Pazos | Tagliare il nervo | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 252 Seiten

Reihe: Narrativa

Pazos Tagliare il nervo


1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-5480-158-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 252 Seiten

Reihe: Narrativa

ISBN: 979-12-5480-158-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Un impulso, un nervo indomabile e capriccioso, porta Anna Pazos lontano dalla sua Barcellona, in Grecia, Israele, Turchia e Stati Uniti. La conduce lontano, in mare aperto, a bordo di una barca a vela con un equipaggio improvvisato e un amore sfuggente. La trascina tra esperienze e relazioni che spesso le lasciano l'amaro in bocca - ma, ogni volta, anche il desiderio di andare oltre, di non fermarsi. E infine la spinge a rileggere il passato della propria famiglia e a fare i conti con il peso delle radici. Tagliare il nervo è la storia di una giovane donna alla ricerca del proprio posto nel mondo. È un racconto intriso delle ansie, delle gioie, delle illusioni e delle contraddizioni di una gioventù che volge al termine. Un'autobiografia irrequieta, spregiudicata e tagliente in cui la ricerca di sé e la presa di coscienza politica sono tutt'uno. Anna Pazos si racconta con uno sguardo crudo e onesto, che va al fondo delle cose rifiutando gli alibi e le facili vie d'uscita, e con la consapevolezza provocatoria di chi non ha paura della vita. Così, senza volerlo, nell'unico modo in cui forse lo si può fare, partendo da se stessa arriva a comporre uno stupendo ritratto generazionale.

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1. Come scomparire del tutto


L’ultima volta che ho avuto la febbre è stato nella primavera del 2013. A quei tempi vivevo nel Nord della Grecia, a Salonicco, dove pagavo centodiciassette euro al mese per una camera con un mandala appeso alla parete e un materasso matrimoniale a terra. La febbre era comparsa a tradimento. Da mesi mi nutrivo di fagottini appiccicosi al formaggio, fumavo erba e scivolavo in uno stato che più avanti avrei identificato come depressivo. Per l’intero periodo in cui mi durò la febbre mangiai le banane che mi portava una sorta di fidanzato, un comunista del posto. Al mattino ero fresca, di notte ardevo. Appena la temperatura saliva, il mandala si caricava di un’energia psichedelica e il materasso perdeva ogni significato. I miei sensi erano talmente alienati e talmente acuiti da portarmi a credere che fossi a un passo dalla morte.

Quando ripenso a quei mesi trascorsi in Grecia, mi viene sempre un po’ di vergogna. Mi ricordano che fallii nell’impresa elementare di avere ventidue anni e vivere in un paese straniero mantenuta e senza pensieri. Con il senno di poi, il mio unico obbligo consisteva nel generare memorie di giovanile felicità, utili a darmi forza nel grigiore che sarebbe seguito nel corso della vita. Il fallimento fu così grande che negli anni successivi avrei cercato di ridimensionarlo tornando periodicamente in Grecia, con i più svariati pretesti personali e professionali. In genere quelle visite erano concepite per rispondere a scopi elevati, come filmare un documentario o distruggere una relazione stabile in nome del libertinaggio. Alla fine, però, faceva sempre capolino la minaccia esistenziale del mandala e del materasso. Se ne stava lì a incombere come un’accusa sulle calette di Icaria o sui cicchetti di delle osterie cretesi. Mi ricordava che tutto è sempre a un passo dall’abisso, e che l’unica cosa che possiamo fare è correre in direzione contraria.

Le prime espressioni greche che imparai erano , “voglio stare con te”, , “la pillola del giorno dopo”, e , “ecco il cambio”. Il decimo giorno di febbre il fidanzato comunista mi portò in moto all’Ippokrateio, l’ospedale pubblico più vicino al mio materasso. Forse ero tra i deliri della febbre, eppure lo ricordo pieno di frati ortodossi seguiti dalla loro numerosa progenie, che attraversavano cortili e corridoi tra nugoli di mosche. Mi rivedo in mezzo a una sala strapiena dopo ore di attesa, e nel momento in cui entro per farmi visitare da tre o quattro medici disposti a formare una sorta di coreografia: uno che fumava alla finestra, un altro che mi palpava la gola, un terzo che scherzava sulla possibilità che mi dessi ai film a luci rosse. In Grecia il mio nome dava l’idea di un’attrice porno; in poco tempo avevo cominciato a sorridere con complicità mentre lo pronunciavo. Mi fecero pagare cinque euro per la visita e per scrivere la ricetta di un antibiotico che in farmacia pagai a prezzo intero.

Yiannis Boutaris, allora sindaco di Salonicco, dichiarava spesso che la Grecia era l’ultimo paese sovietico. I primi tempi l’affermazione voleva suonare provocatoria, ma alla fine del mandato era ormai un cliché che lui rifilava annoiato ai giornalisti stranieri. Boutaris era un imprenditore vinicolo entrato in politica alla fine degli anni Sessanta, ed emanava la fresca sensazione di chi è sempre di ritorno. Divorziato, ex alcolista, un geco tatuato sulla mano destra. Parlava di tenere viva la memoria sugli ebrei deportati durante l’occupazione nazista e aveva l’ardire di criticare i sindacati, l’unico vero grande potere della città. Si era presentato nel 2010 senza affiliarsi a un partito e aveva vinto per soli 419 voti. Si diceva che a fargli ottenere la carica fossero stati gli ebrei, i quali non erano più di un migliaio, eppure gradivano che un pubblico rappresentante ne rendesse nota l’esistenza.

