Selyem | Piove a Mosca | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, Band 79, 95 Seiten

Reihe: formelunghe

Selyem Piove a Mosca


1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-6110-275-0
Verlag: Del Vecchio Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, Band 79, 95 Seiten

Reihe: formelunghe

ISBN: 978-88-6110-275-0
Verlag: Del Vecchio Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



'Se un leone potesse parlare, non potremmo capirlo'. Attorno a questa citazione di Wittgenstein si costruisce una bizzarra saga familiare che rimette in discussione tutti gli elementi che solitamente caratterizzano il genere. La prima e più evidente caratteristica dirompente: l'intera vicenda si svolge in poco più di 100 pagine. Inoltre, il narratore è reticente a narrare la propria storia e quindi viene affiancato da animali e piante, che spesso fanno il verso e si fanno beffe dei narratori onniscienti delle grandi saghe del '900. La prospettiva di questi insoliti narratori, non così antropomorfi come ci si aspetterebbe, riempie quindi i vuoi lasciati dai silenzi del protagonista della vicenda: István Beczásy che all'età di 97 anni decide di dettare le sue memorie alla nipote, Zsuzsa Selyem. È così che il lettore si trova a percorrere con un'inaspettata leggerezza e attraverso la cinica ironia dell'autrice, alcune buie pagine della storia dell'Europa dell'est. Ascoltiamo racconti di prigionia e di tortura che sembrano lasciare il segno più sul lettore che sui protagonisti della vicenda. Memoria e finzione si mescolano in una commistione commovente e spassosa al tempo stesso. Un racconto bizzarro con radici ben piantate nella storia ma che a partire da una dimensione post-umana suggerisce vie inedite per una nuova antropocene. Un piccolo gioiello confezionato ad arte grazie alla sapienza narrativa della scrittrice, al suo esordio con questo breve romanzo.

Romanziera, poeta, traduttrice e professoressa associata presso il Dipartimento di Letteratura Ungherese dell'Università Babes-Bolyai di Cluj, Romania. Una delle voci più sorprendentemente sperimentali della narrativa ungherese, ha pubblicato finora un volume di racconti, due romanzi e cinque volumi di saggi. Moszkvaban esik (Piove a Mosca), il suo primo romanzo, è stato tradotto in molte lingue e uno dei capitoli è stato pubblicato nel volume Best European Fiction 2017, mentre un altro è stato nominato per il Premio Pushcart 2016 di World Literature Today. Come studiosa di letteratura, il suo attuale interesse è orientato verso l'ecocriticismo e gli studi sugli animali.
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BOSCO 1789

Secondo i calcoli umani ho un’aspettativa di vita di sedici anni. Il tempo trascorso nell’uovo non conta. Tempo e spazio esistono per farci sapere che le cose non si appiccicano in un unico nido e non sono attaccate una all’altra in un’unica borra, ma sono separate e diverse fra loro.

Prendiamo d’esempio il mondo. Quando sono uscito dall’uovo ho creduto che il nido fosse il mondo, che dentro ci fossimo solo noi merli e che tutto fosse stato creato a nostro piacimento. Noi, ovvero io, le mie sorelle più piccole, i miei fratelli più piccoli, i pistolini che dovevo sgridare e prendere a spintoni perché non si rimpinzassero più di me. Aprivo il becco e arrivavano i bocconcini buoni e io diventavo sempre più forte mentre una mia sorella non apriva mai il becco, infatti è caduta. Poi noialtri siamo diventati tanto super che abbiamo semplicemente spalancato le ali ed eravamo già in volo per prendere la roba da mangiare, oppure sostavamo sul ramo contenti e fischiettavamo più che potevamo con quel nostro bel becco giallo.

Nelle ore del mattino di solito canto su questo ramo. Vedo dentro la casa dove vivono i gatti e il vecchio Beczásy, d’inverno lui ci dà dei semi e della cotenna. Cili e Mici provano a prendermi ma io sono all’erta. Neppure loro sono dei giovincelli. Il vecchio Beczásy è addirittura un Matusalemme, secondo i calcoli umani si avvicina ai cento. Sta seduto tutto il giorno, si crogiola al sole quando splende, altrimenti sente freddo. Questo è tutto. Non vede quasi più, mangia pochissimo, non osa andare oltre la veranda, non sente quasi più le voci umane, tuttavia sente nitidamente la mia. E io canto per lui, mi siedo sul ramo di questa tsuga1 di centoventi anni, secondo il calcolo umano, e canto. Centoventi, pazzesco, non è vero? Soprattutto in confronto ai miei sedici. E se non succede nulla, può arrivare anche a ottocento! Quasi da non credere, una vita lunga come le vite sommate di cinquanta merli.

