E-Book, Italienisch, 195 Seiten
Sjöberg Il re dell'uvetta
1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7091-441-2
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 195 Seiten
ISBN: 978-88-7091-441-2
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
«Perché uno non si arrende? Cos'è quel desiderio che lo spinge?» Eccentrico ricercatore, collezionista e narratore della natura e dei personaggi straordinari che l'hanno esplorata, Fredrik Sjöberg ci accompagna in un viaggio alla scoperta dell'inafferrabile Gustaf Eisen. Zoologo, pittore, archeologo, fotografo, leggendario esperto di lombrichi in Svezia e pioniere della coltivazione dell'uvetta in California, Eisen ha vissuto le sue mille vite a cavallo tra Otto e Novecento incarnando il tipico genio universale del Rinascimento. Un fuoriclasse delle scienze e delle arti che è stato consulente di Darwin, ha insegnato a dipingere a Strindberg, e ha affascinato la moglie di William Randolph Hearst, raccogliendo per lei in Guatemala la più ricca collezione di tessuti maya al mondo. Un inarrestabile globetrotter che ha fondato il Sequoia National Park - dove è sepolto, ai piedi del monte che porta il suo nome - ed è riuscito a trovare il Santo Graal, un calice d'argento di Antiochia oggi conservato al Met di New York. Setacciando luoghi sperduti e fonti rarissime, Sjöberg ricompone le avventure di questo formidabile eppure sconosciuto outsider, che ha compiuto studi impareggiabili immergendosi in passioni bizzarre, dettagli curiosi, trovando nell'apparentemente piccolo l'infinitamente grande. Ed è così che Eisen diventa un suo alter ego d'eccezione, in un gioco di specchi ricco di humour e aneddoti affabulatori con cui Sjöberg si interroga sulla propria passione per tutto ciò che solletica la sete di nuove conoscenze: il gusto della sfida e di scoprire inedite fonti di bellezza, l'inquieta ricerca di un'unicità a se stessi e agli altri. E realizza un inclassificabile racconto sul rapporto tra l'uomo e il mondo.
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3. Il paese delle meraviglie
Il profumo del tanaceto in piena fioritura risvegliò inaspettatamente il ricordo di un lampione, una notte d’estate di tanti anni fa, in una strada di ghiaia che si incurva attraverso un idilliaco gruppo di villette addormentate tra il bosco e il mare, nel buio d’agosto: un ragazzo si è fermato sotto la luce e segue con lo sguardo una falena che si agita intorno alla lampada proiettando la sua ombra sulla strada. Pensa.
L’ultima cosa che gli interessa è raccontare.
Non desidera andare da nessuna parte e quasi non ha una storia. È così immerso nei suoi pensieri da non rendersi subito conto che un tasso si sta avvicinando lungo il muro di sassi che costeggia la strada. Non si accorgono l’uno dall’altro finché non sono vicinissimi, e allora si spaventano entrambi. Il tasso si gira di scatto e si mette a correre per un tratto, finché non si infila nella giungla di lillà e spiree del dottor Colfach. La siepe, così veniva chiamata.
Il ragazzo non si muove. Solo, immobile, in mezzo all’alone di luce.
Non si deve mai sottovalutare un dodicenne.
Mi lasciai volentieri trasportare indietro, fino a quel punto di partenza.
Avevo compiuto dodici anni quell’estate, nell’agosto del 1970, mi avvicinavo dunque pericolosamente a quel limite oltre il quale l’incanto svanisce. Ma ancora per un po’ mi sarei trovato dalla parte sicura, al di qua, libero da intenzioni. Probabilmente avevo più cose in comune con quel tasso e con i ricci che non con i compagni solo di qualche anno maggiori di me. Me ne stavo ancora per conto mio – la solitudine non esisteva – e scendevo giù per quella strada fino al lampione tutte le notti, o almeno in quelle più calde. Fuggivo nelle avventure, alcune delle quali ovviamente erano immaginarie e misteriose, ma non tutte. Per esempio la storia del furto era anche troppo reale. Forse è per questo che me l’ero dimenticata. O dovremmo dire rimossa. Non l’ho mai raccontata a nessuno.
