E-Book, Italienisch, 350 Seiten
Reihe: Narrativa
Stein Autobiografia di tutti
1. Auflage 2017
ISBN: 978-88-7452-661-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 350 Seiten
Reihe: Narrativa
ISBN: 978-88-7452-661-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
A 100 anni dalla nascita di Fernanda Pivano, ripubblichiamo la sua magistrale traduzione di Autobiografia di tutti di Gertrude Stein, uscita nel 1976 per La Tartaruga e ormai introvabile, insieme a due testi della stessa Pivano, che ne testimoniano le controverse vicende editoriali in Italia, e a una prefazione di Laura Lepetit. Scritto a 63 anni nel 1937, dopo il successo dell'Autobiografia di Alice B. Toklas, questo libro racconta un'epoca irripetibile all'incrocio tra due mondi: l'Europa delle avanguardie moderniste, patria d'adozione in cui l'autrice visse la maggior parte della sua vita, e gli Stati Uniti in cui era nata, con il loro immaginario smisurato e il loro lascito di sogni frantumati. Una smagliante intelligenza si combina a un'ironia spavalda e, soprattutto, a una lingua irriverente, in cui racconto, discorso mentale e flusso del parlato scorrono a un ritmo inarrestabile. Oltre a un'impressionante galleria di celebrità (Hammett, Chaplin, Picasso, Dalí, Eleonore Roosevelt, Sherwood Anderson), sono la vivacità e l'anarchica ricchezza della vita - incontri, idee, luoghi, viaggi, cani - ad animare queste pagine mobili come uno stormo in volo: con le parole della Pivano, Gertrude Stein 'ama l'eterno presente della vita come ama l'eterno presente della narrazione'.
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Introduzione
di Fernanda Pivano
Anni lontani, giovane biondo per una bionda ragazza, passeggiate sfiancanti prima che il buio mi costringesse a rientrare nella famiglia severa, impensabile fare l’amore in un tempo che non prevedeva la rivoluzione sessuale, e dunque interminabili conversazioni intellettuali, amore sublimato in discussioni su questo o quel pittore, su questo o quello scrittore: fu cosí che imparai su Picasso tutto quello che appena finita la guerra si poteva sapere, ancora molto esoterico, un po’ misterioso, vagamente ribelle, con la critica ufficiale italiana non ancora ammansita e Ettore Sottsass, mio innamorato e mio amore, scatenato a adorarlo come io adoravo i miei eroi.
L’Autobiografia di Alice B. Toklas entrava bene nella storia: poca sperimentazione e molta cronaca, annotazioni sottili, scrittura scaltrissima, testimonianze di primissima mano, e in piú la prefazione di Pavese a fare da passaporto, cosa ci voleva di piú?
Poi Federico Veneziani ci accompagnò da Alberto Mondadori che ogni tanto in quel dopoguerra faceva nella sua casa lussuosa serate a soggetto facendo parlare su un tema un amico e poi facendo discutere gli altri; e subito sul pianoforte a coda che nessuno suonava vidi una copia dell’Autobiografia di tutti, come ritrovare una amica imprevista, che subito mi liberò dal disagio di ritrovarmi fra tanti letterati ignoti ed ignari.
Non ricordo di cosa si parlasse quella sera; prima della fine si parlò dell’Antologia di Spoon River per la quale piú o meno ero lí e Alberto mi chiese di ritornare per parlare di Gertrude Stein; cosa che feci, arrivando a Milano con una valigetta e cambiandomi vanesia all’albergo diurno per non farmi vedere con l’abito stazzonato dal treno e alla fine mi dissero cose gentili, e Alberto mi chiese di tradurre quel libro e di usare quel che avevo detto come prefazione italiana.
Cosí cominciai a lavorare sulla Stein, onde sempre piú lunghe in un mare che finí per diventare un oceano, diluvi di citazioni, inondazioni di appunti, da qualsiasi parte sfiorassi il problema precipitavo in abissi di temi da esplorare, di personaggi da accostare, di volumi da studiare su quegli anni di rivoluzione e trasformazione quando cambiò la faccia del mondo mentre cambiavano l’arte e la scienza, il costume e la storia.
