E-Book, Italienisch, 164 Seiten
Reihe: Narrativa
Sjöberg L'arte della fuga
1. Auflage 2017
ISBN: 978-88-7091-209-8
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 164 Seiten
Reihe: Narrativa
ISBN: 978-88-7091-209-8
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
«Le esperienze artistiche possono essere travolgenti quasi quanto gli amori», pensa Fredrik Sjöberg quando in una casa d'aste di Stoccolma rimane folgorato dal dipinto di un pino. Spinto dalla sua proverbiale passione per tutto ciò che è insolito, scopre che l'artista è Gunnar Widforss (1879-1934), tanto sconosciuto in Europa quanto amato in Nord America, dove è considerato «il pittore dei parchi nazionali» e ha dato il proprio nome a una cima del Grand Canyon. Comincia così un'avventura sulle tracce di opere, lettere e fonti sperdute per ricostruire la vita, la vocazione e l'ossessione di questo inquieto acquerellista: un vagabondo squattrinato alla solitaria ricerca di bellezza, stretto tra il bisogno di creare e l'ansia di riuscire, che dopo aver girato mezzo mondo pianta la sua tenda nello Yosemite e dedica i suoi giorni a ritrarre i più suggestivi paesaggi d'oltreoceano. Un viaggio che conduce Sjöberg in Nevada, Arizona e Colorado, nella wilderness di Emerson e Thoreau, attraverso la storia delle riserve, naturali e indiane, con il dubbio se servano più a proteggere o a ghettizzare. Un racconto che si snoda tra curiosità storiche e aneddoti spassosi, dalla nascita dell'industria del chewing gum alla carovana di cammelli che aprì la Route 66, dalla luce dei dipinti di Turner al tacchino che Benjamin Franklin voleva al posto dell'aquila come simbolo degli Stati Uniti. Irresistibile affabulatore, Sjöberg ci fa appassionare a un altro dei suoi eccentrici outsider con un nuovo capitolo della sua riflessione sul rapporto tra uomo e natura.
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1. Vita nei boschi sul lago Nammavarejauratjah
Le storie, semplicemente, cominciano. Raramente si sa dove, e quasi mai perché. Non ha nessuna importanza. Non c’è più niente di sicuro, ormai. Mi limiterò a chiudere gli occhi, puntare il dito a caso e dire – così, tanto per provare – che una volta, quando avevo sedici anni, ho passato una notte intera a cantare canzoni romantiche in cima a un pino. Potrebbe essere stato quello l’inizio.
Era un albero antico, si ergeva su un monte vicino a un lago minuscolo che si chiamava Nammavarejauratjah, a un paio di giorni di cammino in zone non battute del Parco Nazionale del Muddus, nel cuore delle terre selvagge tra Jokkmokk e Gällivare. Boschi e acquitrini a perdita d’occhio, era d’estate, ovviamente, quando in Lapponia le notti sono più chiare di qualsiasi giorno in pieno inverno. D’inverno, in linea di massima, uno non va nel Muddus e se per caso ci va, non se ne sta certo seduto in cima a un pino a cantare canzoni su ghirlande di viburno tra i capelli delle ragazze. Non per ore di fila, almeno.
Questo ricordo, che mi è tornato in mente tutt’a un tratto un pomeriggio davanti all’hotel La Posada a Winslow, in Arizona, è importante per molte ragioni, ma per il momento concentriamoci sull’albero. Il pino.
Se c’è qualcosa a questo mondo di cui mi intendo davvero sono i pini. Normali pini con le loro pigne e i loro aghi e tutto quanto il corredo di sfumature: i colori, i profumi, il sussurrare al vento con qualsiasi tempo e i richiami degli stormi di regoli nel bosco, in autunno. Pini. So tutto su come si comporta la luce del sole su un pino e sulle ombre sottostanti, a prescindere dall’età dell’albero, e dove cresce e come. Rugiada e nebbia, neve, pioggia e tutto il resto, basta che abbia a che fare con un pino.
