Siviero | Fare femminismo | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 192 Seiten

Reihe: Cronache

Siviero Fare femminismo


1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-5480-110-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 192 Seiten

Reihe: Cronache

ISBN: 979-12-5480-110-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Nella storia dei femminismi, il racconto delle pratiche è spesso rimasto ai margini. Eppure la politica delle donne, dalle suffragiste fino ai giorni nostri, si distingue da tutti gli altri movimenti perché ha saputo intrecciare a pensieri e parole una creatività militante unica e spettacolare. Questo è un libro di racconti e storie, ma intessuto di elaborazione teorica: su come i femminismi abbiano organizzato in piazza funerali alla femminilità tradizionale e liberato topi alle fiere per matrimoni, inventato dispositivi per abortire frugando nei negozi per acquari, distrutto proprietà o opere d'arte. Su come abbiano esposto corpi e vulve nello spazio pubblico, occupato le aule di tribunale per mettere in discussione la legge nei luoghi della sua applicazione, trasformato il silenzio, la rabbia o la provocazione in azione ed escogitato rifiuti, scioperi e ostinati boicottaggi per trasformare sé e il mondo. Le pratiche raccontate da Siviero possono 'aprire il presente all'imprevisto, fare la differenza. E questa resta ancora oggi la nostra scommessa politica'. Di fronte al successo mondano di parte del femminismo e di un movimento spesso ridotto alla richiesta di diritti civili, questo libro rappresenta un invito a recuperare una genealogia femminista radicale cui poter attingere per rimettere al mondo desideri, invenzioni antagoniste, esperienze di sorellanza e sovversione, gesti di libertà.

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Prima di cominciare


Christa Wolf

Nei giorni in cui scrivevo quest’inizio mia madre, appassionata d’opera, stava raccontando alle mie figlie di come mi avesse insegnato a cantare “La donna è mobile” scandendo ogni verso con il gesto dell’ombrello. Ero piccola, ricordo i nostri canti a gran voce e le mani e i gomiti sventolare con allegria nelle stanze. Mia madre racconta anche di come dovesse sempre lavorare per potersi pagare l’università e di quanto poco tempo avesse per “fare la femminista”, proprio negli anni in cui il femminismo era di nuovo cosa grande. Eppure ha saputo escogitare una serie di strategie e pratiche che nelle cose minute e quotidiane, nelle risposte che senza paura le ho sentito dare per la strada e nella relazione con le amiche, sono state per me chicchi di futuro.

Il mio incontro con il femminismo è avvenuto fuori casa, ed è nato da una parola. Quando sono entrata per la prima volta nell’aula di filosofia, Adriana Cavarero si stava rivolgendo alla classe usando il femminile plurale. Ogni volta si alzava un virile brusio di protesta e alla fine della lezione lei se ne andò consegnandoci una domanda: “Perché quando uso il plurale maschile nessuna si lamenta?” È bastato poco, i veli hanno la capacità di squarciarsi molto in fretta e in modo definitivo. E le parole di ancorarsi ai corpi, alla vita, di aprire il senso e spostarlo.

Da lì in poi ho avuto per due volte l’occasione di trovarmi sulla soglia dei femminismi: tra le pensatrici di Diotima, comunità filosofica femminile legata all’Università di Verona, in un momento in cui i movimenti stavano ricominciando a uscire dall’accademia per occupare le strade con ben altri posizionamenti e alleanze. E poi tra le strade, le assemblee, la scrittura collettiva, le azioni di piazza, i cortei di Non Una di Meno e un femminismo che, prendendo altre vie, si connetteva con tutto il mondo faticando a tessere relazioni: una sorta di megafono affollato di slogan e di cose che materialmente stavano accadendo altrove.

Di sicuro mi sfugge qualcosa, ma quel che posso dire con fermezza è che la felicità (e la felicità è una delle misure del femminismo) per me è sempre stata nello scambio vivo e presente. Non posso fare a meno della prossimità e della relazione con le altre in carne e ossa. E non posso fare a meno della relazione, diacronica e altrettanto intensa, con i testi e le parole delle altre e di una certa tradizione di pensiero.

In questi spazi ho imparato a rendere politici gli affetti, che la rabbia non acceca ma aguzza la vista e che può essere un sentimento fecondo e nutriente, un’opzione politica praticabile e in certi tempi doverosa. Ho imparato che era necessario rispondere alla domanda aperta dal femminismo del Novecento, quello cominciato con l’invito di Virginia Woolf a non accodarci “al corteo degli uomini colti”, che la misura del mondo non è già data e che è necessario decentrarsi per trovare un nuovo centro. E ho imparato che la politica delle donne è radicalmente altra rispetto alla politica intesa come governo dell’esistente: non è uno spazio in cui si condiziona la libertà ma uno spazio in cui ci si prende cura delle condizioni perché la libertà ci sia, per le donne e per ogni soggettività.

