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E-Book

E-Book, Italienisch, 619 Seiten

Reynolds Retromania

Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-7521-763-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Musica, cultura pop e la nostra ossessione per il passato

E-Book, Italienisch, 619 Seiten

ISBN: 978-88-7521-763-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



È proprio vero che la musica ha smesso di evolversi? Quello che è certo è che gli anni Zero non hanno dato inizio al futuro che in campo culturale ci aspettavamo: le reunion più o meno riuscite, le cover band, il ritorno del vinile e delle musicassette hanno collaborato alla creazione di uno scenario dove anche i nuovi personaggi assomigliano a un patchwork di fenomeni precedenti. Attraverso aneddoti di giganti della vecchia guardia (con esaltanti panoramiche su Beatles, Patti Smith e Frank Zappa) e di artisti contemporanei - che sono spesso giunti alla notorietà rielaborando scampoli di musica strappati all'oblio - Simon Reynolds, incoronato erede di Lester Bangs, ci racconta questa ossessione per il passato in un saggio che unisce lo sguardo appassionato della critica musicale alla lucidità dell'indagine sociologica. E, insieme alla denuncia di un futuro che non c'è stato, pone una domanda a cui ancora non c'è risposta: continueremo a vivere oppressi dalla nostalgia oppure la retromania si rivelerà una fase storica isolata?

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IL RI-DECENNIO
INTRODUZIONE


L’era pop in cui viviamo è impazzita per tutto ciò che è rétro e commemorativo. Gruppi che si riformano, reunion tour, album tributo e cofanetti, festival-anniversari ed esecuzioni dal vivo di album classici: quanto a passione per la musica di ieri, ogni anno supera il precedente.

E se il pericolo più serio per il futuro della nostra cultura musicale fosse... ?

Potrà sembrare un proclama inutilmente apocalittico, ma lo scenario che immagino, più che un cataclisma, è un esaurimento graduale. È così che finisce il pop: non con il del colpo di grazia, ma con un cofanetto il cui quarto disco non trovi la forza di infilare nel lettore cd, o con il costosissimo biglietto per assistere alla riesecuzione traccia per traccia di quell’album dei Pixies o dei Pavement che hai ascoltato fino alla nausea durante il primo anno di università.

Tanto tempo fa il metabolismo pop ribolliva di energia dinamica, creando quel promettente senso di speranza nel futuro associato a movimenti come la psichedelia anni Sessanta, il post-punk anni Settanta, l’hip hop anni Ottanta e il rave anni Novanta. Altrettanto non si può dire dei Duemila. Tim Finney di rilevava «la curiosa lentezza con cui procede il nostro decennio». L’oggetto principale della sua analisi era la dance elettronica, un genere che per tutti i Novanta aveva rappresentato l’avanguardia della cultura pop e, stagione dopo stagione, il trampolino di lancio per le Grandi Novità. E tuttavia la riflessione di Finney è applicabile non solo alla dance, ma alla musica popolare in quanto tale. Con l’avanzare del decennio la sensazione di progredire si affievoliva. Anche il tempo sembrava stagnante, come un fiume che comincia a formare dei bracci morti.

Se la spinta dell’OGGI si indeboliva ogni anno, il motivo era che il presente pop dei Duemila era sempre più spodestato dal passato, sotto forma di memorie d’archivio o di un retro-rock che era sedimento dei vecchi stili. Invece di esprimere se stessi, i Duemila preferivano offrire un concentrato di tutti i decenni precedenti: una simultaneità della cronologia pop che abolisce la storia, erodendo l’autocoscienza del presente in quanto epoca dotata di identità e sensibilità proprie.

Invece di spalancare le porte del futuro, i primi dieci anni del XXI secolo hanno finito per qualificarsi come il «Ri-decennio»: vival, stampe, make, costruzioni. Per non parlare del perenne sguardo trospettivo: ogni annata ha portato un profluvio di anniversari con corollario di biografie, memorie, rockumentari, biopic e numeri commemorativi di riviste. Senza dimenticare i gruppi formati, si trattasse di union tour per mpinguare (o gonfiare ulteriormente) il conto in banca (Police, Led Zeppelin, Pixies... l’elenco è infinito) o del preludio a un torno in studio di registrazione per lanciare la carriera (Stooges, Throbbing Gristle, Devo, Fleetwood Mac, My Bloody Valentine e così via).

Magari ci fossimo limitati al ritorno della vecchia musica e dei vecchi musicisti sotto forma di archivio o di rinascita artistica. I Duemila sono stati il decennio del ciclaggio rampante: generi d’antan vitalizzati e nnovati, materiale sonoro d’annata processato e combinato. Troppo spesso sotto la pelle soda e le guance rosee delle giovani band si intravedeva la flaccida carne grigia delle vecchie idee.

