Palma | Olanda, 1945 | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 160 Seiten

Reihe: Cronache

Palma Olanda, 1945

Anne Frank e i Neutral Milk Hotel
1. Auflage 2023
ISBN: 979-12-5480-005-8
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Anne Frank e i Neutral Milk Hotel

E-Book, Italienisch, 160 Seiten

Reihe: Cronache

ISBN: 979-12-5480-005-8
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Nel febbraio del 1998 un gruppo poco conosciuto, ma destinato a diventare una band di culto, pubblica il suo secondo disco: In the Aeroplane over the Sea, un concept album ispirato dalla lettura del diario di Anne Frank. I Neutral Milk Hotel non puntano al successo né a essere ricordati, non gli interessa vendere e non hanno alcuna intenzione di vendersi - non sanno come si fa, non lo impareranno mai, neppure quando arriverà il momento del loro grande 'recupero' da parte di fan più giovani. Irruento, ispirato, genialmente rumoroso, il disco racconta la più celebre tra le vittime della Shoah abolendo ogni distanza tra sogno e memoria, visione e quotidiano. Spettro, freak, ragazzo a due teste: l'adolescente di Amsterdam naviga tra le ere e i continenti, penetrando dentro incongrue stanze americane. Ne esce una narrazione sconcertante, trasfigurata, di una tragedia che si ripete sempre diversa. Massimo Palma si immerge in questo 'controcanto da cinquant'anni dopo' e nel disco intenso fino all'insostenibile sente risuonare potenti, e inconsapevoli, echi di Levi, Roth, Kafka e Sebald. Olanda, 1945 mostra come nel più improbabile tra i tempi e i luoghi - a fine anni Novanta, nella periferia americana - il mito, il fantasma di Anne abbia preso una nuova voce e un nuovo suono. 'Perché fantasmi e suoni si somigliano', scrive Palma. 'Non riconoscono le durezze dello spazio, le fratture del tempo. Rifiutano l'epoca, ripropongono incubi e umori - non hanno carne, eppure incidono i corpi'.

Massimo Palma (1978) vive a Roma e insegna Filosofia politica a Napoli. Ha pubblicato i libri Berlino Zoo Station (Cooper, 2012), Nico e le maree (Castelvecchi, 2019), Happy Diaz (Arcana, 2015; Castelvecchi, 2021). Con Movimento e stasi (Industria & Letteratura, 2021) ha vinto il Premio Franco Fortini per la poesia. Ha tradotto e curato opere di Max Weber, Walter Benjamin, Georges Bataille, Georg Heym, Fredric Jameson.
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1. I fantasmi quando passano



Il 12 luglio del 1998 a Parigi si gioca la finale dei Mondiali di calcio. Al fischio finale sui Campi Elisi saltano e cantano milioni di ragazzi e sfila la retorica di un mondo reso migliore dallo sport. Nelle stesse ore, dall’altra parte dell’oceano, ad Athens, Georgia, alcune centinaia di giovani si stanno aggrumando sotto il palco del 40 Watt Club, uno dei locali più ambiti per la musica indipendente in America. Chi passa di lì ha una sorta di salvacondotto per palchi più prestigiosi, come il CBGB nel Lower East Side, a New York.

Athens è la città dove negli Ottanta sono nati ed esplosi gli R.E.M., prima indipendenti poi superstar mondiali, ma da qualche anno è anche teatro di un moto sotterraneo di gruppi indefinibili. Non vengono dal college rock, vengono tutti da una striscia di Stati vicini nel Sud – Colorado, Louisiana, Texas –, senza però riprenderne le tradizioni. Più o meno tutti hanno a che fare col ritorno della psichedelia. Come gli Olivia Tremor Control di Bill Doss e Will Cullen Hart, un esperimento sonico dei più ambigui – strizzano l’occhio ai Sixties, con le voci registrate basse, le chitarre in primo piano. Un contorno di melodie, fiati e cori lisergici. Che poi si perdono per minuti nei rumori, nei fruscii. Niente elettronica: sono avanguardia con gli occhi rivolti al passato.