Il vecchio Beczásy (otto vite Beczásy corrispondono a quella di una tsuga) ama intrattenere i suoi visitatori con racconti. Alla soglia dei cento anni è stufo delle novità. Le storie raccontate mille volte gli stimolano invece la circolazione sanguigna, i suoi occhi marroni e tondi prendono a brillare, in quelle occasioni sembra un merlo. Come è fatto un merlo? Tutto in questo mondo è stato creato per lui: può anche darsi che un albero viva cinquanta volte tanto, ma vive solo per alimentare il merlo con i suoi semi; può darsi che un tempo tutto il globo terrestre fosse coperto di acqua, ma è così abbondante per dare da bere al merlo; può darsi che l’uomo sappia fare molte cose, ma mai abbastanza per essere il degno compare di un merlo – perché l’uomo impara da lui a cantare, l’acqua rispecchia noi merli, il ramo dondola noi, oh, immenso amore! Il mondo esiste per farci da nido.

– Succedeva, – raccontava il vecchio Beczásy mentre io fischiettavo, – che all’inizio del diciassettesimo secolo le potenze musulmane circostanti volevano annientare l’Armenia. Sapevano che dovevano cominciare l’opera con l’élite economica e intellettuale. Come era già accaduto tante altre volte nella storia, ci fu un eccidio e i miei antenati furono costretti a scappare. Andarono verso ovest e sostarono abbastanza a lungo a Beregszász, al punto da assumere il cognome Beregszászi.

– Come mai? Com’era il cognome originale armeno? – domandava un visitatore, ma il vecchio Beczásy sentiva solo me e io non facevo domande, fischiettavo soltanto e mi guardavo intorno.

Emánuel Beczásy era arrivato fino a Háromszék, allevava cavalli così come io fischio, cavalli screziati la cui fama giunse anche in terre lontane. Ne venne a conoscenza il principe Stirbey che stravedeva per i cavalli e inviò subito un suo stalliere inglese a Zágon per accertarsi che quei cavalli screziati fossero davvero tanto eccellenti come suggeriva la loro fama.

Lo stalliere era partito da Bucarest, in quei tempi non c’erano ancora automobili o treni utili a ridurre i tempi, cavalcò perciò per due giorni, prima attraversò una steppa dove non cresce cibo per noi, poi in salita su dolci colline, per boschi, dove noi merli amiamo la vita, infine fra rocce dove noi non voliamo mai, è il cielo dei draghi e i draghi ci danno la caccia. Sull’altro versante dei Carpazi lo stalliere del principe scendeva sopra il suo destriero nero come un merlo e con la criniera che riluceva. (D’accordo, questo l’ho aggiunto io). Arrivati a Zágon cercarono la mandria di Beczásy. A chiunque domandassero, tutti sapevano dove fossero quegli screziati e gli risposero con una strizzata d’occhio. Naturalmente lo stalliere conosceva il significato di quel gesto. In Europa i cavalli screziati non sono molto apprezzati, figuriamoci se qualcuno si prende addirittura la briga di allevarli. “Se, però, il principe mi ci ha mandato, vado a vedere cosa sanno fare”, pensò lo stalliere e il suo cavallo, nero come un merlo, seguiva atleticamente ogni sua mossa.

Saranno pure stati screziati, ma quei cavalli Beczásy sapevano fare tutto! Dapprima lo stalliere inglese li osservò pascolare liberamente, poi concentrò l’attenzione sulle proporzioni dei loro corpi, sul portamento delle teste, sulle criniere, e constatò che erano sì screziati ma forti e raffinati, ovvero eleganti.

– Cavalcherei quella cavalla, – disse lo stalliere a Emánuel facendo un cenno, e il mio avo armeno annuì (raccontava Beczásy ai suoi visitatori), la sellò, e tenendola per le briglie condusse Berohan2 dall’inglese.

