Paolin | Anatomia di un profeta | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 256 Seiten

Paolin Anatomia di un profeta


1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-6243-449-2
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 256 Seiten

ISBN: 978-88-6243-449-2
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Primi anni '90, in un piccolo paese del Monferrato. Di fronte a una tomba vuota un uomo recita un verso del profeta Geremia come una preghiera. Da quel preciso istante la vita del profeta e la vicenda drammatica del bimbo/Dio che non vuole più vivere si legano. Patrick il bambino, con le figure dolenti e folli dei suoi genitori, Geremia il profeta e le sue parole piene di ira e tenerezza, l'io narrante, sempre in bilico tra il tentativo di raccontare e il non senso del mondo, e Dio, che vive e muore, che odia e vuole redimere, sono le voci che si intrecciano in questo romanzo ibrido e complesso che narra la più semplice e antica delle storie: una storia d'amore e morte.

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2. JAHWÈ


IL DIO DI ABRAMO, ISACCO E GIACOBBE


Io non so molto di Dio, ho detto a Patrick quando è venuto, un giovedì d’estate, a farmi un mucchio di domande su Gesù e la religione. Eravamo in gita, io ero appoggiato al muro di una vecchia pieve romanica. Da lì si vedevano le colline scendere dolcemente verso la piana più in basso. I paesi sembravano in bilico sulle sommità, pronti anche loro a tuffarsi a valle. Io non so molto di Dio, gli ho risposto, poi ho guardato il Versa che scorreva sotto e ho pensato che quello potesse essere un Dio: l’acqua luminosa al sole dell’estate, il rigoglio delle piante lungo le sue sponde, erano Dio anche le bestie che strisciavano nell’erba alta o i pesci, pochi, che nuotavano dentro. Dio, io non sapevo allora chi fosse o se fosse qualcosa, e anche Patrick lo ignorava.

Dio è le colline che vedo intorno, è la vigna che incombe su di noi e ci casca addosso mentre la guardiamo. Le viti sono piene di grappoli, le foglie fanno strani arabeschi e tra qualche mese – a settembre inoltrato, o ancor meglio a ottobre – diventeranno gialle e rosse, striate di verde quasi nero, e lasceranno spazio al nudo tronco come a un Cristo crocifisso. Io non so molto di Dio, gli ho detto, e Patrick è corso dai suoi amici che giocavano poco più giù e ho guardato loro e noi seduti sulla terra, i fili d’erba intorno. I corpi di noi maschi quindicenni che cambiavano, i corpi delle nostre amiche più rotondi e belli, come risorti. I seni che tiravano nelle magliette, i nostri sessi tesi nei pantaloncini, tutto questo ha a che fare con Dio. La selvaggia gaiezza delle urla che provenivano dai gruppi dabbasso impegnati nei giochi più disparati erano come i cori degli angeli e delle dominazioni nei cieli. Io non so molto di Dio, ma so che Dio non è un pensiero astratto.

Questo lo sapevo, quando Patrick venne a chiedermelo pochi mesi prima di morire. A me già allora il Dio dei filosofi non interessava, non era quella la mia esperienza del mondo, che aveva a che fare invece con qualcosa di concreto.

Quel Dio esangue e tutto spirito che ti insegnano in filosofia, quel Dio che serve a far partire il mondo a cui non puoi rinunciare, quel Dio che con un calcio in culo mette in moto l’universo e poi se ne disinteressa, il Dio energia, il Dio luce, il Dio primo mobile, il Dio delle sfere celesti lontanissime, il Dio che è simile al nulla, il Dio che è lo zero matematico, che è l’infinito matematico, il Dio trascendente della meditazione e del silenzio, il Dio che in realtà è il tuo io infinito, il Dio cosmico oppure il Dio che è bene, come se fosse facile definire il bene, definire l’amore, definire la carità o la gioia – ogni declinazione di questo Dio non era la mia. Perché se sono concetti astratti non servono e non si capisce nulla: definiscimi amore, definiscimi gioia, o bene. Come fai?

Io non so se poi Patrick sia andato dal parroco o da qualcun altro a chiedere notizie su Dio; mi sono sempre chiesto che motivo avesse di fare quelle domande, cosa nascondesse la sua curiosità rispetto al paradiso, all’inferno, a Dio e a Cristo. Aveva in qualche modo coscienza della sua decisione, voleva capire cosa sarebbe successo dopo? Non credo che ragionasse in termini di punizione o ricompensa, piuttosto di causa ed effetto.

Cosa succede quando uno si uccide? Cosa succede quando un bambino si uccide?

Quando Patrick ha deciso di uccidersi ha compiuto un gesto prepotente. La sua è stata una rivoluzione copernicana. Ha sbattuto ognuno di noi lontano dal centro dell’universo; ha consegnato la nostra vita – le gioie certe, i successi, i dolori e le perdite – all’insignificanza. Un bambino che muore è una tragedia, ma un bambino che si uccide cos’è? Un abominio, perché quando si parla del male in filosofia o anche teologia, si ha spesso una visione altrettanto astratta; al Dio primo motore si oppone qualcosa di altrettanto definitivo: il male assoluto.

Io il male l’ho veduto, lo scandalo l’ho avuto davanti ai miei occhi concretissimo. Era sangue e carne. Il male non era una falla in un’equazione matematica. Io ho esperito il corpo di Patrick morto, la sua faccia ricoperta di bava, la mucosa del palato sciolta come una vernice pazza, il fegato divorato dal veleno. Il male si rivelò alle persone che lo trovarono e che tentarono di salvarlo; il male è qui nel momento in cui questi ricordi si fanno parole da leggere.