La libertà, come la intende parte del femminismo, non ha mai sostituito le parole alle cose, è aderente alla vita, è politica, non individualistica, è autonoma, misurata sull’autorità delle altre, non esportabile, fuori dalla legge. E non dipendente dalla grammatica dei diritti. Perché la legge, per dirla con la suffragista Emmeline Pankhurst, non basta a fare da sola tutto il lavoro per cui è stata concepita. Ida Dominijanni ha scritto che non bisogna pensare al femminismo storico come a una sorta di assicurazione a vita per le generazioni successive, come se le sue conquiste fossero date una volta per tutte: il femminismo, spiega la filosofa, non è mai stato una banca di diritti acquisiti, è stato e resta un movimento di pratiche di libertà che vanno rimesse al mondo continuamente. È conflitto, non garanzia, e, talvolta, è conflitto anche fra donne. Ho dunque imparato che non mi piacciono le femministe che piacciono, quelle che legano la nostra libertà alla parità con gli uomini e non al senso libero delle differenze, e che la lotta contro la violenza patriarcale non può sottrarsi a una critica di ciò che lo Stato, o il discorso dominante, promuove e legittima.

Nonostante il pensiero delle donne venga spesso evocato con un riferimento collettivo e pieno di vaghezza, ho imparato a non sentire come alleati quei femminismi che hanno nello Stato una fede incrollabile, quei femminismi che vogliono “più” donne senza che quel “di più” venga accompagnato da pratiche che sanno fare la differenza per le altre e rispetto alle condizioni già date, e quelli zeppi di esperte in questioni di genere proprio come le commissioni Pari opportunità, le burocrazie locali, nazionali e sovranazionali. Prendendo le distanze da parte del femminismo della mia formazione, non sento come alleati quei femminismi che, parlando in nome di tutte coloro che hanno una vagina, non riconoscono la connessione e la risonanza con altre soggettività e altre lotte. Né quei fantasmatici femminismi che mentre fanno divulgazione capitalizzano a uso personale le istanze più radicali del movimento. A un certo punto finiranno le cose che si possono trasformare in slogan. Alla fine, ci sarà la necessità di metterci il corpo e l’azione.

Da qui nasce il mio desiderio di lavorare sulle pratiche e da qui la mia incursione nomade nelle storie dei movimenti delle donne, oltre la biografia delle singole. Perché se è vero che ci sono molti gesti inaugurali, o considerati tali, questi non sono . Stanno in una costellazione, all’interno di una creatività sorretta da molte, in molte parti del mondo. Tenerci strette a questo sentire ci dà la forza quando qualcuna se ne va.

Nella storia collettiva il racconto delle pratiche è spesso rimasto ai margini. Eppure la politica delle donne, dalle suffragiste fino ai giorni nostri, si distingue da tutti gli altri movimenti perché ha saputo intrecciare a pensieri e parole un estro militante unico e spettacolare. Le pratiche diventano forme di vita, nascono da esperienze pensate, discusse e agite con altre. Sono in divenire e incommensurabili: non hanno come propria misura l’efficacia della politica tradizionale, ma il cambiamento delle vite reali. Anche per questo i femminismi sono diversi dagli altri movimenti politici: hanno saputo cambiare le pratiche in modo dinamico e inventivo, “per tentare un approccio nuovo a un vecchio problema” o per affrontarne uno imprevisto. Alcune si escludono tra loro, altre possono coesistere e altre ancora specificano quelle che le hanno precedute1. Ciascuna nasce all’interno di precisi contesti, molto differenti e lontani tra loro nel tempo e nello spazio. Le pratiche non si basano sull’omogeneità di propositi e orientamenti, ma tutte sono processi, con poche regole iniziali o senza regole, percorsi di sperimentazione, di scoperta, liberi di trasformarsi in base all’andamento che l’esperienza prende. E tutte hanno spostato l’asticella sempre più in alto, immaginato e fatto cose che sembravano impossibili, per sé e nel mondo intorno.

Cercando di tenere tra le mani il filo della teoria dei movimenti più radicali ho scelto di raccontare delle storie puntuali, declinandole in sei azioni guida. Hanno a che fare con la presa di parola in un momento in cui le parole delle donne erano completamente interdette, inascoltate e trascurate. Ecco dunque, nel primo capitolo, l’uso della propria voce come sfida per mettere in scacco il sistema, la volgarità come leva politica, le testimonianze dei propri aborti clandestini, le autodenunce pubbliche, l’autocoscienza che nasce dal desiderio di una parola autonoma e vera su quello che si vive in prima persona, sapendo che non ha solo un valore personale perché, attraverso la mediazione di altre, ciò che muove è il desiderio di un nuovo modo di vivere. Nel secondo capitolo parlo dell’arte di arrangiarsi, ma sempre insieme, per riscoprire i propri corpi, la propria sessualità e la propria autodeterminazione: mettendo in discussione il sapere medico, il patriarcato e il capitalismo a partire dai cassetti delle cucine, dai negozi per acquari e dalla spazzatura, per produrre dispositivi per la salute o il controllo della vita riproduttiva. Le pratiche del terzo capitolo richiamano il disertare, il separarsi e la sospensione che consentono di liberare energia e tempo per immaginare alternative e nuovi inizi. Le azioni radicali e dirette del quarto capitolo, quelle delle suffragiste o dei gruppi di autodifesa, ci insegnano che a volte è necessario usare tutti i mezzi possibili e ci forniscono un arsenale di risposte da dare a chi ha a cuore le statue e le serrande più della libertà. Nel quinto capitolo ho raccontato storie di corpi nudi e come, dall’antichità fino a oggi, essi producano panico e spaesamento, ribaltando le norme che vogliono il corpo femminile come passivo, vulnerabile, sfruttato e impotente. Il sesto e...



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