Pinto | Fuori catalogo: storie di libri e librerie | E-Book | www2.sack.de
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E-Book, Italienisch, 128 Seiten

Pinto Fuori catalogo: storie di libri e librerie


1. Auflage 2013
ISBN: 978-88-6243-288-7
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 128 Seiten

ISBN: 978-88-6243-288-7
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Undici racconti a formare un romanzo in un gioco continuo di rimandi e incastri. Un omaggio alla grande letteratura senza tempo che diventa la cornice di una vita vissuta per i libri e tra i libri. Undici piccoli ritratti in cui realtà e finzione si fondono e confondono, in cui vita e letteratura diventano inseparabili. Libri, librai e lettori sono i protagonisti di questo curioso inventario in cui i diversi personaggi saltano, indisciplinati e irrequieti, da una pagina all'altra contaminando anche le storie vicine. Con una postfazione di Marco Cassini.

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CAPITOLO II

Presi a fatica la maturità scientifica. Io ed il mio amico Roberto ci salvammo a stento dall’ultimo scrutinio: fu grazie al professore di filosofia, un prete, che pregò a lungo perché fossimo considerati maturi, nonostante l’insegnante di matematica ripetesse che era impossibile traghettarci con un voto da totocalcio nello scritto. Era pur sempre un liceo scientifico, continuava a ripetere la professoressa Patanò ai colleghi della commissione.

Decisi così che forse, prima di iscrivermi all’università, sarebbe stato meglio fare il servizio militare e iniziare a lavorare. Cominciai come “accompagnatore grande invalido affetto da cecità bilaterale e amputazione avambraccio destro”: con questa dicitura, l’incarico che mi era stato affidato mi faceva sentire quasi un generale. Il mio amico Francesco mi aveva preceduto in questa mansione e mi aveva segnalato a Vincenzo, il grande invalido, vittima civile per cause di guerra. Da bambino, giocando tra le campagne pugliesi, aveva urtato un ordigno inesploso e ci aveva rimesso la vista e un avambraccio; lo Stato, dunque, gli riconosceva una buona pensione e un accompagnatore.

Il primo giorno di servizio mi pentii di aver scelto di fare l’accompagnatore. Oltre a Vincenzo, mi trovai davanti due suoi amici, entrambi non vedenti, uno senza gli avambracci. Quel giorno mi vennero i sudori freddi a portarli in giro per la città. Per impedire che sbattessero o inciampassero ci rimisi la mia giacca nuova, che infilzai a un chiodo sporgente da una porta.

Il secondo giorno Vincenzo mi portò nella sede della loro associazione e mi presentò alla segretaria Marcella. Ci trattenemmo un’oretta e mi accorsi che i soci non vedenti la salutavano tutti con una pacca sul sedere. Sapevo che, quando viene a mancare la vista, gli altri sensi si sviluppano di più, però questo comportamento non mi sembrava normale e soprattutto rispettoso della giovane segretaria. Andando via la salutai, scusandomi per loro con un sorriso.

Vincenzo insegnava tiflologia in una scuola per non vedenti e ipovedenti, e tutte le mattine dovevo accompagnarlo al lavoro con la mia utilitaria, una vecchia 127 targata K64546 che io chiamavo “reversibile” perché a spostare la K si poteva leggere allo stesso modo partendo dall’inizio o dal fondo. Quando lui era a scuola passavo intere mattinate nella vicina biblioteca a leggere giornali, sfogliare riviste e guardare le offerte di lavoro. Finite le ore di lezione, lo accompagnavo a casa e dopo il suo riposino pomeridiano riprendevamo la lettura ad alta voce dei giornali e dei libri. Sottoponeva noi accompagnatori a maratone interminabili. Quando un libro gli piaceva voleva finirlo e spesso mi faceva saltare la cena. Non aveva pietà e diceva di farlo per il mio bene. Probabilmente aveva ragione: ho letto più libri nell’anno di servizio militare che negli ultimi tredici anni di scuola.

Le prime letture servirono a familiarizzare con il suo pensiero di militante comunista. Iniziammo con le di Antonio Gramsci e con di Maksim Gor’kij. Continuammo con Ignazio Silone e con Goffredo Parise. Della scoperta di Parise sono tuttora grato a Vincenzo: ho ancora in mente i personaggi del e del . Vincenzo non si limitava alle letture di noi accompagnatori-lettori, ma ci mandava in biblioteca a prendere le audiocassette con i romanzi registrati. Di giorno ascoltava me, di notte i romanzi dal mangiacassette. Scoprii di Arpino prendendo di nascosto i suoi audiolibri.

Viveva con due giovani nipoti, Mariolina e Lucia, figlie del fratello, arrivate dal sud per studiare, di cui era molto orgoglioso. Un giorno, dopo un paio d’ore di lettura, stremato chiesi una pausa. Mi recai in cucina per prendere un bicchier d’acqua e trovai Lucia. Iniziammo a chiacchierare e non mi accorsi che era passata un’ora. Quando tornai da Vincenzo, mi rimproverò minacciando di sostituirmi con un altro militare se mi fossi di nuovo permesso di assentarmi per tanto tempo.

