E-Book, Italienisch, 160 Seiten
Reihe: Saggi
Schreiber Soli
1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-6783-440-2
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 160 Seiten
Reihe: Saggi
ISBN: 978-88-6783-440-2
Verlag: ADD Editore
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Nella storia mai cosi? tante persone hanno vissuto da sole, eppure la societa? continua a considerare la solitudine come la mancanza di qualcosa, se non addirittura come un fallimento personale. Ma che cosa significa essere soli? Questo saggio intenso, in bilico fra esperienza personale, filosofia e letteratura, esplora un sentimento che tutti conosciamo e che spesso ci spaventa. Daniel Schreiber percorre la tensione che si muove tra il desiderio di ritiro e liberta? e quello di vicinanza, amore e comunita?, riflettendo sull'assenza, sui legami e sul ruolo dell'amicizia. Soli si chiede dunque se felicita? e solitudine possono coesistere, ma la piu? importante delle domande diventa allora un'altra: in che modo vogliamo vivere?
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LA VITA DA SOLI
Eravamo seduti su traballanti sedie pieghevoli nel retro della casa a goderci gli ultimi raggi del sole di tarda estate, bevendo un caffè. Davanti a noi si estendeva un appezzamento di terreno incolto che una volta ospitava un grande orto urbano. Sylvia e Heiko si erano costruiti quella casa nei pressi del lago di Liepnitz, alle porte di Berlino. Ci erano voluti anni per finirla, ma ora si erano trasferiti lì, assieme alla loro figlioletta Lilith, lasciandosi definitivamente alle spalle la vita berlinese. Avevo seguito il trasloco con sentimenti contrastanti. Non riuscivo a immaginare che cosa avrebbe comportato quella distanza per la mia vita sociale e soprattutto per il rapporto di amicizia che da molto tempo mi legava a Sylvia.
Quel giardino era abbandonato ormai da anni. Il terreno spinoso dal quale spuntavano erba secca, piante erbacee e ortiche era circondato da tuie che raggiungevano metri di altezza, tenendosi ben strette l’una all’altra. Tre grossi pini svettavano al centro, mentre qua e là c’erano arbusti secchi di lauroceraso e rododendro, sui cui rami si intravedevano poche foglie. Solo sporadiche piante di silene color porpora, incredibilmente resistenti alla siccità, qualche geranio rosa e qualche pianta delle asteracee, i cui fiori risplendevano di luce giallo-arancione, erano riusciti a sopravvivere.
Senza pensarci troppo, chiesi a Sylvia se potevo aiutarli a riprogettare il giardino. Per un qualche motivo, che non sono in più in grado di spiegare, sentivo che per me sarebbe stato importante. Credo c’entrasse il bisogno di radicamento che speravo di trovare stando a contatto con la natura e prendendomi cura delle piante. Forse una parte di me aveva la sensazione che lo stato disastroso in cui versava quel giardino assomigliasse a quello della mia vita. Disastrosa nonostante gli attimi di bellezza. Nei mesi precedenti si era insinuato in me il pensiero di aver fatto qualcosa di sbagliato, di esser stato ammaliato, negli anni della gioventù, da un’idea romantica dell’essere adulti, e mi sembrava che solo ora le conseguenze di quell’equivoco si manifestassero con chiarezza.
Non ho scelto intenzionalmente di vivere da solo. Al contrario, per molto tempo ho dato per scontato che avrei condiviso la vita con qualcuno e che con quel qualcuno sarei invecchiato. Avevo sempre avuto relazioni, ora più brevi, ora più lunghe, talora anche molto lunghe, e spesso l’una confluiva nell’altra. Con due dei miei partner ho convissuto e con uno di loro ho progettato per anni un futuro in due. In quel periodo della vita, le settimane in cui mi capitava di ritrovarmi da solo avevano il sapore dell’eternità, un’eternità che riempivo con flirt e avventure di una notte, o con ossessioni romantiche che oggi preferisco non ricordare. Ma a un certo punto tutto questo finì. Passai prima mesi, poi anni senza una relazione, mentre anche le avventure si facevano sempre più rare. Se per molto tempo non ero stato in grado di stare da solo, ora sembrava che la solitudine la cercassi.
Parlandone con amiche e amici, dicevo che dipendeva dal fatto che prima fossi più giovane, meno prevenuto e più temerario. Altre volte ne attribuivo la causa a una certa spietatezza che avvertivo nel mondo dell’amore e del desiderio omosessuale, che faceva sì che a partire da una certa età si diventasse invisibili. Poi, tra me e me, mi chiedevo se non fossi troppo segnato dalle relazioni precedenti per poterne avere di nuove, o addirittura se nella mia vita ci fosse lo spazio per un legame, dato che dovevo lavorare molto per mantenermi e, soprattutto, avevo bisogno di parecchio tempo per dedicarmi alla scrittura, che era il mio progetto esistenziale.
