Rennis | Pop is dead | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 348 Seiten

Reihe: cronache

Rennis Pop is dead

La storia dei Radiohead
1. Auflage 2025
ISBN: 979-12-5480-215-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

La storia dei Radiohead

E-Book, Italienisch, 348 Seiten

Reihe: cronache

ISBN: 979-12-5480-215-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



I Radiohead esordiscono nel 1992 con Creep, un singolo di grande successo commerciale che finiranno presto per odiare, e da lì in avanti sfidano le convenzioni del pop per diventare, nei decenni successivi, un gruppo imprevedibile e spiazzante, non solo dal punto di vista musicale: l'antitesi delle rockstar, gli interpreti irrequieti di un mondo distopico in radicale cambiamento, un poliedro pieno di contrasti. La loro storia è sorprendente, come la loro discografia, in cui convivono Ok Computer (1997), definito 'l'ultimo grande album rock del xx secolo', Kid A (2000), un disco che spinge sull'elettronica, e In Rainbows (2007), una sintesi sonora pubblicata in digitale sul sito del gruppo, con prezzo a scelta. Un decennio dopo, mentre venivano analizzati in ogni loro aspetto e conquistavano nuove generazioni di fan, i Radiohead si sarebbero eclissati, concentrandosi sui progetti solisti. A quarant'anni dai primi tentativi nelle sale di musica della scuola di Abingdon, la band è ormai circondata da un'aura mitologica e schiere di adepti, ma non cessa di essere 'un disturbo, un'anomalia che rischia di incantarci'. Restano aspetti ancora poco conosciuti della storia e del 'fenomeno Radiohead', stereotipi da smontare, contraddizioni da approfondire, indizi da sondare: come ha fatto Fernando Rennis, che da anni è sulle tracce dei cinque di Oxford e ha parlato con i loro insegnanti e compagni di scuola, intervistato musicisti, registi, giornalisti e collaboratori che hanno incrociato le loro vicende. Attraverso una ricerca rigorosa e uno sguardo appassionato, questo libro ci guida in un viaggio documentato e coinvolgente nel cuore inquieto della musica contemporanea.

Fernando Rennis scrive e parla di musica. I suoi articoli sono apparsi su testate italiane e internazionali. Conduce This Is Pop?, un programma radiofonico da cui sono nati anche un blog e un podcast. Ha pubblicato vari libri, tra cui Charming men. La storia degli Smiths (nottetempo, 2024), Un glorioso fallimento. L'eterno presente della Factory Records (Arcana, 2022) e Politics. La musica angloamericana nell'era di Trump e della Brexit (Arcana, 2018).
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These Are My Twisted Words


E così, sono morto.

Tutto quell'affanno, quella pressione. Corri e non fermarti, mai. Ossessioni, rinunce, sacrifici: è tutto finito. Niente più compromessi, niente più crisi di panico. Vuoi vedere che l'ambizione ci rende davvero più brutti?

Ne avevo tantissima, ma non sto così male, ora, in questa bara trasparente. Ho la testa poggiata su un cuscino color porpora che non si scompone quando sei ragazzi mi prendono in spalla e una fila serpeggia per la campagna inglese. C'è perfino il sole.

Sono morto mentre il nostro disco d'esordio annega nei bassifondi delle classifiche in America e nel Regno Unito. Il pop sta peggio di me, ma non lo sa. S'è fatto più plastiche facciali di chi ha paura del tempo. È passato a miglior vita a suon di back catalogue. Quella, sì, è una morte atroce.

Ora mandate avanti il nastro. Mi vedrete ricevere un Grammy per l'ultimo grande album rock del Ventesimo secolo. Ascoltare sfinito, accovacciato, in lacrime sul sedile posteriore di un'auto inghiottita nel buio dell'Oxfordshire il disco successivo, quello che sorprende tutti. Finire in copertina anni dopo per un album che ha quasi distrutto il mio gruppo e ha fatto venire un infarto all'industria musicale.

