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E-Book, Italienisch, 198 Seiten

Silei Senzacuore


1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-922-3497-0
Verlag: San Paolo Edizioni
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 198 Seiten

ISBN: 978-88-922-3497-0
Verlag: San Paolo Edizioni
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Damiano si è cacciato nei guai e non sa neanche lui perché. Dopo la morte della mamma tutto gli è indifferente. Con Filippo, l'amico di sempre, ha commesso una bravata che gli è costata una condanna a sei mesi di lavori socialmente utili. Destinazione la Casa Blu, una comunità per disabili dove il suo cuore indurito si scontra con un'umanità varia che lo lascia completamente disorientato e che lo costringe a fare i conti con l'infelicità che lo attanaglia. Ma non è facile lasciarsi alle spalle le vecchie abitudini. C'è un affare in vista che farà guadagnare a lui e a Filippo un bel po' di soldi facili e senza rischi. Nulla, però, è come appare e i due amici finiranno immischiati in un terribile guaio. In un susseguirsi di avventure e colpi di scena, Damiano dovrà decidere che tipo di persona vuol diventare.

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4


SPAGHETTI AL POMODORO


Mamma si era lasciata morire senza protestare, senza nemmeno provare a lottare, quasi lieta che fosse giunta la sua ora. Che tutte le sigarette che aveva fumato chiusa nella sua stanza ce l’avessero fatta a compiere il loro dovere. Nonostante noi, nonostante il nostro amore.

«Non voglio fare nulla» aveva detto dopo la diagnosi, e aveva rifiutato ogni tipo di cura.

Babbo aveva provato a farle cambiare idea, fra urla e litigi, io no. Io c’ero rimasto male. Come se non le importasse più di me e di Elisa, di lasciarci. Mi ero sentito offeso, rifiutato, abbandonato, tradito. Avrei voluto urlare anch’io, affrontarla, scuoterla, supplicarla di provare, di lottare, invece non avevo detto nulla. Il fatto è che non volevo essere come mio padre.

«È una vita che lotto» ci aveva detto un pomeriggio. «Sono restata per voi, perché vi voglio bene, ma adesso…»

E aveva sorriso, un sorriso amaro, fatto stirando appena le labbra. Io ed Elisa l’avevamo abbracciata fra le lacrime.

«Non è colpa vostra… Questo dovete saperlo. Siete stati la cosa più bella, la gioia più grande della mia vita, ma… è qualcosa che ho dentro, la mia vita non è stata facile, m’è rimasta dentro Ho paura di tutto, vedo tutto grigio, non si può spiegare, nemmeno i dottori ci riescono. Se qualche volta vi ho urlato, maltrattato, cercate di perdonarmi, la colpa era delle medicine, della malattia».

Allora avevo capito che qualcosa nella sua vita doveva essere andato male sin dall’inizio. Come una bambina che prende l’autobus e si accorge di aver sbagliato vettura quando oramai non si può più scendere fino al capolinea. Allora si siede e aspetta pazientemente, evita di parlare con i passeggeri, di fare alcunché, e non vede l’ora che l’autobus arrivi a fine corsa per scendere e prendere quello giusto, salire su un’altra vita, con un altro destino, finalmente migliore.

Così aveva fatto mia madre, chiusa nella camera del piccolo appartamento al piano superiore, seduta attonita di fronte alla televisione giorno dopo giorno, impegnata a riempire posaceneri di mozziconi di MS. Eppure ci doveva essere stato un momento nel quale doveva aver creduto di poter vivere, che quello fosse ancora l’autobus giusto e portasse da qualche parte. Altrimenti perché dare alla luce me ed Elisa?

Ripensavo a tutte queste cose mentre guidavo verso casa e come al solito non provavo niente, nulla di nulla, nemmeno tristezza, nemmeno una lacrima. Era così e basta, la rabbia, la delusione, il senso d’abbandono, se n’erano andati con lei. Non c’era un motivo, una ragione per quanto era accaduto, ed era da matti continuare a cercarla. Forse semplicemente alcune persone nascono difettate, come Simona, Riccardo… come mia madre. Siccome non si possono scartare, gettare nel cestino dei rifiuti e riciclare, per loro ci vuole una Casa Blu. Mi scoprii a pensare che forse anche mamma sarebbe stata meglio in una Casa Blu, che forse anche io ero difettato. Mi tornò in mente Simona, il suo volto orribile, gli strilli di gioia e la foga che aveva messo nel gioco. E poi il suo desiderio di restare, di giocare ancora, la forza con la quale mi si era aggrappata al braccio. Mi resi conto che stavo invidiando tutta quella passione, quel desiderio, quella gioia che io non riuscivo più a provare. Avrei tanto voluto piangere. Forse dopotutto le Case Blu ci volevano, per proteggere quelli come mia mamma da questo nostro mondo troppo crudele, che non riescono ad abitare.

Sono entrato in casa appena in tempo per la cena, babbo non era ancora tornato ed Elisa stava aiutando nonna ad apparecchiare.

«Ah! Eccoti» mi ha detto nonna. «Lavati le mani, si mangia appena rientra tuo padre».

Elisa ha posato i piatti ed è corsa ad abbracciarmi.

«Com’è andata?»

«Bene…»

«Me lo racconti?»

«Dopo, però stasera fai la brava e ti addormenti senza storie, promesso?»

