E-Book, Italienisch, 479 Seiten
Proulx Avviso ai naviganti
1. Auflage 2018
ISBN: 978-88-7521-961-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 479 Seiten
ISBN: 978-88-7521-961-1
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Quoyle vive a Brooklyn, sbarca il lunario facendo il giornalista, ha una moglie e due figlie. Una vita come tante, tra piccole gioie e grandi frustrazioni: finché, un giorno, viene licenziato dal quotidiano per cui lavora e, tornato a casa, trova ad attenderlo la babysitter con un messaggio da parte di sua moglie: ha deciso di abbandonarlo definitivamente per fuggire con un amante. Si ritrova così da solo, senza soldi e con due figlie da mantenere. Chiunque, davanti a due catastrofi di questa portata, si lascerebbe andare, tanto più se, come Quoyle, ha sempre vissuto di piccoli e grandi compromessi. E invece accade l'inverosimile. Ribellandosi a un destino che sembrerebbe già scritto, e facendo appello a un coraggio che ignorava di avere, prende il primo traghetto per Terranova insieme alle figlie e a un'attempata zia e va a stabilirsi in un villaggio coperto di neve quasi tutto l'anno, ai confini del mondo. Un luogo aspro ed estremo, permeato da legami antichissimi e oscure superstizioni, che si trasforma nell'ultima occasione per ritrovarsi, e impossessarsi, forse per la prima volta, della sua vita. Torna in libreria, dopo quasi vent'anni, il capolavoro di Annie Proulx: un romanzo carico di umorismo ed empatia, e una delle poche opere nella storia della narrativa americana ad aver ottenuto i due premi letterari più importanti degli Stati Uniti: il Pulitzer e il National Book Award.
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1
Quoyle
Il grande libro dei nodi
Quello che segue è un resoconto di alcuni anni della vita di Quoyle, nato a Brooklyn e cresciuto in una sfilza di tetre città di provincia.
Con il viso coperto dai foruncoli e le viscere bombardate da gas e crampi, Quoyle era sopravvissuto all’infanzia. All’università statale, con la mano sul mento, aveva camuffato la propria sofferenza con sorrisi e silenzi. Aveva attraversato a fatica i primi vent’anni e si era inoltrato nei trenta imparando a separare i sentimenti dalla vita, senza fare affidamento su nulla. Aveva un appetito prodigioso, adorava il prosciutto e le patate al burro.
I suoi mestieri: fornitore di dolciumi per distributori automatici, commesso notturno in un negozio di generi alimentari, cronista di terz’ordine. A trentasei anni, in lutto e in preda al dolore per il suo amore perduto, Quoyle aveva virato verso Terranova, l’isola dei suoi antenati, un luogo che non aveva mai visitato, né mai aveva pensato di visitare.
Un luogo circondato dall’acqua. E Quoyle temeva l’acqua. Non sapeva nuotare. Più di una volta suo padre aveva mollato la presa per lasciarlo cadere in stagni, torrenti e laghi, oppure tra i flutti. Quoyle conosceva bene il sapore dell’acqua torbida e dell’elodea.
A partire da quel primo difetto del figlio minore, la sua incapacità di mantenersi a galla, il padre aveva visto sbocciare in lui una serie di altri difetti, come un’esplosione di cellule virulente: l’incapacità di parlare in modo chiaro, di tenere le spalle dritte, di alzarsi dal letto la mattina, il suo atteggiamento sbagliato, la mancanza di ambizione e di abilità. Un fallimento totale. In breve, il proprio fallimento.