Ma adesso sono qui, pallido e in giacca nera. Sono morto. Il pop è morto.

Quando i Radiohead pubblicano il singolo non proprio memorabile Pop Is Dead, nel maggio del 1993, avevano già esordito con l'album Pablo Honey, uscito a febbraio. Il video del brano alterna scene del presunto funerale del cantante Thom Yorke e della sua resurrezione da un sepolcro di pietra a quelle del quintetto: alla batteria siede Phil Selway, al basso c'è Colin Greenwood e, poi, ben tre chitarre, suonate da suo fratello Jonny, da Ed O'Brien e dalla voce della band.

Il disco di debutto era stato anticipato nel settembre dell'anno prima da Creep, una canzone deprimente che ci metterà dodici mesi per diventare un successo enorme, commerciale, “facile”. Tutti pensano sia l'effimero, fortunato trionfo di un fenomeno passeggero, e i suoi stessi autori lo odiano al punto da soprannominarlo crap, merda. Invece, nei decenni successivi i cinque ragazzi di Oxford diventeranno un gruppo imprevedibile, non solo dal punto di vista musicale. A un certo punto tutti cercheranno di suonare come i Radiohead, tutti si ispireranno ai Radiohead. Tutti vorranno essere i Radiohead. Ancora oggi, per sottolineare il lavoro più sperimentale di una carriera artistica si ricorre molto spesso all'espressione “è il suo Kid A”, in riferimento al quarto disco in studio del quintetto, pubblicato nel 2000.

Quando, durante un concerto, Michael Stipe degli R.E.M. confessa al pubblico: “I Radiohead sono così bravi che mi fanno paura”, non è ancora uscito Ok Computer. I cinque lo presentano una sera di fine primavera del 1997 all'Irving Plaza di New York, e devono persino aggiungere a penna alla lista degli ospiti alcuni personaggi famosi che vogliono partecipare. Il pubblico assiste a un concerto perfetto che Mike Mills degli R.E.M. indica a Mojo come il migliore dell'anno. Ma i Radiohead sono tanto avanguardisti quanto tradizionalisti: nella sala, Ed O'Brien fa scambiare il tavolo di Madonna con quello di sua madre, che può così guardarlo da un posto privilegiato.

La loro evoluzione è inversa rispetto alle parabole classiche del mondo della musica. Si sono allontanati dall'iniziale successo di facile assimilazione per inglobare nel loro sound musica elettronica, classica, sperimentale, atmosfere di vecchi brani riscoperti su vinili ingialliti del Ventesimo secolo. Messa alle spalle l'esperienza con una storica major, sono diventati “la più grande band al mondo senza un contratto discografico”, pubblicando i dischi da sé. I Radiohead hanno sempre avuto un atteggiamento entusiasta verso i nuovi suoni, unito a un'attenzione maniacale ai dettagli. La loro è una storia di continuo rinnovamento, una costante messa in discussione di quanto fatto in precedenza.

Ce li hanno spiegati attraverso Adorno, Baudrillard, Kristeva, Guattari e altri pensatori del Novecento, ci sono interi volumi dedicati a loro singoli album (come La storia di Kid A e Ok Computer e la morte dell'album classico), numerosissime raccolte di saggi – le pubblicazioni accademiche sono più di un migliaio – che scandagliano qualunque aspetto della storia e della produzione artistica della band (da Ritmi euclidei nel corpus post-millennial dei Radiohead a La strategia dei Radiohead prima dell'uscita di In Rainbows), libri di ogni sorta e con i riferimenti disciplinari più disparati (I Radiohead e il movimento globale per il cambiamento, I Radiohead e la filosofia, I Radiohead e il concept album resistente, I Radiohead e il viaggio oltre il genere, Cosa può imparare la teologia dai Radiohead), persino blog che ti spiegano Come diventare Colin Greenwood in dieci semplici passi.

