E-Book, Italienisch, 609 Seiten
Sloman On the road with Bob Dylan. Storia del Rolling Thunder Revue (1975)
1. Auflage 2013
ISBN: 978-88-7521-558-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 609 Seiten
ISBN: 978-88-7521-558-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Nel 1975 Bob Dylan, nel pieno del fermento creativo di Blood on the Tracks e Desire, tornò a calcare le scene allestendo una spettacolare tournée che coinvolse artisti come Joan Baez, Joni Mitchell, Arlo Guthrie,Ramblin' Jack Elliott, Allen Ginsberg, e che toccò ogni angolo del Nordest americano. Larry «Ratso» Sloman, allora giovane inviato di Rolling Stone, seguì e documentò ogni tappa di quella che si chiamò Rolling Thunder Revue e che sarebbe diventata il più celebre tour di tutta la storia del rock. Tra descrizioni dei concerti e interviste ai musicisti, chiacchierate con i fan e litigi con il management iperprotettivo e paranoico di Dylan, scene commoventi come una visita alla tomba di Kerouac o bizzarre come un saluto al sole in compagnia di un sedicente capo indiano, Sloman racconta da testimone e protagonista un momento epocale dell'autunno del rock, in cui per un attimo sembrò che intorno a Dylan potesse rinascere il sogno psichedelico e collettivo degli anni Sessanta. Un reportage insieme intelligente e divertentissimo, esplosivo come il miglior Lester Bangs e lucido come un saggio di Truman Capote.
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1.
Per fare le cose per bene, dovremmo iniziare dal periodo d’oro del folk giù al Village, o forse dal set di , o magari perfino dal vecchio auditorium della Hibbing High. Chissà dove Dylan prese l’idea, chissà quando decise davvero che voleva rimettersi in gioco e fare quello che gli riesce così bene, ossia portare le ultime nuove alla sua tribù. A seconda di chi avete davanti, sentirete un centinaio di versioni differenti su come l’idea per il Rolling Thunder Revue abbia assunto la sua forma definitiva. Alcuni dicono che era il progetto personale di Bobby Neuwirth, una specie di attacco di guerriglia ai paesini degli Stati Uniti centrali. Altri attribuiscono l’idea originaria a Ramblin’ Jack Elliott. Altri ancora sostengono che Bob ce l’avesse in mente da sempre, e che stesse solo aspettando di trovare il momento e le persone giuste. In ogni caso, è successo. Eccome se è successo. Il suono della chitarra ha riempito l’aria, e gli incalzanti violini gitani di Scarlet si sono levati sul frastuono nelle palestre calde e muschiose e nei lindi auditorium di acciaio inossidabile. Il Rolling Thunder Revue era una carovana di zingari, vagabondi, trapezisti, chitarristi solitari[1] e berretti verdi dello spirito che arrivavano in città per le vostre figlie e se ne andavano con le vostre teste. Si erano messi in cammino nell’autunno del ’75, una compagnia davvero singolare: Dylan, Baez, Mitchell, Elliott, Neuwirth, McGuinn, Ronson, Blakley, Ginsberg e così via, e li incontrerete tutti qui dentro, presto o tardi. Se ne sono andati in giro a suonare per sei settimane, scombussolando il grande Nordest con una rapida incursione oltre il confine, nel regno delle nevi. Poi, con il botto finale al Madison Square Garden, un concerto davanti a ventimila persone in favore di Rubin «Hurricane» Carter, è finito tutto. Almeno finché Dylan non deciderà di radunare la truppa, infilare le chitarre nelle custodie e rimettersi in viaggio verso di voi.
Ma per cominciare proprio dal principio, sarebbe ancora meglio tornare indietro fino a una domenica sera di un’indolente estate indiana nell’ottobre del 1975.
