E-Book, Italienisch, 142 Seiten
Reihe: Nichel
Stassi Con in bocca il sapore del mondo
1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-3389-030-2
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 142 Seiten
Reihe: Nichel
ISBN: 978-88-3389-030-2
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
L'ultima spiaggia di via Veneto e un uomo con il cappotto in ogni stagione (Vincenzo Cardarelli). Un concerto di passerotti sul davanzale e un baritono mancato (Eugenio Montale). Lo scalo di un treno alla foce di un fiume e un accordatore di parole (Salvatore Quasimodo). Il salotto borghese di una casa in collina e un collezionista di farfalle (Guido Gozzano). Un mercoledì delle ceneri e un vecchio capitano in esilio (Gabriele D'Annunzio). Il baraccone di un tiro a segno e l'uomo dei boschi (Dino Campana). Il retrobottega di una libreria antiquaria e un figlio del vento (Umberto Saba). Una raccolta di francobolli e un funambolo solitario e malinconico (Aldo Palazzeschi). Un concerto di bossa nova e un bambino di ottant'anni che aveva la voce di Omero (Giuseppe Ungaretti). L'invettiva contro la luna e una donna che pagava i caffè con dei versi (Alda Merini). Fabio Stassi rende omaggio al Novecento e alla grande dimenticata del panorama letterario nazionale, la poesia, con una coraggiosa avventura mimetica e fantastica. Rimpatria nel mondo questi dieci autori, li fotografa in un gesto, li fa parlare in prima persona, dopo la morte e oltre la morte, da quel punto sospeso dello spazio e del tempo in cui sopravvive la voce di ogni poeta. Ne viene fuori un racconto in presa diretta della loro vita, di quello che pensavano della scrittura, delle idiosincrasie, ossessioni, desideri, dolori, allegrie. Dieci monologhi appassionati e coinvolgenti, una dichiarazione d'amore.
Autoren/Hrsg.
Weitere Infos & Material
Il mercoledì delle mie ceneri
Me ne sono andato come un attore sulla scena. La sera di carnevale, pochi minuti fa, all’ora del crepuscolo. Dalle labbra non mi è uscito nemmeno un sospiro. Avevo sfiorato la morte così tante volte che quasi pensavo non arrivasse più. Ma l’ho sempre detto che sui tavoli piccoli si lavora meglio, e anche morire è un lavoro che richiede fatica, e stile.
Avrei potuto lasciare tutti a bocca aperta con un’ultima impresa, beffare il mondo un’altra volta come avevo beffato la marina inglese a Buccari o l’esercito austriaco quando volai su Vienna. Sparire su una mongolfiera o un dirigibile sopra il Polo Nord, in un viaggio senza ritorno, tra i ghiacci puri e incorrotti con il cuore ibernato in una montagna di cristallo. Ma in fondo è giusto così, nessun rimpianto. Per uno come me non ci poteva essere luogo migliore che questa scrivania, il vero teatro di tutte le mie avventure.
Ho reclinato la testa, toccato un’ultima volta con la punta delle dita questo legno così familiare, masticato un verso che nessuno potrà più sentire.
La morte ha il sapore di una poesia incompiuta.
Presto si alzerà il lamento delle donne e riempirà la casa. Mi porteranno a letto, mi distenderanno. Poi cercheranno di mettersi in contatto con Roma. E Mussolini dall’altro capo del telefono dirà: Finalmente.
Subito dopo comincerà la girandola delle ipotesi: è stato un cocktail letale di droghe; lo hanno avvelenato i tedeschi, perché quel pagliaccio con i baffetti alla Charlot non gli era mai piaciuto; si è tolto la vita. Ma saranno soltanto voci, che non smetteranno di correre. Anche se gli arsenici li avevo a portata di mano, sul mobiletto vicino la biblioteca. E la data, sì, la data... non avrei potuto trovarne una più adatta.
L’ultimo giorno di festa. L’ultima sera in cui indossare una maschera. Le luci di un interminabile veglione che si spengono. E quest’aria da epilogo, che si respira ormai in tutto il continente e che è giunta fin qua, fino alla mia villa isolata come un monastero.
Domani sarà il mercoledì delle mie ceneri. Nessuno chiederà l’autopsia di questo corpo stanco. Mi faranno sparire rapidamente: Sono diventato un ingombro già da molto tempo. Il regime mi considerava un cadavere ambulante, un uomo sopravvissuto a se stesso, un comandante senza truppe, un maestro senza discepoli. Anche l’anno, in fondo, è perfetto. Il 1938. Con me cala il sipario sull’ultimo carnevale della lunga epoca che ho vissuto: l’intero teatro dell’Europa sta per andare a fuoco, la rovina è già alle porte.
Anche per la mia nascita avrei voluto un’occasione di leggenda. Mi sarebbe piaciuto venire alla luce in mare, su un brigantino che portasse il nome di una donna, . E in certe ore sognanti che la letteratura concede, mi convinsi che le cose fossero andate proprio così.
Fu in una casa, invece, che presi vita, in corso Manthoné. Pescara allora era un borgo di campagna di cinquemila anime morte. Io fui il primo maschio della mia famiglia, dopo due sorelle, e per questo fui molto amato e godetti subito di privilegi.
Della mia infanzia ricordo soprattutto la Maiella, i suoi fianchi profondi, i nevai. È a quel paesaggio che non ho mai smesso di somigliare: sono un impasto di promontori e di golfi, un trabocco pieno di reti proteso in mare. Ma a undici anni mio padre mi spedì a Prato, in un collegio, perché mi .