Nel loro repertorio convivono carezze come Nude e incubi come Climbing Up the Walls, brani come Burn the Witch e Treefingers, Bloom e Hunting Bears, Idioteque e Pyramid Song – quest'ultima al centro da anni di un vero e proprio dibattito sul suo tempo musicale.

Perciò, quanto a interpretazioni che pullulano sui Radiohead, si ha l'imbarazzo della scelta. C'è la teoria “Kid 17”: ascoltando Kid A su due supporti diversi con uno scarto di 17 secondi, ecco un intero nuovo album. E anche la “Binary Theory”: In Rainbows, uscito dieci anni esatti dopo Ok Computer, è stato costruito per incastrarsi perfettamente con il disco del 1997. Date un'occhiata al cortometraggio Radiohead: The Secrets of Daydreaming, cercate gli ultimi versi di Separator, il brano finale dell'album The King of Limbs: ovvio che si tratti di un messaggio segreto sull'imminente pubblicazione della seconda parte di un disco troppo breve e con troppi pochi brani. Quello strano codice sul retro di Ok Computer – 18576397 – indica il preciso istante in cui l'album è stato chiuso, le 18:57 del 6 marzo 1997. E ancora: scaricando gratuitamente il singolo These Are My Twisted Words, perché nel file di testo allegato si legge “Wall of Ice”? Si tratta chiaramente di un EP in arrivo.

Nel suo libro Killing Yourself to Live, Chuck Klosterman si spinge ancora più in là. In un curioso passaggio scrive che “la prima canzone di Kid A dipinge lo skyline di Manhattan alle 8:00 di martedì mattina”. Seguendo la tracklist dell'album, The National Anthem musicherebbe l'impatto del primo aereo con la Torre nord, Optimistic descriverebbe la percezione degli americani e della diplomazia internazionale da parte di Al Qaida. Klosterman non mette nero su bianco che i Radiohead abbiano previsto l'11 settembre, però, come molte congetture sul gruppo, alimenta la plausibilità dell'ipotesi.

Suona tutto così affascinante, ma anche forzato. Lo dico per il mio passato di fan da transenna, tessera Radiohead Public Library numero 294.400, che ci ha scritto la sua tesi di laurea, custodisce gelosamente la loro discografia, prime stampe comprese, e un cassetto di biglietti: i Radiohead a Roma, gli Atoms for Peace a Parigi, gli Smile a Milano. Per anni ho urlato ai quattro venti che se non hai mai ascoltato Towering Above the Rest – ventiquattro dischi pirata composti di bootleg, rarità e demo – non puoi dirti fan dei Radiohead. Ricordo ancora quando ho passato un intero pomeriggio a imparare a suonare Paranoid Android o a maneggiare con disinvoltura quel maledetto tempo di Pyramid Song.

Ricordo anche quando li ho scoperti. Un classico degli anni Novanta, sia la canzone sia la dinamica: la sorella maggiore di un mio amico aveva fatto una compilation in CD in cui era inclusa Karma Police. Non l'avevo capito lì per lì, ma era stato il mio primo innamoramento. È successo di nuovo quando nella biblioteca dell'università ho scaricato la mia copia digitale di In Rainbows, o mentre spendevo una manciata di euro per il download di The King of Limbs dal sito del gruppo, o correvo a casa con una mia amica per guardare il video di Burn the Witch, pubblicato a sorpresa in un caldo pomeriggio di maggio. Ho recensito i loro dischi e progetti paralleli, li ho intervistati, analizzati nuovamente per un approfondimento monografico. Ma, col passare del tempo, il loro lungo silenzio da un lato – seguito a quella che Steven Hyden definisce la “californizzazione” di Thom Yorke – e, dall'altro, il mio scrivere e parlare di musica che ha preso sempre più spazio, hanno attenuato il fervore. Ciò nonostante, per tutto questo e altro ancora, quando per pura casualità è saltata fuori la proposta di scrivere per nottetempo un libro sui...



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