Sono loro, gli Olivia Tremor Control, a essere attesi al 40 Watt Club. Ma quella sera non si presentano. Hanno scambiato la loro data con alcuni amici. Sul palco, per la sorpresa dei loro fan, salgono prima quattro, poi cinque figure curiose. Poi altre ancora. C’è un tipo che dà sempre le spalle al pubblico. La sala è illuminata da ghirlande di luci e da una palla stroboscopica che le riflette e gira. Dicono di chiamarsi Neutral Milk Hotel: alcuni sanno bene chi sono, altri no. Il cantante saluta e mormora qualcosa al microfono su un pezzo dei New Order. Indossa un camicione azzurro, stringe la chitarra acustica e la percuote, produce una strana distorsione. Il primo brano si chiama : la voce lievemente nasale di Jeff Mangum mormora parole atroci su un corpo che partorisce e suda per respirare. Solo un tipo dai capelli scombinati in maglia biancorossa lo accompagna. Maneggia un , la sega musicale – uno strumento bizzarro che produce un suono continuo e ubriaco. Poi la lascia per una fisarmonica.

Dietro di lui il batterista muove le braccia verso il pubblico come un direttore d’orchestra. È passato solo un minuto ma nessuno sembra trattenersi. Prima ancora che il ritmo cambi, sul palco e sotto stanno tutti saltando. Julian Koster, il tipo con la fisarmonica, gira su se stesso: ora ha un basso che gli pende dal collo ma lo suona con l’archetto. Jeremy Barnes, il batterista in camicia bianca che dirigeva l’orchestra, pesta ogni piatto e ogni rullante. Scott Spillane, l’elfo che sta di spalle e lascia intravedere una barba sterminata, salta. Salta impazzito con la tromba stretta in mano. Comincia , un brano del nuovo album uscito a inizio anno. La sala è travolta da un noise tutto melodico – solo la voce e la tromba di Spillane danno una linea. Il resto è caos: un crepitio di rumore bianco che rende tutto indistinguibile, voce e strumenti. Jeff Mangum fa giri enormi attorno alla sua ombra e quando non canta fa headbanging e si scontra con Koster per poi avvicinarsi ancora al microfono. Canta dell’unica ragazza che ha mai amato.

Un’ora dopo, nel caldo ormai totale del luglio georgiano, l’ultimo brano vede sul palco altre figure. C’è una ragazza che suona un fiato strano, lo chiamano zanzitofono – è Laura Carter. C’è un trombone, è Rick Benjamin. Tutti insieme, mentre Barnes domina la scena scalciando la grancassa, suonano dal nuovo album, e Mangum finisce urlando, canta che il fantasma “non avrà mai paura / di guardare il giornale che si infila in un buco / da cui nessuno può scappare”.

Nessuno ascolta, ballano tutti. Sulle note di , il penultimo brano del nuovo disco, l’ultimo del concerto, saltano ancora in coro, solo Laura Carter con lo zanzitofono continua a tenere i piedi sulla terra. Koster afferra il microfono e produce suoni con la gola. Si mette a pogare con Mangum che oscilla spaventoso. La canzone è senza titolo e lui ruota la testa in aria a occhi chiusi. Saltano tutti, sul palco e anche in platea, come all’inizio, nessuno ascolta i fantasmi in volo.

La camera di un fan inquadra la scritta “Exit”, gialla a sinistra del caos.


Fine settembre 1986. Settimo Torinese, città metropolitana di Torino – zona industriale. Odori forti ovunque e rumori secchi, ritmici, sopra un gorgogliare fisso. Lavorano tutti.

Nei corridoi della Società Industriale Vernici e Affini (SIVA) la direttrice accompagna a passo lento due visitatori con la barba, uno basso uno alto. Quello alto viene guardato con timore, è americano, dice il passaparola. L’altro, l’italiano, viene salutato con affetto. È da tanto che non torna lì dove ha lavorato per trent’anni – lo circondano, come va Primo, come mai non vieni mai, ti sei dimenticato di noi. Lui sorride, stringe mani, approfitta dell’ospite alto e americano per schermirsi. Troppe mani, troppe pacche sulle spalle, il sudore freddo a fine estate, l’odore acre di vernice ovunque – gli piace quest’odore, in realtà ce l’ha avuto per decenni sui vestiti e sulle giacche, gli manca.

