Sontag / Rieff | La coscienza imbrigliata al corpo | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 600 Seiten

Reihe: Ritratti

Sontag / Rieff La coscienza imbrigliata al corpo

Diari e taccuini 1964-1980
1. Auflage 2019
ISBN: 978-88-7452-776-2
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Diari e taccuini 1964-1980

E-Book, Italienisch, 600 Seiten

Reihe: Ritratti

ISBN: 978-88-7452-776-2
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



In questo secondo volume dei diari e taccuini di Susan Sontag, che copre la parte centrale della sua vita, si dispiega un fitto caleidoscopio di incontri, viaggi, amori, letture, progetti e riflessioni. Palinsesto di idee e spunti di approfondimento per penetrare nel laboratorio esistenziale e creativo dell'autrice, questi diari rappresentano per il lettore una full immersion in una delle menti piú brillanti, intrepide e voraci del xx secolo, sempre mobilissima e inappagata, sempre inquieta e curiosa di sé e del mondo. Dall'esperienza creativa a quella amorosa, dall'universo degli affetti a quello della cultura, della politica e della società, Sontag esplora senza sosta i processi intellettuali - incarnati nella singolarità dell'esistenza - della 'coscienza imbrigliata al corpo', con lucidità e passione inesausta, in un contesto internazionale ricchissimo di stimoli che l'autrice insegue, assimila ed elabora instancabilmente. 'Possiedo questa cosa - la mia mente. Si fa sempre piú grande, il suo appetito è insaziabile'.

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Prefazione


Nei primi anni ’90, di tanto in tanto, mia madre accarezzò l’idea di scrivere un’autobiografia. Per me fu una sorpresa, poiché aveva sempre preferito scrivere di se stessa il meno possibile. “Fare di me stessa l’oggetto principale della mia scrittura,” disse una volta a un giornalista del Boston Globe, “mi sembra una via alquanto indiretta per giungere a ciò di cui voglio scrivere […]. Non ho mai ritenuto che i miei gusti, le mie gioie o le mie sventure avessero un carattere particolarmente esemplare”.

Mia madre pronunciò queste parole nel 1975, mentre subiva ancora i terribili effetti di un protocollo chemioterapico molto aggressivo che i medici speravano – senza troppa convinzione, come almeno uno di loro mi confidò – le avrebbe concesso, se non una cura, una lunga remissione del cancro metastatico al seno al quarto stadio che le era stato diagnosticato l’anno prima (era ancora l’epoca in cui i familiari dei malati erano piú informati dei pazienti stessi). Come c’era da attendersi, non appena fu di nuovo in grado di scrivere, decise di dedicarsi a una serie di saggi per la New York Review of Books, che in seguito sarebbero stati raccolti nel volume intitolato Sulla fotografia. Non solo lei è del tutto assente da quell’opera priva di ogni connotazione autobiografica, ma di fatto non appare neppure in Malattia come metafora, un libro che certamente non avrebbe mai scritto se non avesse sperimentato la stigmatizzazione che all’epoca era associata al cancro e che, per quanto attenuata, persiste ancora oggi, di solito in forma di auto-stigmatizzazione.

Mi vengono in mente soltanto quattro occasioni in cui la scrittura di mia madre ha assunto una forma apertamente autobiografica. La prima è il racconto “Progetto per un viaggio in Cina”, pubblicato nel 1973 alla vigilia del suo primo soggiorno in quel paese. Si tratta, in larga misura, di una meditazione sulla propria infanzia e su suo padre, un uomo d’affari che trascorse gran parte della sua vita adulta, tristemente breve, in Cina, dove morí quando mia madre (che non seguí mai i genitori nella concessione britannica situata nella città oggi nota come Tianjin, ma crebbe a New York e nel New Jersey, affidata alle cure di parenti e di una bambinaia) aveva quattro anni. La seconda è il racconto “Giro turistico senza guida”, pubblicato sul New Yorker nel 1977. La terza è “Pellegrinaggio”, anch’esso pubblicato sul New Yorker nel 1987, in cui rievoca la visita fatta da adolescente, nel 1947, a Thomas Mann, che allora viveva in esilio a Pacific Palisades, un distretto di Los Angeles. “Pellegrinaggio”, tuttavia, è soprattutto un esercizio di ammirazione per lo scrittore che mia madre all’epoca venerava piú di ogni altro: significativamente, l’autoritratto è relegato in un distante secondo piano. Fu un incontro, come lei stessa scrisse: “tra una bambina imbarazzata, appassionata, intossicata di letteratura e un dio in esilio”. Infine, ci sono i passi autobiografici che concludono il suo terzo romanzo, L’amante del vulcano, pubblicato nel 1992, in cui mia madre parla direttamente della propria condizione di donna, in termini mai utilizzati prima in altre opere, né, tanto meno, nelle interviste, e alcune fugaci reminiscenze d’infanzia nel suo ultimo romanzo, In America, pubblicato nel 2000.

“La mia vita è il mio capitale, il capitale della mia immaginazione,” rivelò allo stesso intervistatore del Boston Globe, aggiungendo che le piaceva “colonizzarla”. È una formulazione curiosa, e insolita, per mia madre, poiché ha sempre mostrato un profondo disinteresse per il denaro e, per quanto io ricordi, non utilizzava metafore finanziarie neppure nelle conversazioni private. Ciò nonostante, mi sembra che tali parole forniscano una descrizione del tutto accurata del suo modo di essere scrittrice. Anche per questo fui cosí sorpreso che avesse preso in considerazione l’idea di scrivere un’autobiografia: nel suo caso ciò avrebbe voluto dire, per riprendere l’analogia capitalista, non vivere piú dei frutti, dei proventi del proprio capitale, bensí intaccarlo – il massimo dell’irragionevolezza, che il capitale in questione sia il denaro o il materiale a cui attingere per romanzi, racconti e saggi.