Mi ero ricordato che Sammy Walker stava suonando al Gerdes Folk City sulla Terza, così feci un salto. Era una tipica serata del Gerdes: dietro il bancone c’era Allyn (che a dispetto del nome è una ragazza), e dietro ad Allyn il proprietario Mike Porco con sguardo predatore. Pochi avventori al bar. Dentro, nella sala concerti, Walker era sul palco e cantava di Patty Hearst e i suoi scorpioni. Cominciai a perlustrare la stanza e fermai lo sguardo a metà, su un tavolo in fondo. Piazzato accanto al bagno degli uomini, insieme ad alcuni amici, c’era nientemeno che il mio vecchio amico Roger McGuinn.
McGuinn è uno che sta a pieno titolo nella del rock’n’roll. Con Chris Hillman e David Crosby ha fondato il più grande gruppo rock americano, i Byrds. E molto dopo la dipartita di Crosby per i pascoli più verdi di CSNY, dopo che Hillman si era inventato i Burrito Brothers, McGuinn era ancora lì a timbrare il cartellino da Byrd. Poi, intorno al 1970, aveva ricominciato da zero, prima come frontman di un gruppetto, poi esibendosi in un set folk da solo, con l’armonica a bocca attaccata al collo. Furono anni duri per l’uomo che ci aveva regalato «Eight Miles High» e la versione hard rock definitiva di «Tambourine Man». Il progetto del Byrd solista non decollò mai davvero, così Roger tornò all’idea del gruppo e resuscitò la Roger McGuinn Band. E lì al Gerdes, di ritorno da una data a Philadelphia, c’erano Roger, il suo chitarrista, Richard Bowden, e il suo tour manager, Al Hirsh.
Mi unii a Roger e ai suoi amici, Porco venne a salutarci e ci offrì un giro di bevute. Porco, naturalmente, è famoso nell’ambiente della musica per essere stato uno dei primi a scoprire Bob Dylan. La prima apparizione ufficiale di Dylan fu al primo club di Mike, sulla Quarta; ai tempi Porco era come un padre per Bob: si prendeva cura di quel menestrello arruffato, assicurandosi per esempio che avesse sempre la cabaret card in regola.[2]
Nel corso degli anni, Porco ha fatto da padrino a molti astri nascenti; tra i divi che hanno iniziato la loro carriera da Gerdes ci sono Simon e Garfunkel, Judy Collins e Phil Ochs. E quella sera, nella tradizione folk del locale, sul palco c’era Sammy Walker, un ragazzetto di Norcross, in Georgia, che proponeva una scelta di pezzi dal suo primo album, uscito per una piccola etichetta folk, la Folkways Records. E tra quelle canzoni c’era «Ragamuffin Minstrel Boy», un tributo a Dylan, a cui Walker somigliava sia musicalmente che fisicamente. McGuinn ascoltava attentamente, e sembrava che il novellino gli andasse a genio. Dopo averlo incoraggiato un po’, riuscii a convincerlo a fare un duetto con Sammy. Solo che McGuinn lo fece alla sua inimitabile maniera. Visto che Roger è fissato con i dispositivi elettronici e si porta dietro due walkie-talkie ovunque vada, fu Hirsh a essere spedito sul palco, dove tirò fuori l’apparecchio e lo sollevò di fronte al microfono.
«Ecco un pezzo che è nato qui a New York», disse una voce inquietante e incorporea dal walkie-talkie di Hirsh al microfono, e fu così che McGuinn s’inventò l’ospitata direttamente dal tavolo. Ma dopo il chiassoso canto marinaresco di «Heave Away» il pubblico continuava a chiamarlo a gran voce, così Roger saltò sul palco, prese in prestito la chitarra di Sammy e suonò «Chestnut Mare», l’avvincente saga di un ragazzo e del suo cavallo che Roger aveva scritto insieme a un regista di off-Broadway, Jacques Levy.
Sembrava che cantare gli avesse fatto venire un certo appetito, così ce ne andammo a Chinatown per una cena notturna. Davanti ai nostri martini, la conversazione si spostò su Dylan. «Sono uscito spesso con Bob a Malibu», ci disse Roger. «Giocavamo a basket, cose così. Un giorno, mentre era sul mio divano e stavamo provando a scrivere una canzone insieme, gli ho chiesto se aveva qualcosa di pronto e mi ha detto che ne aveva una iniziata, ma che probabilmente se la sarebbe tenuta per sé, e poi si è messo a suonare “Never Say Goodbye”. Non aveva ancora finito il testo, ma la melodia c’era tutta. Mi piaceva, ma era roba sua.
