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Seiler | Stella 111 | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 488 Seiten

Seiler Stella 111


1. Auflage 2025
ISBN: 979-12-82156-05-9
Verlag: Utopia Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 488 Seiten

ISBN: 979-12-82156-05-9
Verlag: Utopia Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



All'indomani della caduta del Muro di Berlino, il giovane Carl, studente e lavoratore fuori sede, viene richiamato nel suo paese natale dai genitori, che stanno per lasciare la Germania Est. Anche per il ragazzo, che dovrebbe sorvegliare la casa e la memoria di famiglia, mentre la madre e il padre fuggono lontano, è però faticoso rimanere in uno stato che non c'è più. E così, muratore di formazione ma all'inseguimento di un'esistenza poetica, Carl arriva a Berlino, un autentico avamposto, dove viene accolto da un branco di giovani anarchici e, per sopravvivere, svolge lavori spesso ai limiti della legalità, fino a quando non riesce a pubblicare le sue prime poesie. Un po' alla volta Berlino ritrova la normalità e Carl, diviso tra il prima e il dopo, tra la quotidianità e l'ambizione letteraria, mentre i genitori inseguono tra l'Europa e l'America i sogni di una giovinezza rubata, si consegna a una malinconica maturità, lontana dalle memorie della Germania Est, una su tutte la Stern 111, la radio di famiglia, una stella che coi suoi numeri ha illuminato le ombre di un'intera infanzia.

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Il filo


Il treno di Carl si arrestò molto prima dell'arrivo, con singhiozzi e sussulti d'acciaio, come se il cuore del suo viaggio avesse improvvisamente cessato di battere a un passo dalla meta. Fuori, un intersecarsi sconfinato di rotaie; oltre, il Muro del Pianto. Il Muro del Pianto era una parete di mattoni lunga un chilometro che delimitava l'area della stazione ferroviaria di Lipsia in direzione della città, traforata da singolari aperture simili a favi attraverso le quali si riusciva a intravedere una strada, le case e talvolta anche delle persone. Per qualche ragione accadeva spesso che i treni si fermassero là fuori, l'ingresso della stazione in vista, per minuti oppure ore, era come una vecchia piaga, una sofferenza familiare. Lo sguardo del viaggiatore cadeva quindi inevitabilmente su quel muro, e di qui il suo nome.

La mattina successiva al telegramma Carl era partito per Gera. Indossava jeans puliti e la vecchia giacca nera da motociclista con le zip diagonali sul petto; sotto, una camicia appena lavata. Di quelle camicie da lavoro senza colletto ne possedeva tre, camicie identiche, a righe sottili color azzurro pallido, che risalivano a prima dell'università, ai tempi dell'apprendistato edile. Si era perfino dato una spuntata ai capelli, non senza fatica, con le forbicine da manicure a punta arrotondata... Fino alle spalle doveva bastare. Tornava a casa, sì, ma come un uomo dato per disperso da lungo tempo, per un attimo gli sembrò così. La maggior parte dei naufraghi finiva in disgrazia proprio dopo il ritorno a casa... Era il lato triste di quelle storie. Chi riusciva a tornare a casa si smarriva sulla terraferma. Le scogliere, le tempeste, gli anni: tutta la solitudine che, come avrebbero scoperto, era stata in fin dei conti la parte migliore. Spesso non tolleravano il cibo della terraferma o morivano per i lunghissimi capelli che dovevano sfoggiare alle fiere per racimolare un po' di soldi e che poi, una notte, nel sonno, si sarebbero chiusi come un cappio attorno al loro collo...

Il capotreno camminava lungo i vagoni, sbraitava e batteva i finestrini con un bastone:

«Scendere, si scende!».

Quello era un vecchio binario laterale con una banchina provvisoria di legno. In realtà non era proprio una banchina, piuttosto una passerella, con dell'erba sopra e alcune giovani betulle ai lati che parevano indifferenti all'olio esausto e agli escrementi. Le loro foglie luccicavano di giallo. Carl guardava quel luccichio e sentiva il rumore cadenzato dei suoi passi sul legno che, come carcerati in fila indiana, marciavano verso l'atrio della stazione, su una stretta pedana tra i binari.

L'atrio semibuio era sovraffollato, un movimento ondoso, voci e schiamazzi. Dagli altoparlanti, che trasformavano ogni parola in una lingua onirica, cupa e cavernosa, risuonava un solo annuncio del tutto incomprensibile, insistente, ripetuto all'infinito:

«E... Tro!».

L'assalto era al treno espresso per Berlino, una fila di otto o nove carrozze incrostate di sporcizia con i vetri color giallo nicotina. Al telegiornale della sera prima avevano parlato di treni speciali e nuovi passaggi di frontiera provvisori con reiterati solleciti alla prudenza. Alcuni viaggiatori diretti a Berlino erano riusciti ad arrampicarsi sui finestrini superiori dei sudici vagoni per gettarsi a capofitto negli scompartimenti sovraffollati. Una scena degna di Bombay o Calcutta... Nella stazione di Lipsia pareva sproporzionata, quasi parte di una coreografia forzata, assurda, ma inscenata in modo memorabile.

Carl si spinse lento nella mischia. La borsa si incagliava di continuo. La cinghia gli tagliava la spalla e minacciava di strapparsi. Si pentì immediatamente di aver portato con sé tutte le carte e i libri... Che stupido, che incosciente era stato. Si levarono delle imprecazioni, il suo viso schiacciato contro il feltro ruvido di una giacca che immediatamente emise un verso animalesco, poi qualcosa gli speronò il petto. Cadde, trascinato e piegato dal peso della borsa. Qualcuno che di certo voleva solo afferrarlo al volo lo colpì forte in viso con il palmo della mano; Carl sentì il lezzo del sudore e perse l'orientamento.