Alla fine, quell’idea non andò in porto. Mia madre scrisse L’amante del vulcano e sentí di avere finalmente compiuto quel ritorno al romanzo a cui aveva aspirato anche mentre scriveva i suoi saggi migliori. Il successo del libro le restituí la fiducia che le era mancata, per sua stessa ammissione, sin da quando il suo secondo romanzo, Il kit della morte, pubblicato nel 1967, era stato accolto da recensioni molto tiepide che l’avevano delusa amaramente. Dopo L’amante del vulcano ci fu il lungo impegno per la Bosnia e la Sarajevo assediata – che finí per diventare una passione divorante. Poi tornò alla narrativa, senza mai piú far cenno, per quel che ne so, a un’opera autobiografica.

A volte, quando mi lascio trasportare dalla fantasia, mi viene da pensare che i diari di mia madre, di cui questo è il secondo di tre volumi, siano non solo l’autobiografia che non si decise mai a scrivere (se l’avesse fatto, immagino che sarebbe stata un’opera molto letteraria e frammentaria, apparentabile a Self-Consciousness di John Updike, un libro che lei ammirava molto), ma anche il grande romanzo autobiografico che non volle mai scrivere. Seguendo la traiettoria consueta delle narrazioni autobiografiche, il primo volume dei diari, Rinata, costituirebbe il Bildungsroman, il romanzo di formazione – il suo Buddenbrook, per citare il grande capolavoro di Mann, o, a un livello letterario inferiore, il suo Martin Eden, il romanzo di Jack London che lei lesse da adolescente e di cui parlò con passione sino alla fine della sua vita. Questo secondo volume, per il quale ho scelto un titolo estrapolato da un’annotazione, La coscienza imbrigliata al corpo, rappresenterebbe invece il romanzo dell’età adulta, del suo vigore e dei suoi successi. Del terzo e ultimo volume, per il momento, preferisco non parlare.

Il problema insito in una descrizione del genere, tuttavia, è che mia madre, come lei stessa riconosceva con fervido orgoglio, fu una studentessa per tutta la vita. Certo, in Rinata, la giovanissima Susan Sontag consapevolmente creava, o meglio, ricreava se stessa, per diventare la persona che desiderava essere, lontano dal mondo in cui era nata e cresciuta. Questo volume non concerne la partenza fisica dall’Arizona del Sud e dalla Los Angeles della sua infanzia, l’arrivo all’Università di Chicago, a Parigi, a New York, e l’appagamento (certo non la felicità, una cosa del tutto diversa, che temo non sia stata una fonte a cui mia madre riuscí ad abbeverarsi a fondo). Eppure il grande successo in quanto scrittrice che mia madre registra in queste pagine, la compagnia di scrittori, artisti e intellettuali di ogni genere e specie – da Lionel Trilling a Paul Bowles, da Jasper Johns a Joseph Brodsky [n.d.t.: il nome che Iosif Brodskij prese quando divenne cittadino americano], da Peter Brook a György Konrád – e la possibilità di viaggiare ovunque, praticamente a suo piacimento, realizzando il sogno che piú aveva accarezzato da bambina, non ridussero il suo desiderio di apprendere. Se mai, l’opposto.

Per me, uno degli aspetti piú sorprendenti del presente volume è la facilità con cui mia madre spazia tra mondi diversi. Ciò era in parte dovuto alla sua profonda ambivalenza, e alla contraddittorietà del suo pensiero che, ai miei occhi, lungi dallo sminuirlo, lo rende piú profondo, piú interessante e, in ultima analisi, molto resistente a… sí, all’interpretazione. Ma un altro fattore mi sembra ancor piú importante: sebbene non si possa certo dire che mia madre fosse nota per la capacità di sopportare facilmente gli sciocchi (e la sua definizione di sciocco era, a dir poco, ecumenica), con le persone che ammirava sinceramente non si comportava da maestra, come di solito amava fare, bensí da allieva. È questa la ragione per cui le parti piú efficaci di La coscienza imbrigliata al corpo sono, a mio avviso, gli esercizi di ammirazione – di numerose persone, ma forse in modo piú toccante, benché in forme molto diverse, di Jasper Johns e di Joseph Brodsky. La lettura di questi passi permette, davvero, di comprendere meglio quei saggi di mia madre – penso in particolare agli scritti su Walter Benjamin, Roland Barthes ed Elias Canetti – che sono essi stessi, in primo luogo, atti di omaggio.

Mi piace anche pensare che questo volume possa essere a ragione definito un Bildungsroman politico, il racconto di una formazione individuale, dell’approdo alla maturità. Nella prima parte del libro mia madre è al tempo stesso indignata e sopraffatta dalle follie della guerra americana in Vietnam, a cui si oppose apertamente. Credo che anche lei, in retrospettiva, avrebbe provato un certo imbarazzo per alcune sue affermazioni pronunciate durante il viaggio nell’Hanoi bombardata dagli Stati Uniti. Le ho però incluse senza esitazioni, cosí come ho incluso altre annotazioni su vari argomenti che mi rendono inquieto per lei o sono dolorosi per me. Quanto al Vietnam, aggiungerò soltanto che gli orrori della guerra che la indussero ad assumere posizioni estreme non erano affatto un prodotto della sua immaginazione. Mia madre può essere stata imprudente, ma quella guerra fu davvero, come lei pensava, un’indicibile atrocità.

Non rinnegò mai l’opposizione a quella guerra. Ma, a differenza di molti suoi colleghi (qui sarò discreto, ma i lettori avvertiti comprenderanno a quali...



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