Solo a quel punto i ricordi cominciarono a fluire. Il tanaceto cresceva ai piedi del lampione.
A quell’età tutto ciò che fai è più che altro una preparazione più o meno fatale, tuttavia credo che per descrivere la caccia e i sogni che inseguivo a quel tempo basti dire che collezionavo farfalle. Questa spiegazione ha inoltre il vantaggio di essere vera. La collezione era il mio bene più caro. Una fantasia eroica ricorrente era che la casa dove abitavamo andasse a fuoco e io fossi costretto a scegliere, su due piedi e senza quasi un vestito addosso, cosa andasse salvato per primo. E la risposta era sempre la stessa: le farfalle.
Era così, non c’è dubbio. E c’era un grande silenzio la notte in cui l’azione venne pianificata. La figlia del giardiniere aveva spento la luce già da un pezzo nel sottotetto della casa vicina al lampione. La vecchia coppia che abitava dietro la siepe d’oleandro non la si sentiva mai nemmeno di giorno e Kalle Kongo, con la vecchia mamma sul gobbo, non aveva ancora l’elettricità, il che era un po’ strano, ma non inusuale nella periferia di Västervik quando io ero bambino. La casa di Åkerman, lì accanto, era disabitata, proprietà di qualcuno che nessuno conosceva e di cui nulla si sapeva, ma che veniva chiamato «il principe azzurro» dalle donne, solo perché la sua casa era così bella, con la romantica veranda da cui si godeva tutta la vista dell’imponente villa di Kit Colfach e relativo podere, una specie di parco abbandonato e coperto di erbacce sulla riva dell’acqua, confinante con la fabbrica di carrozzerie che ora non esiste più, ma che allora, all’inizio degli anni Settanta, era in piena attività. Non di notte, però. Di notte i cancelli erano chiusi, tutto era silenzio e l’intera area della fabbrica era immersa nel buio più profondo. Intrufolarsi là dentro era severamente vietato, e io non osai mai farlo.
Per quanto riguarda la lampada avevo un filo più di coraggio. Il mio piano era di rubarla. La motivazione era semplice e credo comprensibile, nella sua surreale logica infantile.
*
Tutt’a un tratto, solo per un istante, mi parve di intravedere un legame. Come se la storia di Eisen mi ricordasse qualcosa. Era da più di un anno che gli davo la caccia in archivi e libri e mi ero avvicinato tanto da avere a volte l’impressione che fosse il contrario, che fosse lui a dare la caccia a me. In ogni caso ero fermamente deciso a non perdere le sue tracce confuse. Mi divertivo, forse era tutto qui.
In un primo momento non feci molto caso al fatto che fosse arrivato a novantatré anni. Un’età rispettabile, certo, ma non così eccezionale per un collezionista e viaggiatore come lui. Diventano vecchissimi. Ernst Jünger, che a più di settant’anni scrisse su questo interessante fenomeno, non abbandonò i suoi coleotteri prima di essere arrivato a centodue. Gli entomologi incalliti considerano il suo caso normale.
No, i numeri non mi dicevano niente. Era come leggere in un libro sugli uccelli che l’apertura alare dell’aquila può raggiungere due metri e mezzo. Cosa questo esattamente significhi lo si capisce solo guardando il grande uccello da vicino, e nel caso di Eisen fu solo quando cominciai a rovistare tra le poche lettere rimaste che la vita che aveva vissuto si fece visibile nella sua piena portata. I mittenti erano per me in generale dei perfetti sconosciuti, solo qualcuno era anche mio amico. Charles Darwin aveva scritto a Eisen a proposito dei lombrichi. Altri erano ancora più vecchi, nati nel Settecento, e molto, molto tempo dopo, quando se ne stava come un gufo nel suo enorme appartamento di Manhattan, ricevette una lettera su degli strani alberi dell’Uppland settentrionale scritta da… Nils Dahlbeck.