Di un palmo più alto rispetto agli altri bambini, Quoyle si trascinava. Era fiacco. Lo sapeva bene. «Grande, grosso e rammollito», gli diceva il padre, pur non essendo lui stesso un pigmeo. E suo fratello Dick, il cocco di papà, fingeva di vomitare ogni volta che Quoyle entrava nella stanza. «Faccia di lardo, moccioso, bomba puzzolente, maiale schifoso, lanciascorregge, cinghiale verrucoso, palla di grasso», gli sibilava, e lo riempiva di pugni e calci, finché Quoyle non si raggomitolava con la testa fra le mani piagnucolando sul linoleum. Tutto dipendeva dal principale difetto di Quoyle, quello di non avere un aspetto normale.
Il suo corpo era un polpettone enorme e flaccido. A sei anni pesava trentasei chili. A sedici era sepolto in un’enorme corazza di carne. La testa a forma di melone, niente collo, i capelli rossicci mandati all’indietro. I lineamenti ravvicinati come le dita di una mano unite per lanciare un bacio. Gli occhi color plastica. Un mento mostruoso, una specie di mensola che gli sporgeva dalla parte inferiore del viso.
Un gene anomalo doveva essere esploso durante il suo concepimento, come una scintilla che schizza fuori dalla brace ardente, per dotarlo di quel mento gigantesco. Da bambino ideava stratagemmi per eludere le occhiate altrui: un sorriso, uno sguardo verso il basso, la mano destra sempre pronta a coprire il mento.
La prima percezione che aveva avuto di sé era stata quella di una figura distante. Lì davanti, in primo piano, c’era la sua famiglia; sullo sfondo, alla periferia del campo visivo, c’era lui. Fino all’età di quattordici anni si era illuso di essere stato affidato alla famiglia sbagliata e che da qualche parte i suoi veri genitori, a cui era toccato il vero figlio dei Quoyle, morivano dalla voglia di abbracciarlo. Poi un giorno, curiosando in una scatola di ricordi di viaggio, aveva trovato una foto di suo padre insieme ai fratelli e alle sorelle, appoggiati al parapetto di una nave. Una ragazza si teneva in disparte e guardava l’orizzonte con gli occhi socchiusi, come se riuscisse a vedere il porto di destinazione, mille miglia più a sud. Quoyle aveva ritrovato qualcosa di sé nei loro capelli, nelle braccia, nelle gambe, nella grossa figura dall’aria scaltra, con indosso un maglione infeltrito e la mano tra le gambe: suo padre. Sul retro, una scritta a matita blu: .
All’università Quoyle frequentava corsi che non capiva. Curvo su se stesso, camminava avanti e indietro senza parlare con nessuno e tornava a casa a trascorrere weekend atroci. Alla fine aveva abbandonato gli studi e si era messo a cercare un lavoro, sempre con la mano sul mento.
Nulla appariva chiaro al povero Quoyle. I suoi pensieri si agitavano come quella massa informe che gli antichi marinai, navigando nella mezza luce artica, chiamavano il «polmone marino», un’ondeggiante poltiglia di ghiaccio coperta dalla nebbia, dove l’aria si trasformava in acqua, i liquidi erano solidi e i solidi si dissolvevano, dove il cielo era ghiacciato e il buio e la luce finivano per confondersi.
Approdò al giornalismo per puro caso, mentre indugiava davanti a un grasso e a un pezzo di pane. Il pane era buono, senza lievito, cresciuto grazie alla fermentazione dell’impasto e cotto nel forno del giardino di Partridge. Il giardino di Partridge odorava di farina di granturco bruciata, di erba falciata e di pane caldo.
Il saucisson, il pane, il vino, i discorsi di Partridge gli fecero perdere un’occasione di lavoro che avrebbe potuto garantirgli un posto sicuro attaccato al seno scarno della burocrazia. Il padre di Quoyle, che aveva fatto carriera fino a diventare direttore del reparto frutta e verdura di una catena di supermercati, teneva un sermone illustrando la storia della propria vita. «Appena sbarcato in questo paese ho trasportato carriole di sabbia per lo scalpellino...» E via dicendo. Era affascinato dai misteri del mondo degli affari: uomini che firmavano documenti facendosi scudo con la mano sinistra, riunioni tenute dietro vetrate opache, valigette chiuse a chiave.