Nonna soffriva di stomaco e per questo preparava sempre la minestra, minestra di dado Star, la cosa che odio di più al mondo e che, sospetto, fosse all’origine del suo mal di stomaco. Mio padre la mangiava, con la testa china sul piatto, senza obiettare, perché lui era fatto così: convinto che la vita andasse presa come veniva e non valesse la pena provare a cambiarla se si trattava di piccole cose, che si facesse prima a stringere i denti e sopportare, piuttosto che opporsi e fare troppe parole. Quando però si trattava di qualcosa di importante, come per mamma, allora alzava la voce, urlava, diventava cattivo, e le parole gli uscivano tutte insieme, come quando si stasa una fossa biologica e la cacca viene a galla e rigurgita allagando ogni cosa.

Mamma era ingrassata negli ultimi anni, quando è morta pesava centotrenta chili e aveva bisogno di un letto speciale. Però certi pomeriggi, quando cambiava la cura e le medicine nuove facevano più effetto, era felice e raccontava. Spegneva la televisione e ci raccontava della sua vita di ragazza nella pianura padana, della sua bicicletta azzurra con la quale pedalava al mattino nella nebbia, fra i campi coperti di brina bianca, fino alla fabbrica. Immaginavo le sue amiche, anche loro ragazze nel fiore degli anni, con le mani rotte dal freddo e dal mastice, le nuvole di fiato che uscivano dalle loro labbra mentre raccontavano del fidanzato, del fine settimana o di una brutta caduta dalla bici sul ghiaccio toccandosi il fianco. Donne di ogni età, in fila con la propria bicicletta di fronte al cancello mentre la sirena fendeva l’aria come un taglio lungo e continuo, una ferita che annunciava il momento di entrare.

«Era una fabbrica di scarpe, eravamo giovani, finalmente avevo uno stipendio mio. Nonostante il mastice che ti faceva tossire e raschiare la gola, mi sembrava d’esser felice, allora».

Sì, mamma quando era in buona raccontava, faceva collane di parole, rideva, mentre mangiava il gelato dal barattolino Sammontana, circondata dalle sue bambole. Le piaceva tanto il gelato: pistacchio e cioccolato. L’unico modo che conosceva di addolcirsi la vita. E le piacevano le bambole, perché da bambina non ne aveva mai avuta una, e a lei, figlia del primo matrimonio del padre, non era concesso toccare quelle bellissime delle sorelle acquisite. Una storia da Cenerentola, un’infanzia difficile, con il padre sempre via per lavoro e la matrigna che la detestava e preferiva le proprie figlie.

Mio padre invece era di poche parole, spesso precise e taglienti come un rasoio. Era un professionista nel lanciarmi occhiate di biasimo e scuotere la testa. Sì, uno scuotitore di testa olimpionico, un vero campione.

Quella sera, come facevo ogni tanto se avevo qualche moneta, mi sono fermato al negozio da basso a comperare un pacco di spaghetti. Ho messo l’acqua a bollire e l’ho salata.

«Ho già fatto la minestra! Ti ho detto» mi ha ripreso mia nonna.

«Lasciami fare…»

Allora anche lei ha scosso la testa: «Non fai in tempo… Ora torna tuo padre. E chi la mangia tutta questa minestra?»

«Te la mangi te» le ho risposto. «Non mangi altro. Ma io ho diciassette anni, non ottantaquattro…»

«Che hai detto?» mi ha chiesto.

«Sì, comprati l’apparecchio, se vuoi sentire!» le ho urlato.

«Non ho bisogno dell’apparecchio. Basta che mi guardi quando parli…»

Elisa ha riso.

«Oggi non riuscivo a studiare, tiene la televisione a tutto volume, si sente dal piano terra» ha detto e poi, a voce alta, guardando nonna. «Io mangio gli spaghetti!»

Abbiamo riso.

«Il vicino della casa di fronte è condannato a guardare quel che guarda lei, e abbassa il suo volume del televisore, sente anche lui il nostro!» ha detto Elisa abbracciandomi. L’ho baciata sulle guance. Abbiamo riso ancora con nonna che ci guardava male: «Ridete di me? Dite male di me? Lo so sai, cosa credete!»

«Prendo un barattolo di pomarola, di quelli del babbo» ha detto Elisa.

È a questo punto che ho sentito un dolore alla gola. Incredulo mi sono fermato ad ascoltarlo, ma era già passato.

Non era niente, ma ci siamo guardati e ho capito che anche Elisa ha pensato a mamma. Le piaceva tanto la pomarola del babbo, fatta con i pomodori dell’orto. Da quando lei non c’era più, lui aveva smesso di farla e di curare l’orto che aveva tanto amato.

«Sono rimasti solo quattro barattoli» mi ha detto, dispiaciuta.

Quando mio padre è entrato, ci ha salutato ed è andato a lavarsi, gli spaghetti erano già in tavola.

Li ha guardati. Non ha detto nulla.

Poi però si è seduto e li ha mangiati di gusto, stropicciandosi gli occhi ogni tanto, come se gli ci fosse entrato qualcosa. Tutti e tre mangiavamo gli spaghetti e lui ed Elisa piangevano, ma con discrezione, mentre il cucchiaio di nonna batteva il tempo contro la scodella e io ascoltavo dentro di me l’eco di un buio profondo e senza lacrime.

«La tua pomarola è la meglio del mondo!» ha detto Elisa. «Piaceva tanto alla mamma».

Lui ha annuito, masticando, lento, metodico. Di certo stava pensando a mamma senza dire nemmeno una parola. Ho guardato le sue mani enormi, rese grigie dall’olio di motore che si era insinuato in ogni microscopica trama della sua pelle e non veniva più via, nemmeno con il sapone. Quel groviglio di segni neri somigliava alla distesa di cespugli neri e contorti dei pomodori che si vedeva dalla finestra e che un tempo era stata il nostro orto.

Dopo cena abbiamo sparecchiato.

«Metto a letto Elisa e poi...



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