Sontag | Sotto il segno di Saturno | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 216 Seiten

Reihe: Figure

Sontag Sotto il segno di Saturno


1. Auflage 2023
ISBN: 979-12-5480-062-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 216 Seiten

Reihe: Figure

ISBN: 979-12-5480-062-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Sotto il segno di Saturno raccoglie alcuni tra i più brillanti saggi pubblicati da Susan Sontag negli anni Settanta. In quest'affascinante galleria critica di grandi melanconici della letteratura e dell'arte, Sontag delinea con acutezza i tratti febbrili e le apatie, le provocazioni e le risacche, le tenaci ossessioni e i piaceri stravaganti che innervano le opere di alcuni autori chiave della modernità, maestri di sensibilità estetica talmente singolari da non avere allievi: Antonin Artaud, Walter Benjamin, Elias Canetti, Roland Barthes, Paul Goodman, Hans-Jürgen Syberberg. Ognuno di loro è a suo modo sovversivo e inquieto, pungolato dal tempo in dissoluzione e da un appetito insaziabile per le parole, le immagini, le passioni della mente, le trasgressioni del senso comune, le classificazioni eccentriche, le collezioni e i repertori - con un gusto ansioso e liberatorio per l'accumulazione e la decifrazione di libri, figure, memorabilia privati, pensieri e metapensieri. In controluce, questi ritratti di minuziosi, caparbi esploratori della conoscenza e della coscienza appaiono come autoritratti mascherati della stessa Sontag - che, da un punto di vista in questo caso oppositivo, non teme di ritornare sui propri passi come ha fatto spesso nella sua vita, per smontare il fascino camp di Leni Riefenstahl definendolo fascista.

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Accostarsi ad Artaud


Un movimento teso alla destituzione dell’“autore” è in atto ormai da più di cento anni. Fin dall’inizio, l’impeto che lo ha animato è stato – e resta – apocalittico: innescato dalle recriminazioni e dalle esultanze suscitate dal convulso decadimento degli antichi ordini sociali, e alimentato da quell’universale sensazione di vivere un momento rivoluzionario che continua a galvanizzare gran parte delle élite morali e intellettuali. L’attacco sferrato contro l’“autore” prosegue vigoroso, anche se la rivoluzione non c’è stata o, là dove è avvenuta, ha prontamente soffocato il Modernismo letterario. Nei paesi non riplasmati da una rivoluzione il Modernismo, anziché sovvertire la cultura letteraria alta, ne è gradualmente divenuto la tradizione dominante e continua a elaborare codici che, pur temporeggiando con le nuove energie morali, mirano a preservarle. Se l’imperativo storico che sembra gettare discredito sulla pratica stessa della letteratura ha avuto una vita così lunga – un arco temporale in cui si sono succedute varie generazioni letterarie –, ciò non significa, tuttavia, che sia stato frainteso. Né, tantomeno, che il malessere dell’“autore” sia ormai fuori luogo o passato di moda, come talvolta si suggerisce. (Si tende a considerare con un certo cinismo anche le crisi più spaventose, quando si ha l’impressione che si protraggano troppo, senza riuscire a risolversi). La longevità del Modernismo mostra, piuttosto, ciò che accade quando si rinvia la preconizzata risoluzione di gravi inquietudini sociali e psicologiche – e rivela quali insospettate capacità di ingegno, di sofferenza e di addomesticamento della sofferenza possono nel frattempo fiorire.

Secondo un’idea consolidata, ma sottoposta a una sfida cronica, la letteratura crea attraverso un linguaggio razionale – vale a dire, socialmente accettato – una varietà di tipologie discorsive dotate di una loro coerenza interna (per esempio, poesia, dramma, poema epico, trattato, saggio, romanzo), che assumono la forma di “opere” individuali e vengono giudicate sulla base di criteri quali la veridicità, la forza emotiva, la sagacia e la rilevanza. Più di un secolo di Modernismo letterario, tuttavia, ha evidenziato il carattere contingente di generi letterari un tempo ritenuti stabili e ha minato il concetto stesso di opera autonoma. Oggi i criteri utilizzati per valutare le opere d’arte appaiono non più così ovvi e tutt’altro che universali. Si limitano a ratificare la nozione di razionalità che è propria di una particolare cultura, vale a dire, i concetti di mente e di comunità.

L’autore è stato smascherato: che sia conformista o meno, il suo ruolo risponde inevitabilmente a un determinato ordine sociale. Certo, non tutti gli autori premoderni adulavano la società in cui vivevano. Una delle funzioni più antiche esercitate dagli scrittori consiste nel chiedere conto delle ipocrisie e della malafede di una particolare comunità, come fa Giovenale, quando nelle biasima le follie dell’aristocrazia romana, o Richardson, quando in denuncia l’istituzione borghese del matrimonio come possesso. Ma la portata della potenziale alienazione degli scrittori premoderni era comunque circoscritta – che lo sapessero o meno – alla censura dei valori di una classe o di un contesto sociale in nome dei valori di un’altra classe o di un altro contesto. Cercando di sottrarsi a questo limite, gli autori moderni hanno invece preso parte alla grandiosa opera di trasvalutazione di tutti i valori, varata un secolo fa da Nietzsche e ridefinita nel XX secolo da Antonin Artaud come “svalorizzazione generale dei valori”. Per quanto possa sembrare donchisciottesco, tale progetto delinea la poderosa strategia attraverso cui gli autori moderni si dichiarano non più responsabili – responsabili nel senso in cui sia gli autori che celebrano la propria epoca sia coloro che la criticano sono, allo stesso modo, cittadini a tutti gli effetti della società in cui operano. Gli autori moderni si riconoscono dallo sforzo di destituire se stessi, dal desiderio di non rendersi moralmente utili alla comunità, dalla propensione a presentarsi non come critici della società, ma come veggenti, avventurieri spirituali e paria sociali.