– Ha scelto bene, – disse Emánuel. La cavalla fece un inchino con la testa e diede un colpo per terra con la zampa anteriore destra come se stesse dando la mano.

Passeggio, galoppo, raddoppio, quel cavallo era perfetto in tutto (raccontava Beczásy ai visitatori), quindi l’inglese trasse la conclusione: le dicerie non esageravano, quell’uomo sapeva il fatto suo, anche il posto – contemplò tutt’intorno i dolci colli erbosi, le vette lontane ricoperte di neve che secondo i calcoli umani avevano dieci e passa milioni di anni – era adatto a procurare gioia ai cavalli.

– Al principe suggerirò senz’altro di comprare Berohan. Io però ho avuto l’incarico di scegliere due cavalli, lei, signor Beczásy, quale consiglierebbe? – domandò infine.

Emánuel era dotato di un grande senso degli affari ma neppure il suo cuore era piccolo, e Berohan aveva appena cominciato a mostrare interesse per Virtus.

– Può provare quel cavallo di tre anni, – rispose Beczásy all’inglese, – ma di acquisto non se ne parla, non esiste somma di denaro per cui mi potrei privare dei miei cavalli.

Vedendo lo sguardo allo stesso tempo dubbioso e di disprezzo dell’inglese, Emánuel aggiunse:

– Giusto per qualche bosco.

Fair enough, pensò lo stalliere del principe Stirbey e saltò in sella al suo Orient nero come un merlo, tornò dal principe e gli disse che le notizie erano vere, gli screziati di Beczásy erano davvero senza eguali, l’unica difficulty era che lui non vuol sentir parlare di denaro.

Il principe Stirbey (raccontava Beczásy ai suoi visitatori) interrogò il suo stalliere nei minimi particolari, si ritirò nella sua biblioteca a meditare, si coricò ma non gli venne sonno; a tratti vedeva due bellissimi cavalli immobili come una roccia, a tratti una roccia scompariva galoppando in lontananza e lui la inseguiva invano, non riusciva a raggiungerla. Accadde così che qualche giorno dopo si fermarono tre carrozze alla mandria di cavalli di Zágon, erano il principe e il suo seguito. Il mio avo armeno (raccontava Beczásy ai suoi visitatori) li invitò dentro e li ospitò con tutti gli onori, parlarono di politica mondiale e delle più recenti scoperte di scienze naturali, delle caratteristiche delle razze di cavalli, e verso la fine della cena il principe Stirbey, come per caso, accennò ai due screziati, Berohan e Virtus, delle virtù dei quali era perfettamente informato grazie al suo stalliere, per domandare se non volessero trascorrere il resto delle loro vite nella sua mandria di cavalli.

La conversazione convinse il mio avo (raccontava Beczásy ai suoi visitatori) che il principe Stirbey fosse un uomo intelligente, previdente, altruista, generoso, curioso e molto meno vanesio di quanto si aspettasse, dunque la sua risposta fu questa:

– Berohan e Virtus sono abbastanza intelligenti da apprezzare la compagnia di sua eccellenza.

– Naturalmente le farei un’offerta, in quanto loro allevatore e allenatore, se non la offendo: a sua scelta.

– Non rifiuterei la sua offerta magnanima.

– Dica pure, Emánuel. Non esiste somma che potrei trovare troppo alta.

– Provengo da un’antica stirpe nobiliare armena, quando siamo dovuti fuggire il denaro ci ha aiutato a far scomparire il tempo e lo spazio intorno a noi. Ora invece lavoro per rendere visibile sia il tempo che lo spazio. Non scappiamo più altrove.

Aveva detto così Emánuel al principe, raccontava Beczásy ai suoi visitatori, e da allora ogni Beczásy sa che qualunque cosa debba succedere lui non scappa, casomai lo portano via.

Il principe Stirbey ci immaginava al pari di quegli escursionisti che preparano una frittata sulla cenere di un vulcano, tuttavia aspettava attento il resto.

– Berohan e Virtus sono giovani cavalli adulti, che decidano loro: il territorio che riescono a raggiungere camminando in una giornata lassù nei boschi di Zágon, lo accetterò di buon grado da sua eccellenza.

E così fu: la mattina presto sellarono i due screziati,...



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