E-Book, Italienisch, 468 Seiten
Reynolds Futuromania
1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-3389-226-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Sogni elettronici da Moroder ai Migos
E-Book, Italienisch, 468 Seiten
ISBN: 978-88-3389-226-9
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
La musica elettronica ci affascina cosi? tanto perche? promette il futuro: e? la musica di domani, oggi. Questa storia personale e dizionario amoroso di mezzo secolo di musica elettronica - costruito attraverso profili, saggi e interviste - non poteva dunque che chiamarsi Futuromania. Simon Reynolds eleva a titolo l'orgogliosa dipendenza dal nuovo, l'amore per tutto cio? che sembra arrivare alle nostre orecchie come un ambasciatore della forma sonora delle cose che verranno. Ma il lungo percorso che dagli anni Settanta di Giorgio Moroder, Kraftwerk e Brian Eno porta al synth-pop, alla musica della cultura rave, a Burial e ai tardi anni Dieci della trap e della conceptronica nasconde un'inquietudine, se non proprio un paradosso: la sensazione che in qualche modo siamo andati oltre il futuro, e lo abbiamo lasciato alle spalle. «I Feel Love», «Trans-Europe Express» e le altre profetiche registrazioni del nostro avvenire pop iniziano a sembrarci memorie fantasmatiche di una modernita? e di un modernismo ormai finiti. I sogni elettronici sono quindi fatti della promessa e del ricordo del futuro, sono desideri e ossessioni insieme. Futuromania e? una guida tanto autorevole quanto entusiasta, informa e soprattutto spinge il lettore alla scoperta del nuovo, accompagnandolo in fantastiche avventure sonore. Perche?, come dice l'autore, «qui dentro c'e? tutta una vita di ascolto elettronico».
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LA CANZONE DEL FUTURO
«I FEEL LOVE» DI DONNA SUMMER, GIORGIO MORODER E PETE BELLOTTE E L’INVENZIONE DELLA MUSICA DANCE ELETTRONICA
Esistono canzoni che dividono la storia del pop in un Prima e un Dopo. Alcune sono incontestabili: «She Loves You», «Anarchy in the U.K.», «Rapper’s Delight». Altre sono oggetto di dibattito. Capita che l’impatto rivoluzionario di un brano venga avvertito solo in seguito: si pensi ad «Acid Trax» dei Phuture. Altre volte, la rottura delle convenzioni si consuma in bella vista al vertice delle classifiche, e l’effetto è immediato. È il caso di un singolo che cambiò il pop per sempre e all’epoca venne percepito come uno shock del futuro in tempo reale: «I Feel Love».
Pubblicata all’inizio del luglio 1977, «I Feel Love» sfondò in tutto il mondo, raggiungendo il numero 1 in molti paesi (compreso il Regno Unito, dove vi rimase per un mese intero) e il numero 6 in America. Ma il suo impatto andò ben oltre la scena disco in cui la cantante Donna Summer e i produttori Giorgio Moroder e Pete Bellotte si erano già affermati. I gruppi post punk e new wave si innamorarono e si appropriarono di quel sound innovativo, della precisione maniacale di quell’implacabile groove di pulsazioni synth sequenziate. Ancora oggi, anni dopo la fine della discofobia e del rockismo, proviamo un brivido malizioso ad affermare che «I Feel Love» è molto più importante di altri singoli epocali del ’77 come «God Save the Queen», «Sheena Is a Punk Rocker» o «Complete Control». Eppure è un semplice dato di fatto: se c’è una canzone che segna l’inizio degli anni Ottanta, quella è «I Feel Love».
All’interno della club culture, «I Feel Love» indicò la direzione e aprì la strada a generi come Hi-NRG, Italo disco, house, techno e trance. Tutti gli elementi residuali della disco – gli aspetti che la collegavano alla tradizione pop, ai musical, al soul orchestrato, al funk – vennero accantonati per lasciare il posto a un futurismo brutale: ripetizione meccanica, elettronica glaciale, un’atmosfera cieca e ossessiva di propulsione postumana.