Sia ben chiaro, qui non stiamo parlando di scienza. Non sono gli aspetti puramente prosaici della storia naturale del pino quelli che conosco bene, e del resto neanche mi interessano. Non sono mai stato uno scienziato. No, diciamo piuttosto che qui si tratta dell’intera immagine del pino, della sua personalità, per quanto oscuro possa apparire un tale sapere. Questa è la mia materia, con una certa specializzazione su come i pini si presentano nella pittura accademica di inizio Novecento. Per anni ho girato intorno a questo argomento, maturando a poco a poco l’idea di raccontare la storia di Gottfrid Kallstenius (1861-1943), artista oggi poco considerato, ma che è stato il maestro indiscusso della pittura di pini in Svezia. Siamo cresciuti nella stessa città, Gottfrid e io, e lo stesso paesaggio ci ha segnati per sempre. Quando andavo a scuola c’era appeso in aula magna uno dei suoi quadri più grandi, datato 1934: un pino solitario in riva al mare, al tramonto. Quella era arte.
Solo molto tempo dopo ho imparato che, parlando di arte, la cosa più stupida che si potesse fare era confessarsi ammiratore di Kallstenius in generale, e dei suoi tramonti fiammeggianti del periodo tra le due guerre in particolare. Chi non voleva essere tagliato fuori faceva bene a non nominarlo nemmeno, tranne forse come esempio di quel vecchiume stantio che il vento modernista avrebbe spazzato via una volta per tutte. Così mi adattai al decorativismo alla Matisse, come tutti gli altri.
Povero Gottfrid, visse un po’ troppo a lungo, credo. Se solo si fosse ammazzato a furia di bere all’inizio del secolo, o almeno avesse trascorso metà della sua esistenza in un manicomio, liberandosi l’anima con scarabocchi su carta della peggior qualità come un bambino, sarebbe stato celebrato, a tempo debito, come uno dei più grandi. E invece no. All’apice della sua carriera, quando era alla pari di Zorn e Liljefors e fu accolto nell’Accademia di Belle Arti, si comprò una casa sul mare a Kallvik e si mise a dipingere pini nella luce della sera. Andò avanti per quarant’anni. Per lo più sono brutti quadri, ma certi sono buoni. E qualcuno è davvero magico.
Così alla fine decisi di osare avventurarmi in una spedizione. Uno studio sulla morfologia del fallimento era il progetto e l’idea era di riprendere a viaggiare, dopo tutti quegli anni trascorsi sulla mia isola, che lascio solo in rarissime occasioni: Helsinki, Monaco, Budapest, Boston, Indianapolis, Buenos Aires e tutti gli altri posti del mondo dove ci siano grandi musei che conservano quadri di Gottfrid Kallstenius nei loro più oscuri sotterranei.
Ma diavolo, pensai.
Non era gran che come pensiero, lo ammetto, ma è il sentimento quello che conta. Si trattava di Gottfrid e di me, e di un migliaio di pini.
Tanto più grande fu la mia sconfitta. Dovetti lasciar perdere, deluso e con la coda tra le gambe. La Svezia è un piccolo paese e non mi ci volle molto a capire che il territorio era già marcato da un esperto d’arte con conoscenze ben maggiori delle mie e buoni contatti con gli eredi del pittore, con tutto ciò che questo implica riguardo all’accesso a diari, lettere e altri tesori su cui si preferisce meditare indisturbati. La perdita del compagno di viaggio di cui ero alla ricerca fu un duro colpo e non posso negare di aver lanciato, così di sfuggita, qualche ingiusto commento sopra le spalle – a proposito di quelle vecchie e sterili aquile marine degli anni Ottanta che, pur inguaribilmente danneggiate dal DDT, continuavano a occupare i migliori territori dell’Arcipelago impedendo così di nidificare agli esemplari più giovani, cresciuti con meno veleno in corpo.