Ma Partridge, con l’olio che gli colava ai lati della bocca, aveva detto: «Ma che te ne frega?», e aveva continuato ad affettare pomodori color porpora. Cambiò discorso descrivendo a Quoyle i luoghi che aveva visitato: Strabane, South Amboy, Clark Fork. A Clark Fork aveva giocato a biliardo con un tizio con il setto nasale deviato, che indossava guanti di pelle di canguro. Quoyle, seduto su una poltrona da giardino, ascoltava con la mano sul mento. C’era una macchia di olio d’oliva sull’abito che aveva indossato per il colloquio di lavoro, un seme di pomodoro sulla sua cravatta a rombi.
Quoyle e Partridge si erano conosciuti in una lavanderia a gettone di Mockingburg, nello stato di New York. Quoyle, curvo sul giornale, sottolineava le offerte di lavoro, mentre le sue camicie «taglia forte» vorticavano nell’asciugatrice. Partridge commentò che trovare lavoro non era facile. «Sì», rispose Quoyle, «è vero». Poi Partridge buttò lì una considerazione sulla mancanza d’acqua. Quoyle annuì. Dopo di che Partridge cambió discorso ancora una volta, parlando della chiusura dello stabilimento di crauti. Con fare maldestro Quoyle aprì lo sportello dell’asciugatrice per tirare fuori le camicie, che finirono per terra tra una cascata di monetine calde e penne a sfera. Erano macchiate d’inchiostro.
«Rovinate», osservò Quoyle.
«Nooo», disse Partridge. «Strofinaci sopra del sale caldo e un po’ di talco. Poi lavale di nuovo, con la candeggina».
Quoyle rispose che avrebbe provato a farlo. Gli tremava la voce. Partridge si sorprese nel vedere gli occhi incolori di quell’omone gonfiarsi di lacrime. Perché in realtà, per Quoyle, anche la propria solitudine era un fallimento. Desiderava con tutto se stesso stare insieme agli altri, sapere che la gente gradiva la sua compagnia.
Le asciugatrici cigolarono.
«Vieni a trovarmi una sera di queste», disse Partridge, scrivendo il proprio indirizzo e il numero di telefono di traverso sul retro di uno scontrino spiegazzato. Neanche lui aveva molti amici.
La sera seguente Quoyle si presentò, con le braccia cariche di buste della spesa. La facciata della casa di Partridge, la strada deserta immersa nella luce ambrata. Un momento dorato. Nelle buste, una confezione di cracker svedesi, bottiglie di vino rosso, bianco e rosato, grosse fette di formaggi esteri avvolti nel cellophane. Oltre la porta di Partridge una musica calda e giocosa, che diede a Quoyle un fremito di emozione.
Furono amici per un po’, Quoyle, Partridge e Mercalia. Le loro differenze: Partridge era nero, basso, un inquieto viaggiatore sui pendii della vita, un parlatore instancabile; Mercalia, seconda moglie di Partridge, aveva il colore di una piuma marrone sull’acqua scura, e un’intelligenza ardente; Quoyle era grosso e bianco, e avanzava impacciato, senza una meta precisa.
Partridge vedeva oltre il presente, aveva fugaci apparizioni di eventi futuri, come se di tanto in tanto alcuni fili staccati del suo cervello si collegassero per qualche attimo. Era nato con la camicia, nel vero senso della parola. A tre anni aveva visto un fulmine globulare che rotolava giù per una scala antincendio; aveva sognato dei cetrioli la notte prima che suo cognato venisse punto da un calabrone. Era convinto che la fortuna non gli avrebbe mai voltato le spalle. Sapeva fare anelli di fumo perfetti. E i beccofrusoni si fermavano sempre nel suo giardino durante la migrazione.
In quel momento, in giardino, davanti a Quoyle che sembrava un cane...