«“I Feel Love” fece piazza pulita degli aspetti più leggeri e decorativi della disco per trasformarla in un genere incalzante e dinamico», osservava Vince Aletti, il primo critico americano a prendere la disco sul serio. Nella rubrica sulla club music che teneva per , paragonò il brano a «Trans-Europe Express/Metal on Metal» dei Kraftwerk, un altro pezzo trance-dance elettronico che faceva impazzire le folle nei locali più coraggiosi.
Ma l’effetto di «I Feel Love» si fece sentire anche fuori dalle piste da ballo. Gli Human League, ancora sconosciuti ma destinati a diventare star del synthpop degli anni Ottanta, dopo averla ascoltata cambiarono completamente direzione. Altrettanto folgorati rimasero i Blondie, uno dei primi gruppi punk ad assimilare la disco. Famoso è l’episodio di Brian Eno che, brandendo una copia di «I Feel Love», irruppe nello studio berlinese in cui lui e David Bowie erano impegnati a creare nuovi futuri musicali: «Ecco, ci siamo», dichiarò col fiatone. «Questo singolo cambierà la club music per i prossimi quindici anni».
Sulla scia di «I Feel Love», Giorgio Moroder diventò una star della produzione musicale, il Phil Spector della disco. Apparve persino sulla copertina di , la più importante rivista rock inglese. La sua fabbrica sforna-hit era da molti considerata la Motown di fine anni Settanta, con Donna Summer nei panni di Diana Ross.
I volti pubblici dell’operazione erano Summer e Moroder, con i suoi inconfondibili baffi neri, ma a Musicland, il suo studio di Monaco, il produttore italiano guidava un team di musicisti e tecnici di prim’ordine. Il più importante era Pete Bellotte, il partner muto di Moroder: muto nel senso che non concedeva mai interviste ed evitava i riflettori, ma il suo ruolo di fucina creativa per le canzoni, oltre in senso musicale più ampio e nella produzione, era essenziale. Era stato lui a notare per primo le doti vocali di Summer. La squadra comprendeva anche il super batterista Keith Forsey, una macchina umana; una serie di tastieristi tra i quali Þórir Baldursson, Sylvester Levay e Harold Faltermeyer; l’eccellente fonico Jürgen Koppers e una figura vagamente misteriosa di nome Robbie Wedel, la cui straordinaria conoscenza del funzionamento del Moog fornì un contributo fondamentale alla costruzione di «I Feel Love».
In un settore a forte tasso di egocentrismo, Moroder si è sempre dimostrato insolitamente generoso nel riconoscere la natura collettiva delle magie sonore che ancora oggi vengono attribuite a lui soltanto. Forsey lo ricorda come «bravo a delegare, a individuare talenti compatibili fra loro», ma sottolinea anche che Moroder «era il leader e bisognava fare come diceva lui. Giorgio era il boss».
Appartamento di Moroder a Westwood, un distretto esclusivo di Los Angeles. La scena grida «Mr. Music»: un pianoforte a coda bianco, una mensola per i Grammy e gli Oscar, una parete tappezzata di dischi d’oro. L’arredo prevalentemente bianco del soggiorno, pieno di decorazioni in vetro, è a metà fra (colonna sonora di Moroder, guarda caso) e gli eleganti interni di , il film degli anni Settanta con Dudley Moore nei panni di un compositore losangelino in piena crisi di mezza età. In un angolo, un Buddha di bronzo avvolto in sciarpe di chiffon, mentre un gigantesco ritratto di Elizabeth Taylor, appena vistoso, campeggia su quasi tutta una parete.
Vivace e paterno, Moroder porta ancora i famosi baffi, che però oggi sono bianchi, alla Babbo Natale. A settantasette anni, la sua memoria non è più quella di una volta: alcuni segmenti di storia li ricorda con nitidezza cristallina, ma su altri – come l’album del 1978 , a mio parere l’apice della simbiosi Summer-Moroder-Bellotte – il buio è totale.