Il buon vecchio Nils! Ebbi un sobbalzo, mi persi a pensare alla lunghezza della vita e, nei casi fortunati, alla sua smisurata ricchezza. Certo, adesso Nils Dahlbeck è morto, ma abbiamo lavorato parecchio insieme all’inizio degli anni Ottanta, quando facevo per la televisione svedese un programma sui «Biologi sul campo», un’associazione che Nils aveva contribuito a fondare poco dopo la guerra. Per noi biologi sul campo è sempre stato facile frequentarci, a prescindere dall’età. Andiamo in giro con le stesse lenti di ingrandimento in tasca.
*
Il tanaceto, tutto qui. Il profumo di frutti caduti dall’albero e del tanaceto in fiore. Indietro. Mi sono mosso in cerchio.
L’arte di nascondersi tra la vegetazione doveva comportare un grande vantaggio nei tempi primordiali, da un punto di vista evolutivo intendo, probabilmente era una capacità più importante sia della velocità che della forza muscolare. È per questo che tutti i bambini giocano a nascondino e sono attratti dagli angoli bui, dove poi se ne stanno seduti ad accendere e spegnere le loro flebili lucine tascabili. È un comportamento profondamente radicato nella biologia umana. Come il collezionare.
Non c’era naturalmente niente che non andasse nelle farfalle che volavano di giorno alla luce del sole, proprio niente, ma non erano molte, e in buona sostanza potevano essere raccolte nell’arco di due, forse tre estati. Sì, nella zona c’era ancora da dare la caccia a qualche polyommatino di difficile classificazione e a qualche raro esemplare di heliconiina, e la farfalla apollo riuscì a sfuggirmi per più tempo di tutte le altre, ma questo non bastava a placare il mio desiderio.
Tra l’altro le mie due farfalle apollo, visto che siamo in argomento, un maschio e una femmina etichettati l’11 luglio 1971, non le ho nemmeno catturate io, il che è piuttosto imbarazzante. Le ho comprate vive, in un grosso barattolo di vetro che odorava di cetriolo sottaceto, da due compagni di gioco più piccoli che abitavano nella stessa strada, a un tiro di schioppo da casa mia. A quel punto avevo infatti fondato una piccola impresa la cui attività commerciale consisteva nel pagare fino a due corone per ogni esemplare di farfalla che mancava alla mia collezione. Tutti i ragazzini che conoscevo vennero coinvolti, compresi quei due, che erano fratelli, figli di un uomo che godeva di una certa fama a livello locale e che veniva chiamato «il Tempista» per ragioni che non sono mai riuscito a capire del tutto, ma che si diceva avessero a che fare con le sue prestazioni alle Olimpiadi di Berlino, nel 1936, dove era risultato vincitore in una disciplina nuovissima e poi subito abbandonata, il cui principio era remare il più veloce possibile in una specie di canoa pieghevole inventata in Baviera.
Una volta ebbi il permesso di tenere in mano la medaglia d’oro.
I due fratelli avevano trovato le farfalle apollo in un posto che si chiama Åldersbäck, a sud della città, e – me lo ricordo benissimo – mi consegnarono il bottino sul mucchio di rifiuti dietro il gabinetto esterno di casa mia. Accettai immediatamente. Quattro corone, in contanti, compreso il barattolo. È imbarazzante, come ho già detto, ma il brutale spirito del commercio rappresenta uno dei primi stadi della civiltà ed è raro che se ne riconosca la vacuità prima di avere fatto certe esperienze personali.
No, il giorno non bastava. La notte, invece, volava una quantità quasi infinita di specie di cui molte, a dire il vero, piccole e piuttosto incolori, ma alcune erano grandi come pipistrelli e altre erano di una bellezza stupefacente. Sfingidi, bombici, geometridi, nottuidi. Fu così che le notti d’estate divennero la mia specialità. Tutto quello che serviva era una buona lampada e un po’ di fantasia. Poi si poteva restare ore e ore seduti ad aspettare dentro una specie di...