«E... Tro! E... Tro!».

Ora l'annuncio proveniva da molto in alto. Era la voce di un gigante ubriaco che farfugliava, dalla sommità della volta fuligginosa della stazione, ma i suoi nani non gli obbedivano più.

«La mia borsa!», urlò Carl quando tornò in sé.

«Quale borsa, giovanotto? Intende questa?».

La borsa era ancora lì e, per la precisione, ci si era sdraiato sopra. Per un attimo Carl non vide i visi chini su di lui, tesi, ma composti. È gioia, pensò Carl, pura gioia. Ma in realtà non riusciva a capire cosa li tenesse composti, se fosse ancora la gioia o già l'odio.

«Le serve aiuto?».

Una ragazza, di sedici anni al massimo, gli tese un fazzoletto. Come sempre a sorprendere Carl fu il rosso vivo, questa sostanza fresca, leggermente grassa, che in fin dei conti non poteva appartenere a lui, sangue.

«Va meglio?».

La ragazza gli toccò il braccio, e Carl vide il suo volto tondo, gli occhi chiarissimi, vitrei, come ciechi.

No, adesso devi restare con me, per sempre.

«Grazie, sto bene».

Continuò a camminare, su una banchina deserta. Cercava di non badare troppo alla ragazza cieca (non era cieca), ma lei rimaneva con lui e lo teneva per un braccio, erano una coppia, finché Carl non sprofondò su una panca.

«Voleva andare anche lei a Berlino?».

Carl appoggiò il capo all'indietro e lo sentì in gola... Quel filo caldo che si slegava da qualche parte lungo il palato e bruciava in maniera piuttosto insolita, bisognava deglutire, di continuo, ma non riusciva a ingerirlo. Fin da piccolo gli sanguinava spesso il naso. Quando questo genere di cose contavano ancora, aveva sbalordito i suoi amici fermandosi l'emorragia con un solo colpo sulla fronte. Era un trucco da pugile. Con la base della mano si colpiva la fronte in modo risoluto e, per l'esattezza, di striscio e con forza. Il movimento doveva essere violento; in questo modo il capo balzava bruscamente all'indietro. Stava tutto nello scatto. Se si esitava troppo, non funzionava.

«No, volevo...».

Scosse la testa con prudenza per evitare che tutto gli prillasse davanti agli occhi. Per un po' la ragazza rimase ancora in piedi davanti a lui. Carl pensò a cosa potesse chiederle, ma tutto a un tratto se ne era già andata, e così mormorò la risposta:

«A casa. Volevo andare a casa».

Un centimetro dopo l'altro l'espresso per Berlino si staccò dal binario, i vagoni sovraffollati vi scivolarono sopra. Qualcuno urlò «adiós, poveraccio!» e un coro, che si era formato spontaneo, intonò la canzone che Carl conosceva solo dalla voce malinconica della nonna:

«Quanto vorrei fermarmi ancora...».

Carl guardò le carrozze allontanarsi. Il coro in partenza passò davanti alla passerella con le betulle luccicanti, che iniziarono a salutare con un timido tremolio.

La parola poveraccio gli ronzava ancora nel cranio. Il poveraccio era uno che, con un naso sanguinolento, se ne stava seduto a un binario senza treni in partenza. Uno che non conosce la direzione del viaggio, pensò Carl.

Tirò fuori dalla tasca il telegramma. Era solo un biglietto, scritto a mano, in fondo un timbro, nell'angolo in basso a destra il fattorino aveva annotato data e ora: 10 novembre, ore 9:20.

«CI SERVE AIUTO DAI VIENI SUBITO PER FAVORE TUOI GENITORI».

Nessun rimprovero, niente a proposito dei suoi mesi di silenzio, solo questo, un grido di aiuto. Solo questa parolina flebile, dai, che a Carl pareva di sentire, pronunciata a bassa voce da sua madre, «vieni, dai». La vedeva scendere in fretta la collina, con quei passi corti e decisi, la vedeva dettare l'indirizzo, compilare il modulo del telegramma, con precisione, ma anche tesa, agitata, per questo aveva dimenticato il saluto iniziale, e vedeva la signora Bethmann, l'impiegata allo sportello, contare le sillabe. Perfino in questi giorni, mentre accadevano le cose più inimmaginabili, «il filo», come lo chiamavano negli uffici postali, funzionava.

Carl dovette ammettere che fino a quel momento non si era preoccupato poi tanto... I genitori erano un terreno sicuro, un territorio inespugnabile, personale ed esclusivo in cui rifugiarsi nel momento del bisogno. Gli erano mancati, sì, stranamente i suoi genitori gli erano mancati, non solo nell'ultimo anno, in cui li aveva visti solo una volta, no, anche prima, e in realtà sempre, sempre gli erano mancati.

Cercò il binario dal quale partivano abitualmente i treni in direzione sud, verso quella zona al confine tra Turingia e Sassonia da cui proveniva la sua famiglia... «Dove la lepre e la volpe si dicono buonanotte», una delle espressioni preferite da suo padre per dire «nel bel mezzo del nulla». Ogni sera, da bambino, prima di andare a dormire, Carl aveva visto le volpi e le lepri arrivare alla spicciolata ai margini del bosco per darsi la buonanotte. Talvolta c'erano anche altri animali, i più disparati, e a volte anche delle persone amiche degli animali. Si trattava di un luogo ben definito, illuminato dalla luna, dove tutte quelle creature miti e intelligenti si riunivano ancora una volta a fine giornata... Un'unica sagoma con musi alzati, teste alzate. Un coro le salutava all'unisono:

«Buonanotte, voi lepri da Gera, voi volpi da...



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