Non essendo quindi disponibili gli alberi più adatti alla nidificazione, i giovani uccelli covavano alla bell’e meglio su qualche pino smilzo e isolato, battuto dal vento in un’area disboscata. Alla fine di maggio, quando venivamo a inanellare i piccoli, capitava di trovare il nido a terra, un mucchietto di ramoscelli senza tracce di vita. Non sono abili costruttori, le aquile, all’inizio, la cosa migliore per loro è usare nidi ereditati.
Capita, ogni tanto. Ti trovi un pittore, prendi il controllo del territorio, ti assicuri la documentazione unica… e aspetti il momento giusto. Devo però riconoscere, in tutta onestà, che nel caso di Kallstenius l’errore è stato mio. Non ho avuto abbastanza coraggio. Per anni e anni il campo è rimasto libero, e mentre nessuno se ne interessava io mi limitavo a chiacchiere in giro e a pensieri semi abbozzati. E quando finalmente mi sono deciso, era troppo tardi. Una fortuna per Gottfrid, forse. Comunque, dico tutto questo solo per spiegare perché io sia partito con tanta precipitazione con Widforss e perché abbia preso di punto in bianco una decisione che, se ci avessi pensato un po’ di più, forse mi sarei guardato bene dal prendere.
È andata così:
Sabato 29 gennaio 2005 mi trovavo con tutta la famiglia sulla terraferma. Avevamo prenotato un tavolo vicino alla finestra al ristorante del Moderna Museet. Ad attirarci lì era stato il famoso quadro di Malevic Composizione suprematista – nero con rettangolo bianco, del 1915. Era proprietà del museo già da quasi un anno, ma la tela era rimasta a lungo arrotolata ed era in cattive condizioni, per cui c’era voluto parecchio tempo per il restauro e solo in gennaio era stata esposta ai visitatori. Un mistero. Una ferita infetta. Non il quadro in sé – avanguardia russa, niente più di questo – ma la sua storia, le leggende, le dicerie a mezza bocca, le liti tra gli storici dell’arte. Quel poco che sapevo sembrava la trama di un romanzo. Era stato davvero rubato? In segreto lo speravo.
Ci eravamo dati appuntamento con i ragazzi al museo. Dovevamo vederci nel tardo pomeriggio, guardare il quadro e poi andare a mangiare. Avevamo dunque tutto il tempo, Johanna e io, e decidemmo di fermarci sulla strada per Skeppsholmen, alla casa d’aste Bukowski al Berzelii Park, per vedere e magari fare un’offerta per un dipinto giovanile di Mollie Faustman (1883-1966), che oltre a essere stata, molto più avanti negli anni, la madrina di mia moglie, fu tra i primi allievi svedesi di Matisse a Parigi. Era già là nel 1909 dopo una bizzarra giovinezza trascorsa con un padre infelice nato da una relazione extraconiugale tra Lars Johan Hierta e Vendela Hebbe,* anche questa una storia che supera molte tragedie di invenzione.
Hierta, ricordato oggi soprattutto come fondatore dell’Aftonbladet, era un uomo per bene con moglie e figli e una casa nel centro di Stoccolma. Quando la sua amante Vendela Hebbe, la prima donna giornalista in Svezia, rimase incinta, venne quindi inviata a Berlino con un compito non precisato; lì il bambino nacque e fu subito adottato da una famiglia di nome Faustman. All’epoca si faceva così. Si metteva a tacere. Dopo qualche anno, però, la Hebbe, che sorprendentemente affittava una stanza in casa Hierta, si pentì e rivolle indietro il figlio. Il che è del tutto comprensibile. Strano è quel che accadde in seguito: Hierta adottò il proprio figlio, il piccolo Faustman, senza però rivelargli chi fosse il suo vero padre e nemmeno che la signora...




