viene però simultaneamente alterata da precomprensioni che ci impediscono di interpretarla e rappresentarla adeguatamente. Il fraintendimento avviene infatti nello stesso istante in cui intuiamo l’impossibilità dell’annientamento. E proprio mentre viviamo l’intima percezione di infinito, che potremmo identificare con la dimensione della spiritualità da cui scaturisce ogni forza interiore, ci impegniamo a negare che il referente di quanto indiziato goda dello statuto di realtà. Purtroppo, tale misconoscimento è un generatore infinito di bizzarrie che si esprimono attraverso la ricerca di una salvezza che la fede nell’annientabilità delle cose ci impone infine di negare. E in siffatta distorsione si inscrive la speranza di immortalità in cui ci pare di poter confidare con la fiducia tributata a culti da cui derivano discriminazioni, persecuzioni e guerre.
L’argomento è importante perché, come in parte dimostra il successo delle Ingersoll Lectures, nella rappresentazione della possibilità di un rimedio alla morte troviamo l’aiuto per affrontare l’angoscia derivante dalla consapevolezza di essere mortali. Poiché però quando si spera si dubita,6 in quanto l’agognare alla realizzazione di un desiderio è basato sull’incertezza dell’esito di appagamento, l’aspirazione all’immortalità ci porta ad arroccarci in religioni che ci parlano di una qualche forma di aldilà e parimenti ci insegnano a disprezzare e odiare chi si affidi a tradizioni differenti. Come discute Severino, la più autentica risoluzione al problema della morte è data solo da un sapere certo e incontrovertibile, ovvero dal discorso capace di sostenere quanto il nostro esistere non possa essere scalfito da alcun corrosivo nulla.7 Sapere questo non è come ignorarlo e, altresì, tale competenza ci permette di diagnosticare le forme con cui si manifesta l’erranza spirituale, intesa come il nomadismo derivante dal deragliamento in cui consiste il tradurre in prodotto della volontà ciò che invece è già necessariamente posseduto.
Il «manifesto» dunque percorre gli scenari dei dirottamenti esistenziali derivanti dal confondere l’immortalità intesa come eternità – ovvero come l’impossibilità che la morte...