Tutto questo c’entrava, eppure non era sufficiente come spiegazione, perché c’erano giorni in cui mi sembrava di intuire che se vivevo da solo era anche perché mi mancava una sorta di fiducia di base. Non riuscivo proprio a immaginarmi un futuro promettente che meritasse di essere condiviso con qualcuno. Questo senso di impotenza andava ben oltre la vita privata. Le conseguenze di insanabili squilibri economici, il crescente influsso di regimi autocratici, i danni quasi certamente irrimediabili del cambiamento climatico: tutto questo mi faceva pensare che al genere umano fosse venuta meno la volontà di opporsi alla catastrofe che lo attendeva. Mi sembrava che invece vi si abbandonasse con un fatalismo in cui avvertivo un inquietante senso di piacere. La mia disperazione aumentava a ogni estate segnata dalla siccità, a ogni ciclone tropicale che distruggeva interi lembi di terra e Stati insulari, a ogni previsione di carestie e di flussi migratori seguiti al crollo di sistemi politici, a ogni notizia da cui emergeva la passività dei governi del mondo. Bastava che leggessi degli incredibili successi di campagne di disinformazione, di messe in guardia contro il cyber e il bioterrorismo, di nuovi virus e di epidemie che ci avrebbero colti impreparati, per avvertire sempre di più questo senso di impotenza.
Credo che l’espressione “moral injury” sia adatta per descrivere ciò che provavo. Il concetto proviene dagli studi sui disturbi post-traumatici accusati dai reporter di guerra, e descrive una ferita sul piano della comprensione interiore della realtà, che deriva dal fatto di aver dovuto assistere a eventi orribili senza poter intervenire in alcun modo.1 Naturalmente la nostra vita non si può paragonare a quella di chi ci racconta la guerra, eppure il dilemma di fondo è simile: assistiamo all’orrore che accade nel mondo, pur essendo condannati in larga misura all’inerzia. Da tempo mi ero accorto che per me era praticamente impossibile accettare questa condizione, senza che si trasformasse in un doloroso attacco alla mia bussola morale, alla comprensione del mondo e di me stesso.
Amo i giardini. Fin da piccolo chiedevo a mia madre, appassionata di giardinaggio, i nomi delle piante, e mi perdevo giocando tra grandi alberi da frutto e piumose piante di asparago. Da molti anni ho l’abitudine di andare a Bornim, nei pressi di Potsdam, per visitare il bellissimo giardino di Karl Foerster. Sono capace di trascorrere ore nel Potager du Roi a Versailles, un orto progettato da Jean-Baptiste de la Quintinie. Il castello di Sissinghurst di Vita Sackville-West, con la sua tenuta e il vasto giardino suddiviso per colori, mi toglie ogni volta il respiro. Negli ultimi anni mi ha affascinato soprattutto il lavoro del designer Piet Oudolf. I suoi giardini emanano una bellezza selvaggia. Assomigliano a oceani in cui onde di fiori della prateria, di piante perenni e graminacee si susseguono ritmicamente. C’è sempre qualcosa di fiorito in quei giardini che, grazie alle forme di alcune piante, sono belli anche d’inverno.
I giardini di Oudolf mi trasmettevano sensazioni che difficilmente riuscivo a tradurre in parole. Nutrivano il mio bisogno di avere un luogo in cui rifugiarmi, suggerendomi allo stesso tempo l’idea che alle avversità dei nostri tempi si potesse reagire. In quei giardini vedevo la possibilità di rendere un po’ più bello questo mondo anche nel nostro piccolo, gettando almeno su un pezzo di terra le fondamenta di un futuro migliore. Ci vedevo la possibilità di vivere nel e con il mondo che non ci dà tregua.
Ispirato da Oudolf e dalla sua filosofia dei giardini, proposi a Sylvia e Heiko di riprogettare in maniera più ambiziosa il terreno attorno alla loro casa. Mi procurai i libri di Oudolf e li studiai in modo meticoloso. L’obiettivo era creare un giardino sostenibile, che di anno in anno avrebbe comportato sempre meno lavoro, dal momento che le piante dovevano essere calibrate così bene tra di loro e rispetto al luogo in cui si trovavano da creare una sorta di mini ecosistema. Un giardino che anche nelle estati calde avrebbe richiesto pochissima acqua.
Poco alla volta ci siamo messi a lavorare. Avevo una copia di chiavi della casa e, quando era necessario o anche solo quando non stavo particolarmente bene, prendevo il treno regionale da Berlino al lago di Liepnitz. Una volta lì, mi alzavo all’alba, mi facevo un caffè e uscivo in giardino. Il lavoro manuale andava di pari passo con un lavoro di tipo spirituale, la creazione dello spazio del giardino comportava al tempo stesso un ampliamento del mio spazio mentale. Questa almeno era la sensazione che provavo.2
In quell’autunno mi sono spesso ritrovato a pensare alla nota tesi della “fine delle grandi narrazioni” di Jean-François Lyotard. Lyotard l’aveva avanzata già verso la fine degli anni Settanta dello scorso secolo nel suo libro . Non si riferiva a forme di narrazione letteraria, ma piuttosto a una sostanziale perdita di credibilità di cui soffre la nostra società. Le “narrazioni” che aveva in mente erano la politica e la filosofia. Secondo Lyotard, nessuno di questi due ambiti poteva più rivendicare qualcosa come una “razionalità” universalmente valida.3
Forse solo ora ci stavamo rendendo conto delle conseguenze di questa fine delle grandi narrazioni sul piano della nostra vita concreta, e mi sembrava anche che da un paio di anni potessimo osservarle in tempo reale, assistendo a fenomeni in parte auspicabili e in parte minacciosi. Come la messa in discussione del patriarcato e delle rigide definizioni di genere, per esempio, o il venir meno di una responsabilità collettiva e di un agire sociale basato sul pensiero scientifico o, ancora, la perdita di fiducia...




