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E-Book

E-Book, Italienisch, 297 Seiten

Reihe: Indi

Rovelli Soffro dunque siamo

Il disagio psichico nella società degli individui
1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-3389-475-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Il disagio psichico nella società degli individui

E-Book, Italienisch, 297 Seiten

Reihe: Indi

ISBN: 978-88-3389-475-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



La depressione, è stato detto, è la malattia del ventunesimo secolo. Gli antidepressivi rappresentano una delle principali componenti della spesa farmaceutica pubblica e stanno emergendo forme del disagio psichico che non erano altrettanto rilevanti nella psicopatologia del Novecento: disturbi di panico, disturbi borderline, anoressia, bulimia, fenomeni di ritiro sociale. Questo «contagio», cui la pandemia ha fatto da moltiplicatore, ci dice molto sulla natura della nostra civiltà ipermoderna e neoliberale - quella che ha preso corpo negli anni Ottanta all'insegna del motto thatcheriano: «La società non esiste. Esistono solo gli individui». Grazie a una ricerca lucida e incentrata sulle testimonianze dirette di chi dal disagio psichico è stato travolto e di chi si sforza ogni giorno di comprenderlo e curarlo, Rovelli mostra la profonda connessione esistente tra le nuove psicopatologie e una società «degli individui» in cui vige l'imperativo della prestazione e della competizione. E riflette su come la psichiatria egemone concepisca la «malattia mentale» come il frutto di una macchina cerebrale malata e da riparare, escludendo la dimensione psicosociale sia come fattore generativo, sia come cura.

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INDIVIDUO CONDIVIDUO


. Fin dai primi giorni del lockdown prese a circolare questo slogan. Che però, a distanza, pare più un auspicio che una realtà. I binari della cosiddetta normalità non sembrano essere stati scalfiti dall’emergenza pandemica, ma, semmai, rafforzati. Eppure, questa emergenza ci ha mostrato tutti i problemi di quella normalità in una deflagrazione rallentata, come nello scoppio di , nel rallentamento di un tempo sospeso dove il futuro viene radicalmente messo in questione. In questa sequenza lentissima, che ci permette di focalizzare i dettagli, vediamo emergere i segni di un disagio che si colloca al centro di questa nostra civiltà. I media stessi ce lo dicono ripetutamente: con la pandemia, è esploso il disagio psichico. Ma è stato generato o è stato innescato? Non sarà che è letteralmente , e ciò che era già in attesa è affiorato in superficie con la sua terribile forza d’urto? Non sarà che questo varco temporale che è stata la pandemia ci ha permesso di gettare uno sguardo più profondo sulla natura del disagio psichico, su quanto esso appartenga costitutivamente al nostro tempo, e sul modo limitativo in cui di solito lo intendiamo?

La pandemia è un tempo sospeso per tutti. D’un tratto, la percezione del tempo si trasforma. Scompare la profondità di campo, la prospettiva si deforma: come un’anamorfosi, come un teschio. Il passato non è più un «sembra ieri», ma viene allontanato in una dimensione mitica, il «qualche mese fa» diventa «sembra un secolo fa». Il futuro è allontanato in una dimensione palingenetica: non c’è più presa possibile su di esso, non c’è più misura comune, niente che consenta di afferrarlo, orientarlo, farlo proprio. Si sta sospesi in un eterno presente: ma anche il presente sembra scomparso, perché il tempo vive solo nello spazio, nel contatto con le cose: e le cose sono lontane, tremendamente lontane.

Il tempo della pandemia, allora, diventa il tempo di una messa in questione della realtà. Ma quando si pone in questione qualcosa, occorre avere le risorse per dare delle risposte. E se queste risorse non si hanno, si sta male. E il malessere, il disagio, la sofferenza psichica in questo tempo sospeso sono cresciuti enormemente. Ma questa esplosione del disagio – sintomi depressivi o ansiosi generalizzati – non è un’irruzione improvvisa, una comparsa di alieni dallo spazio. Essa è da intendersi proprio alla luce della nostra mancanza di risorse per far fronte a una crisi già in atto. Il tempo della pandemia è un’accelerazione di processi di lunga durata. Che riguardano il nostro modo di abitare il mondo.

Sono molti gli studi che raccontano di una crescita significativa dei disturbi depressivi e ansiosi dovuti al senso di carcerazione e all’isolamento forzato, alla perdita di relazioni e di «normalità» esistenziale, ma anche allo smart working, che può portare a un collasso della separazione tra tempo del lavoro e tempo di vita, laddove si deve essere sempre operativi, presenti agli imperativi e alle prestazioni richieste dal lavoro. Per non dire, poi, di chi il lavoro lo perde.

Proviamo dunque a pensare il disagio prodotto da questa situazione non come un cataclisma esterno, ma come qualcosa di latente che emerge, che viene portato alla luce. I sintomi ansiosi e depressivi, così come gli altri disturbi aggravati dalla situazione pandemica, non sono forse qualcosa di estremamente comune, indipendentemente dalla pandemia? L’ansia, il calo nel tono dell’umore, la depressione, l’agitazione, il panico, sono condizioni diffusissime nella nostra società. La pandemia, allora, ci dà una straordinaria opportunità per riflettere su come il disagio psichico sia un sintomo che ordinariamente trascuriamo, e che invece contrassegna profondamente la nostra società in senso pienamente .