“Ti porto a fare un giro”. Il dialogo è in inglese.

Philip Roth lo vede esitare – vede il suo sudore sotto le lenti, sulle tempie. Lo segue tacendo. Si fermano di fronte a un’apparecchiatura di drenaggio, con una pozza sotto che scola liquidi scuri. L’italiano parla con fervore e spiega.

“Guarda questi macchinari: servono a detergere il prodotto dagli agenti inquinanti. Resta solo la parte pulita, il resto sono scorie pompate via. Quella melma tutta nera, quello è il residuo”.

Restano fermi a guardare i flussi separati, il colore e la melma – Primo Levi aggrotta la fronte e sospira. Arrivano altri operai, altre braccia larghe da lontano. Fa per andare. Roth lo affianca.

“Sono morti in tanti,” aggiunge. Roth si gira a guardarlo. “Da quando sono in pensione, ogni volta che torno vedo vecchie facce e vecchi fantasmi”. Fa una pausa. “Tanto quelli li vedo ovunque”. Ride. Ancora un’esitazione strana. Un vecchio collega lo affianca, porta una cravatta gialla, fa in tempo a fermarlo, lo saluta. Dott. Levi buongiorno bentornato quanto tempo.

“Ecco un altro fantasma,” mormora a Roth. Vorrebbe sorridere. Volevo solo dare di me un ritratto preciso prima di.

Tre ore dopo, nel pomeriggio, in corso Re Umberto 75 a Torino Roth sta toccando con timore una figura metallica che Levi gli ha porto, una forma fragile e precisa. “Sono gli animali fantastici che mi invento col filo di rame,” spiega Levi. “Sono fatti coi resti di materiali che raccoglievo in fabbrica, pensa che anche oggi ne ho chiesti un po’. Me li spediscono, mi hanno detto”. Ora sorride. “E questo è un gufo, adoro i gufi”. Roth guarda l’animale che ha in mano. “Si direbbe un ebreo che suona il suo naso”.

In quella casa dove Levi ha sempre abitato – “con involontarie interruzioni”, dirà un giorno con ironia – ora una mano femminile scatta alcune foto dell’omino bianco con barba bianca davanti a una libreria. L’omino tiene in mano un librone con una copertina dozzinale, un titolo a caratteri cubitali. Nella foto l’autore appare accanto a lui, sorride da più in alto, stesso pizzetto meno imbiancato, spalanca gli arti dietro grandi occhiali a montatura spessa. In diagonale, nello scatto, l’indice di Primo Levi punta le lettere di , sembra frugare nel titolo enorme stampato in obliquo.

Philip Roth ha l’aria di spiegare. “Si tratta di una quadrilogia delle avventure di Zuckerman” – “Lo so” – “Il primo libro ti piacerà, è , mette in scena lo spettro di Anne Frank. Un , o qualcosa del genere, ”.

La mano serrata, il pollice aperto – hai in mano, ti confesso, la storia di un fantasma.

“Quando ho avuto i fantasmi in casa, nella testa, per resistere all’angoscia li ho duplicati, li ho messi pure su carta. Dove ho creduto di controllarli meglio. Un po’ come fa Kafka, no? Che non ha fretta di pulire la scrittura, ma la contamina, la inquina. In fondo scrivere è un commercio coi fantasmi”. E ride, ride serio.

Pure Levi sorride e poi guarda verso l’alto, più su delle lenti di Roth. Cerca la fuga nel soffitto che ora appare vicino. Torna giù a incrociare gli occhi dell’altro. “Davvero, come si dice, c’è casa dove crescono i fantasmi,” aggiunge mentre un’altra smorfia gli appare sulla faccia e Roth ricambia uno sguardo che è diventato vuoto.

Allora Levi fa un suono strano con il naso, quasi un sibilo, come a dire che musica fanno i fantasmi quando passano.


C’è una storia di un fantasma scritta in musica. È la storia di un disco uscito all’inizio del 1998,



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