In quegli abissi rimasi affondata caparbia per mesi, finché i mesi oltrepassarono l’anno. In mezzo andai a Parigi, senza vagone letto, lunga notte con le gambe distese sulle valigie, città ancora misteriosa e piú grande di me, lunghe stecche di pane croccante riempite di prosciutto a Saint-Germain ancora sartriano, scoperta delle uova sode nei bar e dei mendiants nei bistrot ai quali mi aveva introdotto Raymond Queneau mentre traducevo Le Chiendent, ma i tempi delle sue silhouette senza vita per me erano ancora lontani, avida di vedere e conoscere, di sentire e toccare, di provare e rispondere, 1947, tracce ancora sanguigne di una sanguinosa guerra già inutile ma ancora ansiosissima spinta per ricominciare da capo, per ricostruire qualcosa, per cancellare il passato.
Cosí mi ritrovai in rue Christine da Alice B. Toklas, che non avevo mai visto in fotografia, sorpresa di questa minuscola donna fragile come un mucchietto di ossa e forte come indomabile acciaio, sguardo trafiggente che aveva giudicato ben altro che quella giovane provinciale adorante, mani che avevano offerto il tè ai personaggi piú famosi del mondo.
Ma soprattutto a lei, a Gertrude Stein. Da allora Alice diventò una delle mie mete a Parigi e ora per ora mi raccontò le cose inaccessibili che ormai si leggono piú o meno alterate sulle decine di biografie pubblicate in edizioni di lusso e tascabili. Allora, in quel dopoguerra trepidante ed ansioso, sulla Stein c’erano soltanto le poche parole pubblicate da Carl Van Vechten nella prima antologia postuma ma ancora preparata in vita, con una breve introduzione che la Stein fece appena tempo a scrivere prima di morire, “Not until I am a lion, I said, I was not completely certain that I was going to be but now here I am, thank you all”. Non prima che sia diventata un leone, dissi, non ero del tutto certa che lo sarei diventata ma ora eccomi qui, grazie a tutti.
Il leone era lí, fantasma quasi tangibile, sul letto nuziale preparato ogni sera e nell’armadio a muro segreto che nascondeva edizioni introvabili e manoscritti preziosi, sotto ai quadri azzurri/marroni/grigi della leggenda cubista e sui cuscini di piuma della cronaca rosa, davanti al pesante tavolo antico e ai soffici oggetti che lo ingentilivano; un fantasma rivissuto da Alice con le sue lunghe dita affrante dal peso delle grandi Pall Mall e la risatina ribalda a concludere aneddoti e storie, le miscele di tè misteriosi ed esotici e le super decadenti scatolette di velluto nero riempite invece che di fiori di tartine per i miei squattrinatissimi viaggi, Alice indimenticata e carissima, commossa dei miei sforzi di fanatico amore per far dividere ad altri la mia cieca scoperta, checklist (donato) inaspettato e poi indispensabile, Plain Editions (altro dono) insperate e magari consunte, A rose is a rose is a rose scoperta col cuore in un tonfo, minuscola e rossa e dorata e verdissima nel rilievo sul bianco di un foglio della sua carta da lettere, quante emozioni intorno a quel saggio.
Finché il saggio fu scritto, e Vittorini lo vide, e mi sgridò per le citazioni che erano troppe e mi parlò esotericamente del mio errore a parlare di qualità invece che di quantità e comunque il saggio era lí e lo consegnai trepidante, interminabili pagine grevi, e in mezzo qualche pagina che parlava soltanto del libro.
Lo consegnai insieme alla traduzione, 1947, ma la traduzione rimase a ingiallirsi, coi bordi arricciati presto diventati nerastri, senza che venisse mai pubblicata. Insindacabili ragioni editoriali mai divulgate, forse soltanto antipatie di direttori letterari, magari fragili gelosie inconfessate, chi lo sa: io non lo so di sicuro, mai l’ho saputo e ormai so che non lo saprò mai, melanconicamente mai piú.