«Salute mentale», si dice.1 Già il termine è insidioso. , salvezza. Quale salvezza? Esistono forse i «sani», col motore mentale a posto, e i «malati», col motore rotto? Questa è l’illusione dominante. Troppo comodo, però. O si tratta della salvezza di chi rischia di annegare in un naufragio? Sono molti i modi per salvarsi da un naufragio: una nave che passa, un compagno che stava nel naviglio dal quale siamo caduti, un rottame della barca andata in pezzi a cui aggrapparsi... L’essenziale è scampare al naufragio, sopravvivere. Ma anche in questo caso, il naufragio non sarà ancora una volta la condizione dei «malati» che non riaffiorano alla luce? Forse, allora, non bisogna parlare di salvezza. Perché nessuno è salvo, mai, e non ci sono destinati al naufragio: non c’è bianco/nero, nell’esistenza. E in ogni caso, niente ci riporta a uno stato iniziale integro. Se da qualche parte un cammino ci porta, lo fa verso una consapevolezza del nostro incessante trasformarci. La salvezza non ci salva dalla nostra precarietà, ci fa comunque restare esposti ai pericoli e ai rischi del transitare nel mare della vita. E si tratta di riprendere un cammino. Di capire dove andare. Di costruire un senso. La salute è allora ciò che ci restituisce alla nostra possibilità di tracciare autonomamente un senso, di costruire un progetto, di individuare un orizzonte.

«Hai notato come sono rari e fievoli i sorrisi, sulla bocca stralunata di un uomo in crisi, come guarda sempre in basso, come cerca protezione, come evita a ogni passo di attirare l’attenzione? Sui suoi occhi stanchi e bui, senza più salde certezze, come cerca con le mani sempre nuove sicurezze?» Così cantava Claudio Lolli, nella canzone «Un uomo in crisi»; e in quella crisi era facile riconoscere i segni di quella che si chiama depressione.

La depressione, è stato detto, è la malattia del XXI secolo, popolato da scenari in cui il disagio psichico dilaga come un’epidemia contagiosa. Secondo l’Oms, l’Organizzazione mondiale della sanità, nel 2030 la depressione sarà la malattia cronica più diffusa. «Già oggi gli antidepressivi rappresentano una delle principali componenti della spesa farmaceutica pubblica», scrive Luca Pani, ex direttore generale dell’Aifa, l’Agenzia italiana per il farmaco.2 Più avanti torneremo su questi dati, anche per metterli in questione alla luce delle categorie usate per definirli, ma certamente si tratta di un fatto di portata enorme, che non può non essere affrontato.

Ma non c’è solo la depressione. Ci sono forme emergenti del disagio psichico che non erano così rilevanti nella psicopatologia del Novecento: disturbi di panico, disturbi borderline, disturbi ossessivo-compulsivi, disturbi del comportamento alimentare, fenomeni di ritiro sociale.

Cosa ci dice, il dilagare di questo contagio? Ci dice qualcosa di importante sulla natura di questa società, che si tratta di capire. Come scriveva Mark Fisher, la biologizzazione e la farmacologizzazione del disagio psichico sono tra le questioni più rilevanti, profonde e della nostra era, in questa «società degli individui», come sembra opportuno denominare la civiltà ipermoderna neoliberale, quella che prese corpo definito negli anni Ottanta all’insegna del motto thatcheriano: «Non esiste nulla che possa definirsi società. Esistono gli individui, i singoli uomini e le singole donne, ed esistono le famiglie».3

«L’attuale ontologia dominante esclude ogni possibile causa della malattia mentale», scriveva Fisher. «La biochimizzazione della malattia mentale è ovviamente legata a doppio filo alla sua de-politicizzazione».4 Se ogni disagio psichico è causato da un’anomalia chimica nel cervello, allora non serve chiedersi se c’è qualche determinante patogena nella società stessa. Che «non esiste», appunto. Questo, è bene chiarirlo subito, non significava certo per Fisher sostenere un determinismo – che sarebbe schematico e banale – tra cause sociali e disagio psichico. «Sostenere che ogni singolo caso di depressione possa essere ricondotto a cause economiche o politiche sarebbe semplicistico: ma è altrettanto semplicistico affermare, così come sostengono gli approcci dominanti alla depressione, che occorre sempre cercare le radici della depressione nella chimica individuale del singolo cervello o nelle esperienze vissute durante la prima infanzia».5 Si tratta dunque di uscire da ogni forma di riduzionismo, e focalizzarsi sui punti di intersezione tra «individuo» e «società»: sulla natura relazionale dell’umano. Chiedendoci che cosa la sua individualizzazione ci impedisca di vedere.

Nella narrazione egemone nella società degli individui, la natura relazionale della persona umana, la sua natura sociale, scompare: scompare la sua storia, scompare la parola. Scompare la complessità della persona, ridotta a un individuo – della sua natura relazionale; e l’individuo viene ulteriormente ridotto alla sua dimensione organica. Ciascuno viene ridotto al suo sintomo, per ogni sintomo c’è una diagnosi, e per ogni diagnosi c’è una «cura» farmacologica. In questa narrazione, il disagio psichico è effetto di cause biologiche, nasce da un cervello rotto, motore in panne da riparare: e la riparazione avviene intervenendo con uno psicofarmaco. (Criticare questa narrazione non significa affatto dire che gli psicofarmaci siano da buttare, che la psichiatria non sia altro che una forma di controllo sociale, che ogni disagio psichico si potrebbe curare con la parola e basta. Significa invece dire che lo psicofarmaco...



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