Di fronte allo scandalo della bara bianca con dentro le membra rattrappite del morticino, il colore violaceo intorno agli occhi, le dita strette su una corona del rosario, la bocca non completamente chiusa – bloccata in cosa? Un rantolo, una supplica finale? – uno sente creparsi il cervello dal dolore e uscito dalla camera mortuaria, mentre il cielo si curva sui palazzi e pare spezzarli, vomita nella prima aiuola che trova.

Chi può resistere a questo?

E così viene da dare ragione a Ivan, il personaggio di Dostoevskij67, che restituisce il biglietto, che rinuncia a Dio, perché i bambini soffrono. Mentre vomiti, non appena chiudi gli occhi pensi a quella morte, e quella morte diventa tutte le morti passate e future, il male si fa concreta presenza, non più fantasma o immagine sbiadita, ma sasso di inciampo nell’esistere, e così viene naturale rinnegare ogni tipo di fede, ogni consolazione e speranza.

Eppure mi dico che è troppo facile, è semplice dirsi: fa tutto schifo, è tutto orrendo e senza senso. Io voglio che la vita di Patrick e delle persone che amo e che sono morte abbia un senso; che non venga derubricata a “questo è il mondo”. Io voglio chiedere a Dio ragione di questa morte, perché un motivo, anche se folle e atroce deve esserci. Insomma, io il biglietto lo voglio tenere ben stretto, non voglio che se lo riprenda.

E così mi viene in mente il pezzo di carta trovato nella tunica di Pascal nel giorno della sua morte, era la sua preghiera silenziosa che recitava:

Perché questo biglietto mi convince più di quello di Ivan? Cosa c’è dentro queste poche parole che mi ha sorpreso dalla prima volta che le ho sentite? L’orazione di Ivan è un discorso potente, logico, pieno di buon senso, molto “corretto” e sentimentale: è triste vedere i bambini soffrire, è triste vederli morire. Chi oserebbe affermare il contrario?

Pascal guarda da un’altra parte. Il filosofo, il matematico, l’uomo che ha sondato le profondità del mondo con la logica, alla fine lascia come testamento questa notazione di fede minuta e, se vogliamo, semplice.

In quella elencazione, più che in Ivan e nella sua retorica nichilista, possiamo intravedere l’abisso. Per Pascal Dio è il Dio dei vivi. Non è il Dio degli eserciti, della collera, non è il Dio della vendetta, della giustizia. Non si presenta neppure come l’onnipotente.

Ecco il nodo: è importante che Dio sia onnipotente? Per Ivan Karamazov sì, è necessario che lo sia; per Pascal no, ciò che conta è che Dio si incarni nella storia degli uomini.

Dio nelle sacre scritture è tante cose, conta moltissimi appellativi, ma non è mai definito, né mai si definisce “onnipotente.”68

Dio è il Dio delle colline, il Dio che di colpo compare nelle vigne, che si fa carne con noi. È dall’inizio dei tempi che Jahwè vuole farsi carne; e quindi quel giorno, quando Patrick venne a chiedermi di Dio, avrei dovuto dirgli che Dio era tra le curve della collina, che l’avremmo visto scendere da qualche sentiero, sbucare da un fitto bosco, o dalla vigna. A Jahwè non interessa essere onnipotente, ma essere qui, dove siamo noi. Gli interessa essere vivo. Il Dio di Pascal è un Dio vivo. Un Dio che paradossalmente rinuncia all’onnipotenza per essere vivo, che si spaventa come ognuno di noi quando il male gli si fa incontro.

Io credo e i miei occhi hanno veduto che

In quel tempo Dio era con Patrick, sull’angolo destro

della collina era arrivato anche lui costeggiando il bosco,

aveva visto il ragazzo compiere il suo gesto ultimo.

E lo ha amato, perché è un Dio collina,

è un Dio terra,

e

solo quello che poteva fare.

È questo il Dio vivente di Geremia, quello di cui vorrei provare a parlarvi.

IL DIO VIVENTE


Dio in Geremia, più che negli altri libri profetici, è un personaggio con una sua psicologia, che compie delle azioni e nutre dei sentimenti. Geremia, scrivendo il suo rotolo, vede davanti a sé Jahwè, che gli appare reale e non come un fantasma. Il libro di Geremia è una sorta di “fenomenologia dello spirito” delle sacre scritture.69 Il profeta vede Dio entrare nel suo tempo e viverlo, gettandosi nella sua temperie storica e politica. Dal punto di vista narrativo questa decisione, questo sentimento del tempo, produce una narrazione molto differente rispetto ai canoni profetici a cui siamo abituati.

L’autore non mette sulla pagina semplicemente Jahwè che parla al profeta. Il Dio di Geremia non è solo un Dio che detta, ma è un Dio delle viscere, delle ossa e dei tendini. Jahwè pronuncia o fa pronunciare le parole dell’oracolo, ma è carnalmente presente nel quotidiano svolgersi dei fatti.

Infatti l’aggettivo con cui Jahwè si definisce è “vivente”, perché questa parola indica come egli sia completamente calato nella vita di ognuno. La prima occorrenza è legata alla formula di giuramento per l’alleanza che recita:...



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