Via via che il tempo passava insieme alle speranze, il saggio uscí sulla Rassegna d’Italia, 1948, n° 8 e piú tardi meno tagliato su Il pensiero critico, 1952, n° 5 e ancora piú tardi nel mio La balena bianca e altri miti, 1961; ma quel pezzo centrale, da pagina 21 bis a pagina 24 dei lunghi fogli formato protocollo che andavano da pagina 1 a pagina 34 con una ventina di fogli aggiunti col bis, finora non è mai stato pubblicato e lo pubblichiamo adesso che Laura Lepetit e Annamaria Gandini col loro Studio Verde diventato La Tartaruga mi hanno fatto tirar fuori i fogli ingialliti e rileggere una traduzione di 241 pagine di quei lunghissimi fogli perché intanto il testo 1937 sul quale l’avevo tradotto era stato aggiornato 1964 da Alice Toklas che aveva tagliato ma qualche volta anche aggiunto e dunque che fare? Lasciare tutto come nella lontana traduzione 1947 sul testo 1937 o seguire le indicazioni 1964 di Alice?
Quasi sempre le abbiamo seguite, anzi le ho seguite, caparbia e fanatica, esausta di tenerezza e fatica, come se ogni modifica, ogni taglio, ogni aggiunta mi riportasse a quelle miscele misteriose di tè, a quella moquette grigia calpestata dalle lunghe unghie inermi del povero Basket ormai sclerotico e cieco, bravo poodle/caniche che accompagnò per decenni Gertrude nelle passeggiate liberatorie e si fece accompagnare (finché entrambi ne ebbero la forza) da Alice nelle riservate viuzze del loro quartiere.
1947/1976. In mezzo dramma di Alice diseredata da un trucco legale, morte di Alice troppo sola il 7 marzo 1967 sette settimane prima di avere novant’anni, richiesta di Alice di venire sepolta nella stessa tomba di Gertrude al cimitero Père Lachaise, dopo aver pagato la lapide che avrebbe dovuto essere posata sul rovescio di Gertrude, attenta a non essere indiscreta neanche dopo la morte, attenta a non dimenticare nessuno nel lungo testamento, sia pure in piccola parte, ricordando proprio tutti, perfino l’ormai non piú giovane donna italiana alla quale preparava scatolette di velluto nero piene di panini per i lunghi viaggi notturni ed estatici.
Poi Edward Burns pubblicò le sue lettere e alzò molta polvere e il 2 settembre 1976 a mezzogiorno venne scoperta una targa dedicata a Gertrude e ad Alice nell’antica rue de Fleurus che fece da sfondo all’Autobiografia di Alice B. Toklas e alla vita degli scrittori americani piú famosi di quegli anni ’20.
Fece da sfondo all’Autobiografia di tutti, 1937/1964, tradotta da me 1947/1976 in omaggio ad Alice, con lacrime sul suo testamento e sorrisi sulla sua vita immortale al di là della sconfitta del corpo.
Del libro non mi va di parlare perché parla da sé. Ne ho parlato in quegli anni lontani ed ecco cinque della cinquantina di pagine che scrissi trentenne senza biografie e senza critica, con curiosità inappagabile e inesausta ricerca del significato di una persona nella rivoluzione di due continenti e di un secolo.
(1976)
Questa è la storia che conduce alla Everybody’s Autobiography, il volume di ricordi che viene presentato ora al pubblico italiano. Quando lo ha scritto, la Stein, nata nel 1874, aveva sessantasei anni1. Era innamorata della vita (forse fu questo il segreto della sua eterna giovinezza); soprattutto era innamorata di tutto ciò che vive e si trasforma: del presente eterno della creazione. Perché questa grande ribelle, questa anarchica programmatica, è una delle figure piú coerenti della storia...