La destituzione dell’“autore” comporta inevitabilmente una ridefinizione della “scrittura”. Quando la scrittura non più responsabile, la distinzione all’apparenza sensata tra l’opera e l’individuo che l’ha prodotta, tra enunciati pubblici e privati, si svuota di significato. Tutta la letteratura premoderna si rifà alla concezione classica della scrittura come attività impersonale, autosufficiente e autonoma. La letteratura moderna, invece, esprime un’idea del tutto diversa: la concezione romantica della scrittura come mezzo attraverso cui la personalità di un individuo si mette eroicamente a nudo. In ultima analisi, dunque, il discorso letterario pubblico rimanda a una dimensione privata, ma ciò non implica che il lettore debba conoscere a fondo la vita di un autore. Disponiamo di ampie informazioni biografiche su Baudelaire e non sappiamo quasi nulla della vita di Lautréamont, ma sia sia si basano, in quanto opere letterarie, su un’idea di autore inteso come essere tormentato che violenta la propria soggettività individuale.

Nell’ottica inaugurata dalla sensibilità romantica, il meccanismo regolatore interno di ciò che l’artista (o il filosofo) produce è il riferimento ai travagli della soggettività. L’opera riceve le proprie credenziali dalla posizione che occupa nell’ambito delle esperienze vissute da un singolo individuo; presume un’inesauribile totalità personale di cui “l’opera” stessa è soltanto un sottoprodotto, incapace di esprimere adeguatamente quella totalità. L’arte diviene un’enunciazione di autoconsapevolezza – una consapevolezza che presuppone una disarmonia tra l’io dell’artista e la comunità. Anzi, lo sforzo dell’artista è misurato in base all’entità della sua rottura con la voce collettiva (quella della “ragione”). L’artista è una coscienza che cerca di essere. “Io sono colui che per essere deve frustare la propria inneità”, scrive Artaud – il più didattico e inflessibile eroe dell’esacerbazione dell’io nella letteratura moderna.

In teoria, un progetto del genere è irrealizzabile. La coscienza, in quanto tale, non può costituirsi interamente nell’arte, ma deve sforzarsi di trasformare i propri confini e alterare quelli dell’arte. Ogni singola “opera”, perciò, ha uno statuto duplice. È un gesto letterario unico, specifico, già compiuto e, al tempo stesso, una dichiarazione metaletteraria (spesso stridente, talvolta ironica) sull’insufficienza della letteratura rispetto a una condizione ideale della coscienza e dell’arte. Intesa come progetto, la coscienza formula criteri di giudizio che inevitabilmente condannano l’“opera” all’incompletezza. Prendendo a modello la coscienza eroica, la cui aspirazione è nientemeno che la totale appropriazione di se stessa, la letteratura aspirerà al “libro totale”. E, misurata in base all’idea del libro totale, ogni scrittura sarà, in pratica, fatta di frammenti. La norma che prevede un inizio, un centro e una fine non è più applicabile. L’incompletezza diventa la modalità dominante dell’arte e del pensiero, e dà origine ad anti-generi – opere intenzionalmente frammentarie o autodistruttive, pensieri che si disfano da sé. Ma l’avvenuto rovesciamento delle vecchie norme non implica il diniego del fallimento di un’arte del genere. Come afferma Cocteau, “l’unica opera che ha successo è quella che fallisce”.

La carriera di Antonin Artaud, uno degli ultimi grandi esponenti del periodo eroico del Modernismo letterario, riassume con estrema nettezza queste nuove valutazioni. Sia nell’opera sia nella vita, infatti, Artaud fallì. La sua opera comprende: poesie; poemi in prosa; sceneggiature cinematografiche; scritti sul cinema, sulla pittura e sulla letteratura; saggi, diatribe e scritti polemici sul teatro; alcuni drammi e una serie di appunti per numerosi progetti teatrali mai realizzati, tra cui un libretto d’opera; un romanzo storico; un monologo drammatico in quattro parti scritto per la radio; saggi sul rito del peyotl presso i Tarahumara; fulgide apparizioni in due grandi film ( di Gance e di Dreyer) e in molti film minori; e centinaia di lettere, la sua forma “drammatica” più compiuta – e tutto ciò dà forma a un infranto, automutilato, a un’enorme collezione di frammenti. Il lascito di Artaud non consiste in opere d’arte compiute, ma in una presenza singolare, una poetica, un’estetica del pensiero, una teologia della cultura, e una fenomenologia della sofferenza.

In Artaud l’artista come veggente si cristallizza, per la prima volta, nella figura dell’artista come pura vittima della propria coscienza. Ciò che...



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