È lì che feci il mio voto all’eleganza: non mi sarebbero mai mancati sciarpe, guanti e abiti di buona fattura né un inesauribile valzer di parole in bocca. Posso dire con orgoglio di avere fatto ballare tutte le parole che esistono sulle mie labbra, senza peso né stanchezza, di averle liberate dalle colonie penali dei vocabolari, e di avergli ridato vita. Mi sono anche divertito a inventarne: , , , , ... o ad accoppiarle in modo insolito: la , il , i . L’italiano è come il costume di Arlecchino: una veste di infiniti colori e sfumature, una girandola di suoni che non si dovrebbe mai barattare per qualche giacca usata.
No, il fiato non l’ho risparmiato. Mi ammalai per la nostra lingua di un amore assoluto e inguaribile. Ma se devo dire un nome, su chi mi contagiò questa febbre, dico Giosuè Carducci. Gli scrissi una lettera senza compromessi: avrei consacrato la mia vita alla poesia, e questa è l’unica promessa a cui mi sia mantenuto fedele. Non avevo ancora sedici anni.
Pubblicai il mio primo libro e tutti mi presero sul serio. Sul uscì una recensione a quattro colonne dal titolo premonitore: «A proposito di un nuovo poeta». I conti con quel mago di Carducci, e poi con il Pascoli, li avrei fatti più tardi, quando per trovare la mia voce avrei dovuto recidere con loro ogni parentela.
Ma oltre alla poesia, in collegio, scoprii anche l’amore. Una domenica pomeriggio, nella sala deserta di un museo etrusco, di fronte a una statua di bronzo della Chimera, nel momento in cui la mia vita stava per diventare la mia arte, e l’arte la mia vita, baciai e morsi la bocca a una ragazza che aveva tre anni più di me e si chiamava Clemenza. Quel primo bacio mi portò fortuna, perché da allora in poi le donne sono sempre state clementi con me. La chiamai l’ora della Chimera, il momento in cui ogni equilibrio tra due esseri si rompe e il desiderio straripa. Non molto dopo, spezzai in un postribolo una fiala d’essenza di gelsomino.
Sì, le donne sono state la mia ossessione. A ciascuna diedi un nomignolo diverso, perché si ricordassero che in quel modo le chiamavo io soltanto, e nessun altro.
Le ho tradite tutte, è vero. Barbarella, la Duse, le altre. Mia moglie, abbandonata anche dal padre, si gettò da una finestra. Eppure ogni volta che una di loro si ammalò le accudii con la tenerezza e l’attenzione di un infermiere. Perché tutte, a mio modo, le ho amate. E non dico soltanto nel lungo tempo che passai con loro , quel tempo sospeso di piacere e libertà e distrazione che nient’altro, più del sesso, ci regala: l’esperienza della morte prima della morte, e dell’eterno ritorno. Mi considerarono un corruttore di costumi, e la cosa mi fa ancora sorridere; sono stato invece un educatore coraggioso. Il sesso è uno scandalo soltanto per gli ipocriti e i bugiardi.
Falsario delle parole e dei sentimenti, dissero di me. Ma il poeta è una razza particolare di fingitore, come ha scritto bene un mio collega portoghese.
Le mie donne giuro di averle amate con tutto me stesso: con gli occhi, con le mani, con il fiato. Dicevano che quando parlavo con loro mi trasfiguravo, le facevo sentire come se fossero il centro dell’universo. Lo erano, per me. Mi restituivano la bellezza che mi mancava. Le amavo, e attraverso l’amore le creavo. Come sussurravo loro, .
Ma la verità ultima, e definitiva, è la stessa del principio: per quanto sia stata grande la mia passione, non sono mai riuscito ad amare nessuna donna quanto la letteratura. Se è questo, il mio peccato, mi costituisco: è alla letteratura che mi sono offerto interamente. Con lei sono stato più monaco dei monaci. E la letteratura tollerò da me un così alto numero di amanti soltanto perché ne traessi ispirazione, ma prima o poi me ne liberassi.
Roma fu l’inizio del carnevale che ha termine oggi, il che mi riempiva la gola, e i polmoni. Ci approdai per iscrivermi all’università, e mi prese subito la febbre. L’alloggio lo trovai in un palazzo all’ultimo piano di via Borgognona, accanto a una casa di tolleranza.
Di quella Roma di fine secolo, bizantina e decadente, fui il cronista più immaginoso e sorprendente che questa città abbia mai avuto. Ne celebrai la vita mondana in centinaia di articoli e attraverso decine di rubriche e di pseudonimi. Scrissi di tutto, come un invasato fotografo della penna: raccontai le mostre d’arte e le esposizioni, le piume scarlatte che ornavano i cappellini femminili, le carrozze che sfilavano per il Corso, i lucidi telai delle biciclette, gli incontri di boxe e di scherma, le battute di caccia alla volpe, le corse dei cavalli a Capannelle. E poi i matrimoni, i funerali, i duelli, gli adulteri, l’intollerabile aria provinciale di certi deputati, i calzoni stretti come la maglia di un saltimbanco o quelli larghi che portava a spasso il principe di Castagneto. E i pranzi, i cristalli, i profumi.
Portai la letteratura nel giornalismo e divenni io stesso un eroe da rotocalco. Scappai con la figlia di un duca e la misi incinta. Mi battei a duello più volte e in uno fui ferito alla fronte: con ogni probabilità, devo la mia precoce calvizie all’eccessivo percloruro di ferro che usarono per disinfettarmi.
A Roma imparai anche ad avere bisogno del superfluo. Mi circondai di fiori, divani, tappeti, stoffe, piatti giapponesi, avori, biscotti Peek Frean... Arrivai ad avere oltre duecento paia di scarpe.
Leggevo, intanto, tutto quello che mi capitava: i russi, le avanguardie, gli...