Moroder è cresciuto nelle valli alpine del Sudtirolo, una regione ai confini settentrionali dell’Italia appartenuta all’Austria per cinquecento anni, finché non passò in mano italiana dopo la prima guerra mondiale. La sua lingua madre è il ladino, ma parla correntemente tedesco e italiano. «A Ortisei, la mia città, parlavamo tre lingue diverse, a seconda dell’interlocutore. Ma coi miei fratelli, ancora oggi parliamo in ladino».
Dopo gli esordi giovanili dal vivo nei locali, negli anni Sessanta Moroder cominciò a produrre e pubblicare dischi, ottenendo hit in qualche paese europeo con singoli bubblegum come «Moody Trudy» e «Looky Looky». Risale agli anni Settanta la nascita del sodalizio con Pete Bellotte, un emigrato inglese che aveva trascorso gran parte dei Sessanta a inseguire invano il successo come chitarrista di Linda Laine and the Sinners, guadagnandosi nel frattempo da vivere con esibizioni in locali tedeschi poco raccomandabili. È vero che nel 1972 gli Chicory Tip sfondarono in Europa con una cover di «Son of My Father», una canzoncina di Moroder e Bellotte piena di sintetizzatori, ma all’epoca nessuno immaginava che alla fine del decennio i due sarebbero diventati i geni incontrastati del pop.
A un certo punto, Bellotte scoprì le straordinarie doti vocali di una cantante nera americana, anche lei emigrata in Europa a caccia di opportunità. Nata a Boston, LaDonna Gaines aveva esordito nei Crow, un gruppo rock della sua città, per poi entrare nel cast di alcuni musical in Europa – , e alla Vienna Volksoper – e trovare ingaggi come cantante turnista in studio di registrazione. Sposò quindi un attore austriaco e ne prese il nome: Sommer. Una sua performance vocale su un demo di Bellotte suscitò interesse imprevisto da parte dell’industria discografica, al che lei anglicizzò il cognome in «Summer» e formò la partnership con Moroder e Bellotte.
Il trio ottenne un modesto successo in Europa con alcuni singoli e il primo album di Summer, ma la svolta arrivò con l’epopea disco-erotica di «Love to Love You Baby», che nel 1976 raggiunse il numero 2 nella classifica di in America, il numero 4 nel Regno Unito e la Top 20 in altri tredici paesi. I sospiri e i gemiti di Summer le valsero i soprannomi di «Pantera Nera» e «Linda Lovelace del pop» (allusione alla star del cult porno ). Incoronandola regina del «Sex Rock», contò ben ventidue orgasmi simulati nei quasi diciassette minuti del brano. Neil Bogart, capo della leggendaria etichetta disco Casablanca, aveva chiesto a Moroder di allungare il brano in modo che occupasse un intero lato dell’album perché – così racconta la leggenda – gli serviva una colonna sonora per un’orgia. Esaltando il primo lato dell’album come «un disco splendido, perfetto per una scopata», Bogart incoraggiava il pubblico a portarsi «Donna a casa per farci l’amore; sotto forma di album, si capisce» e le radio a trasmettere il brano a mezzanotte, come ausilio alle effusioni domestiche.
Malgrado il clamoroso successo, «Love to Love You Baby» sembrava più che altro una a luci rosse, esasperata dalle roventi performance trash di Summer all’epoca: la cantante spesso entrava in scena portata da due uomini in perizoma, mentre alle sue spalle coppie di ballerini mimavano il sesso nelle posizioni più svariate. Quanto al resto dei suoi primi tre album disco (brani provocanti ed esuberanti, ben eseguiti ma dalle sonorità piuttosto convenzionali), non lasciavano presagire alcun monumentale salto in avanti da parte di Moroder e Bellotte.
Qualcosa però...