«È molto sveglio, ma certe volte si comporta come un ingenuo, come se nella sua percezione delle cose ci fossero dei buchi. E se provi a riempirli al posto suo, va fuori di testa.
«Una volta stavamo parlando del suo aereo e gli ho chiesto se quando non lo usava lui lo dava in affitto e mi ha detto di no. Allora gli ho risposto: “Be’, è così che fa la gente che ha gli aeroplani. Devi affittarlo per pagarti le spese di manutenzione, perché altrimenti è troppo costoso. Anche quelli ricchissimi, eh, lo fanno anche loro”. E Bob, con gli occhi sgranati: “Non me l’aveva mai detto nessuno”. Che risposta fantastica».
Erano quasi le due di notte e McGuinn stava per dare forfait e tornare nella sua camera al Gramercy, ma proposi di fermarci per il bicchiere della staffa all’Other End. Roger aveva delle riserve. «Dai, Roger. Ho sentito che Dylan è appena rientrato, e anche se non c’è lui ci sarà sicuramente Levy». Così prendemmo un taxi fino a LaGuardia Place, scendemmo al volo e suonammo alla porta di Jacques. Nessuna risposta. Roger ci portò all’Other End, che era proprio dietro l’angolo. Bleecker Street era stranamente tranquilla, quasi inquietante; tutto era avvolto da una nebbiolina umida. C’era qualcosa nell’aria. Entrai per primo nel locale e il proprietario, Paul Colby, appena ci avvistò cominciò a sbracciarsi come un esagitato per invitarci a un tavolo appartato. Oltre l’angolo della parete, nascosti nel primo séparé, c’erano due tavoli uniti. Passai in rassegna le persone sedute e riconobbi il cantante David Blue, il regista di off-Broadway e collaboratore di McGuinn Jacques Levy, una varietà di altri amici non meglio identificati e, imboscati al centro di quella banda di matti, Bob Dylan e il suo giubbotto nero. «Roger!», urlò Dylan scattando in piedi per abbracciare McGuinn e rovesciando la maggior parte dei bicchieri sul tavolo. «Dov’eri finito? È tutta la sera che ti aspettiamo».
Avevamo già un nutrito pubblico, così Levy propose di spostarci in un posto più tranquillo. «Andiamo da Menachem», disse Bob. Ci trascinammo fuori dall’Other End, Dylan e McGuinn in testa, gli altri dietro. «Ehi Roger, stiamo per partire con un tour, vuoi venire con noi?», propose Dylan a McGuinn, che però stava ancora cercando di riprendersi dal saluto. Sul marciapiede, davanti al locale, Dylan si girò verso di me. Mi presentai. «Ah, quindi Larry Sloman. Ho sentito che stai scrivendo un articolo su Hurricane Carter. L’hai visto? Come sta?» Cominciai a rispondergli, ma venni interrotto da una ragazzina schizzata che si mise in mezzo per chiedere a Dylan se poteva stringergli la mano. Dylan le diede un’occhiata sommaria, poi le fece un sorriso. «Certo». Lei si aggrappò alla sua mano e si lanciò in un monologo su come lui le avesse cambiato la vita. Bob cominciava a sembrare un po’ a disagio, ma poi Lou Kemp, un suo amico, venne a salvarci e guidò tutto il gruppo verso la macchina di Dylan, una Eldorado rosso ciliegia. Io saltai sul sedile posteriore insieme a Jacques, la sua amica Muffin e Kemp, mentre Dylan, McGuinn e Mike, un amico di Bob, si misero davanti. Dylan guidò a zig zag per il Village, si esibì in un’azzardata svolta a sinistra sulla MacDougal e parcheggiò davanti all’Olive Tree. Ma Menachem aveva già chiuso i battenti per quella sera, così attraversammo la...