Ebbi modo di conoscerlo diversi anni dopo quella febbre, durante una delle capatine in cui cercavo di riconquistare la città con un pretesto professionale. Era una mattina innevata di gennaio e gli rimanevano poche settimane da sindaco. Arrivai all’intervista senza essermi fatta la doccia, con i vestiti del giorno prima, tutta un fascio di nervi e di postumi dell’alcol.

A ventidue anni mi ero fatta l’idea che Boutaris fosse leggendario e inaccessibile. Ora ne avevo quasi trenta e mi ritrovavo seduta davanti a lui in un ufficio zeppo di adesivi con slogan antifascisti, proprio come la cameretta di un adolescente. Sopra una camicia bianca da impiegato indossava le bretelle rosse, divenute ormai il suo marchio estetico. Accanto a lui sedeva la responsabile dell’ufficio stampa, addestrata per intervenire alla prima uscita a vanvera del sindaco. Disilluso, tediato subito dalla conversazione, Boutaris fumava sigarette una dietro l’altra in barba al divieto municipale. Era stato un venerdì pesante, interminabile. Una tempesta di neve aveva fatto collassare la rete dei trasporti pubblici, che si riduceva a un paio di linee di autobus, e il sindaco aveva passato l’intera giornata su Twitter a rispondere agli insulti. Espose la questione della mentalità sovietica proprio all’inizio dell’intervista. E subito, come in un ologramma, mi apparvero i medici dell’Ippokrateio mentre si dimenavano in un balletto russo, fumando e augurandomi un promettente futuro nel mondo del porno, e intanto i frati turbinavano per i corridoi e i pazienti si ammassavano nella sala d’attesa.

Come una guida turistica che si scrolli di dosso l’ultima visita della giornata, il sindaco continuò con una lunga filippica sui 2500 anni di storia della città. Tra i suoi visitatori celebri si potevano elencare l’apostolo Paolo, il leader vietnamita Ho Chi Minh e un falso messia giudeo di nome Sabbatai Zevi, che nel XVII secolo aveva riunito attorno a sé un gruppo di fanatici. La città aveva una storia ricchissima, che avrebbe funzionato alla perfezione come esca turistica, ma aveva deciso di voltargli le spalle proprio come aveva voltato le spalle alla sua amministrazione. In otto anni di mandato i progressi erano stati minimi. Il progetto più importante di Boutaris, costruire un museo per onorare gli ebrei tessalonicesi uccisi, si era dissolto tra dibattiti semantici e ontologici all’interno della giunta comunale.

Non era ingiusto, sosteneva l’opposizione, concentrarsi su un’unica comunità sterminata se anche tante altre avevano penato durante l’occupazione? Oltre ai finanziamenti di Israele e Germania, da dove sarebbero arrivati i soldi necessari a mantenere un museo? E cosa si espone in un museo dedicato a una comunità inesistente?

Le questioni sembravano irrilevanti quella mattina innevata di gennaio in cui Boutaris, già pronto a lasciare, voleva convincersi che il progetto sarebbe andato avanti.

“Alla fine si chiamerà Museo dell’Olocausto e dei Diritti Umani di Salonicco. Il nome crea qualche problema perché gli israeliani non rispettano poi troppo i diritti umani”.

“Sarebbe meglio se non affrontassimo l’argomento,” intervenne con destrezza la responsabile dell’ufficio stampa.

Non sono mai stata una brava intervistatrice. Alla prima reticenza tendo a schivare il disagio e a credere che riuscirò a riempire i vuoti con l’intuizione e con l’ingegno. Ne seguì un silenzio che dava per conclusa la conversazione attorno al suo progetto faro. Mentre andavo via mi chiese per la prima volta dove pensavo di pubblicare l’intervista.

“Che cambia? Tanto non importa a nessuno quello che ci siamo detti,” si rispose da solo, e accese un’altra sigaretta.

*

Quasi cinquecento anni prima del mio arrivo a Salonicco per lo scambio, a Basilea moriva Erasmo da Rotterdam, figlio naturale di un prete cattolico che a quasi trent’anni era andato a Parigi per diventare dottore in Teologia. Appesa al collo teneva una scarsella di monete, un salario per gentile concessione del vescovo di Cambrai. La diaria che gli passava il vescovo era “disperatamente misera” e gli consentì di prendere alloggio in una pensione sordida, ascetica e spoglia, in cui i dormitori erano tutt’uno con le latrine e regnava una ferrea disciplina monacale. Quelle circostanze fecero inorridire lo spirito istruito e il corpo fragile e malaticcio di Erasmo, che nei successivi viaggi in giro per l’Europa si sarebbe assicurato di dormire in locande più raffinate e di entrare in contatto solo con le tre o quattro personalità illuminate di ogni paese. Ciò gli permise di provare un amore cosmopolita per tutte le nazioni, come pure una discreta ignoranza sui letamai e sulle intemperanze di ciascuna di loro. Era forse questa la ragione per cui il suo grande sogno di unità paneuropea si era infranto ancora prima di spiccare il volo, e la sua figura era andata via via sbiadendo nell’insignificanza durante il convulso cambio di secolo in cui gli era toccato in sorte di vivere.

Cinquecento anni dopo, il programma Erasmus di scambio accademico avrebbe vincolato il nome del monaco Erasmo alla sbornia e al dilettantismo internazionale. Le autorità europee avevano dotato la borsa di studio di un sussidio piuttosto esiguo, simile a quello ottenuto da Erasmo quando si era recato a Parigi. A conti fatti, potevano andare in Erasmus solo le persone che ricevevano anche altri aiuti...



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