Nei giorni seguenti leggevo, ma non riuscivo a seguire le storie. Non solo, sbagliavo spesso l’intonazione, l’interpunzione e a volte anche gli accenti. Ormai, mentre leggevo, vedevo tra le pagine il volto di Lucia che mi sorrideva e mi invitava a smettere per farle compagnia. Ero stato colpito dalla sua bellezza mediterranea e dalla sua timidezza. Una semplice chiacchierata mi aveva stordito. Stessa età, stessa riservatezza, stesso tipo di scuola, stessi occhi neri pungenti. La prima volta che ci vedemmo, ci attraversammo con lo sguardo. Avevo ormai un unico pensiero: conoscerla più a fondo. Le scrissi un biglietto dicendole che dovevo parlarle. Il giorno dopo trovai nella tasca del giubbotto un messaggio di Lucia che mi dava un appuntamento alla fontana del vicino giardino.

Mi presentai all’appuntamento con i capelli tirati dal gel e con passo da ballerino e scatto da atleta mi avvicinai alla fontana. Arrivato di fronte a lei, mi sciolsi come la neve di marzo. Le gambe mi tremavano e a stento riuscii a dirle “ciao”. La mia timidezza superò la sua, per oltre mezz’ora non emisi un suono. Ascoltai in silenzio il suo racconto. Da anni non faceva altro, con sua sorella più piccola, che studiare e accudire lo zio. Mi svelò il suo mondo singhiozzando e balbettando. Mi disse che ormai con Vincenzo quasi non parlava, la sera mangiavano in silenzio e l’unico sottofondo era quello del televisore.

Mentre Lucia piangeva, raccontando quanto fosse difficile la convivenza, io avevo dentro un’incontenibile gioia. Mi sentivo importante. Aveva scelto me per aprirsi. Mi disse che da qualche giorno trascurava lo studio per ascoltare di nascosto le mie letture e che avrebbe voluto sentirmi rileggere per intero di Parise. Cercavo di immaginare Lucia che ascoltava dietro la porta e si faceva avvolgere dalle storie che leggevo. Pensavo a quante volte la mia professoressa di italiano, ascoltando la mia lettura faticosa, mi suggeriva di andare al parco e leggere ad alta voce. Quell’esercizio era servito. Adesso avevo voglia di baciare Lucia, di accarezzarla e coccolarla. Non ci fu il tempo: doveva andare a casa a preparare la cena per lo zio. Un suo bacio sulla guancia chiuse quel pomeriggio magico.

Tornai a casa senza toccare terra con i piedi: quel bacio continuavo a sentirlo come un pizzicotto. Quella sera mangiai poco, sazio del pomeriggio. Sdraiato sul divano, ascoltavo a occhi chiusi le arie di Mozart e ripassavo attimo per attimo la giornata. Mi capitava la stessa cosa quando giocando a pallone facevo un bel goal: continuavo a rivederlo, sempre più bello, nei minimi particolari, finché non mi addormentavo.

Nei giorni successivi leggevo e pensavo, pensavo e leggevo. Vincenzo aveva percepito la mia inquietudine e ne aveva intuito il motivo, perciò cercava di evitare che io e Lucia ci incrociassimo. Ero stato troppo precipitoso. Furono settimane di sofferenza. Riuscimmo solo a scambiarci qualche biglietto: io comunicavo in versi, lei in prosa.

Alla fine di maggio finalmente arrivò da Bari un’amica, Carmela, con cui Vincenzo aveva un rapporto profondo, molto profondo. Carmela stava perdendo la vista e lui si era offerto di accompagnarla a Genova per alcune visite specialistiche. Viaggiammo in prima classe in uno scompartimento occupato solo da loro. Io mi sistemai nel corridoio per evitare di disturbarli: Vincenzo si dimenava come un diavolo con la sua protesi, Carmela tutta stropicciata mi strizzava l’occhio. Il mio imbarazzo cresceva fino a spingermi a chiudere le tendine. Intanto pensavo a cosa proporre a Lucia per le prossime serate. Io tornai il pomeriggio stesso e la invitai al concerto di Guccini e lei accettò con entusiasmo: erano anni che non andava a un concerto.

Arrivammo al palazzetto dello sport con la mia Fiat 127, per l’occasione lucidata a specchio. La macchina brillava per la cera, io per la brillantina, Lucia per la gioia. Il concerto si aprì con una canzone che aveva attraversato i miei anni di liceo e che mi dava ogni volta i brividi, . Anche Lucia conosceva le parole a memoria, e la cantammo abbracciati fino all’ultima strofa. Sulle note le nostre lingue iniziarono a parlarsi in profondità mettendo in movimento forze sotterranee. Ascoltammo un paio di canzoni e poi quando Guccini iniziò a cantare riprendemmo il discorso da dove era stato interrotto finché ci acquietammo con la .

Dopo il concerto Lucia volle tornare subito a casa. Aveva il timore che lo zio avesse cambiato programmi e fosse tornato a Torino. Era contenta ma spaventata di questa nuova situazione. Durante il rientro mi parlò della nostalgia che aveva per la sua famiglia. Venivamo entrambi da due famiglie numerose. Sei tra fratelli e sorelle lei, cinque io, con quattro fratelli e una sorella: eravamo una intera squadra di calcio. Ci lasciammo a fatica. Salutandomi affettuosamente, mi ringraziò per la bella serata.

Il giorno dopo andai a prendere Vincenzo e Carmela alla stazione e li accompagnai a casa. Dopo un susseguirsi di visite ininterrotte erano tornati con il morale a terra. Le condizioni di Carmela erano davvero critiche e solo un intervento alla retina poteva farle riacquistare la vista. Vincenzo decise di...



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