Con il passare degli anni, il divario temporale tra i fenomeni musicali e le loro visitazioni sembrava ridursi insidiosamente. Le serie televisive (e così via di decennio in decennio), prodotte dalla BBC e adattate per l’America da VH1, tracciavano frenetiche carrellate sugli anni Settanta, Ottanta e Novanta, per poi – con , andata in onda nell’estate del 2008 – inventariare anche i Duemila prima ancora che terminassero. Negli ultimi anni l’industria delle stampe ha già affondato i tentacoli nei tardi Novanta, con una serie di cofanetti e di edizioni rimasterizzate/arricchite di artisti minimal techno tedeschi o britpop e persino gli album solisti più deboli di Morrissey. La marea crescente del passato ci lambisce ormai le caviglie. Quanto ai vival, la scena musicale si atteneva sostanzialmente alla «regola dei vent’anni»: gli anni Ottanta sono stati «in» per gran parte dei Duemila, sotto forma di un rinascimento post-punk, electropop e, più di recente, dark. Ma già si intravedevano i primi squarci di revivalismo anni Novanta, con la moda nu rave e l’ascesa di shoegaze, grunge e britpop come punti di riferimento per i nuovi gruppi indie.

Il termine ha un significato specifico: allude a una mania consapevole per uno stile d’altri tempi (musica, abbigliamento, design) che si esprime creativamente attraverso il e la citazione. Nel senso più stretto, «rétro» tende a indicare il territorio di esteti, intenditori e collezionisti, persone dotate di una cultura quasi accademica unita a un sottile senso dell’ironia. Il termine, tuttavia, ha finito per essere utilizzato in maniera molto più vaga, come sinonimo di tutto ciò che appartiene al passato relativamente recente della cultura pop. È questa accezione più ampia che prende in esame, scandagliando l’intera gamma di usi e abusi contemporanei del passato pop. L’analisi si soffermerà anche su fenomeni quali la sempre più ingombrante presenza della vecchia cultura pop nella nostra vita: dall’acquistabilità dell’intero catalogo discografico degli artisti al gigantesco archivio collettivo di YouTube, fino alle impressionanti modifiche impresse al consumo musicale da dispositivi di ascolto come l’iPod (spesso utilizzato come stazione radio personale di «grandi classici»). Un altro aspetto fondamentale è l’invecchiamento naturale della musica rock a una cinquantina d’anni dalla sua nascita: artisti del passato ancora in tour o in studio di registrazione, artisti che tornano sulle scene dopo un lungo periodo di silenzio. Per finire abbiamo la «nuova musica» dei giovani autori che attingono pesantemente al passato, spesso in maniera ostentata e intellettualoide.

Certo, la storia ha conosciuto altre epoche ossessionate dall’antichità – dalla venerazione rinascimentale per il classicismo romano e greco al medievalismo del movimento dark – ma non è mai esistita una società umana così fissata con i prodotti culturali del . Ecco cosa distingue il rétro dall’antiquariato e dalla storia: una fascinazione per le mode, le manie passeggere, i suoni e le star abbastanza vicini nel tempo da poterli ricordare. L’oggetto di questa ossessione si configura in maniera sempre più netta come la cultura pop che abbiamo già vissuto , al contrario di ciò che ascoltavamo acriticamente da bambini.

Questo genere di retromania è diventato una forza dominante nella nostra cultura, tanto che oggi abbiamo la sensazione di aver raggiunto un punto di svolta. La nostalgia blocca la nostra capacità culturale di guardare avanti, oppure siamo nostalgici perché la cultura ha smesso di progredire, costringendoci a concentrare l’attenzione su epoche più movimentate e dinamiche? Cosa succederà quando saremo a corto di passato? Siamo destinati a una sorta di catastrofe cultural-ecologica, una volta esaurito l’orizzonte della storia pop? E di tutte le novità degli ultimi dieci anni, quali andranno ad alimentare i capricci nostalgici di domani?

Non sono l’unico a essere perplesso di fronte a simili prospettive. Ho perso il conto delle pensose rubriche giornalistiche e dei blog che si domandano, preoccupati, che fine hanno fatto l’innovazione e gli strappi nella musica. Quali sono i nuovi generi e le sottoculture del XXI secolo? A volte sono gli stessi musicisti a esprimere un affranto senso di déjà vu. In un’intervista del 2007, Sufjan Stevens dichiarava: «Il rock è un pezzo da museo. [...] Ci sono grandi gruppi rock, oggi: amo i White Stripes, amo i Raconteurs. Ma è un pezzo da museo. Quando entri nei club è come guardare History Channel. Non fanno che reinterpretare un sentimento vecchio. Si lasciano possedere dai fantasmi di quell’epoca: gli Who, il punk, i Sex Pistols e così via. I giochi sono fatti. La ribellione è finita».

Naturalmente non è un malessere circoscritto alla musica pop. Pensiamo alla mania hollywoodiana per i rifacimenti dei kolossal di una ventina d’anni fa: , , , , , , , , , ... E già si annunciano remake della (sì, per la terza volta), , eccetera, mentre Russell Brand comparirà nei rifacimenti di e . Quando non è impegnata a rispolverare antichi successi sbanca-botteghini, l’industria cinematografica adatta per il grande schermo le serie televisive più amate e «iconiche»: vedi ,



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