Pace Ottieri | Quando sei nato non puoi piú nasconderti | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 171 Seiten

Reihe: Cronache

Pace Ottieri Quando sei nato non puoi piú nasconderti


1. Auflage 2010
ISBN: 978-88-7452-256-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 171 Seiten

Reihe: Cronache

ISBN: 978-88-7452-256-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Collaboratrice di varie testate giornalistiche, tra cui 'l'Unità' e 'Diario della settimana', Maria Pace Ottieri offre in questo volume una cronaca della vita del popolo sommerso, che ci porta a conoscere un mondo di cui vediamo solo la crosta emersa e sul quale, nel quale, camminiamo ignari: il mondo dei clandestini che entrano da Gorizia, scavalcando la rete che taglia la città, o sbarcano sulle spiagge del sud per risalire la nostra penisola.

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1. Falchi e colombe


“Lei crede davvero che arrivino qui con lo ‘scafista’?” Il comandante del porto di Lampedusa, Michele Niosi, punta i suoi occhi lucidi e neri nei miei, al di là della scrivania. “Li vada a vedere i relitti e capirà che nessuno ha interesse a riportarseli indietro, sono rottami, vuoti a perdere. Il cosiddetto ‘scafista’ è colui che ha interesse a tornare indietro per un altro viaggio”.

“Mi sta forse dicendo che non esistono il traffico di esseri umani, le mafie, le organizzazioni criminali?”

È stato un lampo, ma per un momento si è accesa in me la speranza del cronista di scoprire che, là dove avvengono, i fatti si rivelino diversi, tutt’altri da quello che si crede.

“Sto dicendo che qui arrivano gruppi di persone da sole, hanno capito molto bene che noi abbiamo il dovere di soccorrerli e si fanno segnalare dai pescherecci perché molti di loro non toccherebbero terra senza il nostro aiuto. Ieri, 2 ottobre, ci sono stati quattro sbarchi, in tutto ottanta persone e tutte recuperate da noi, tranne un gommone che è venuto ad ormeggiarsi proprio sotto la vedetta della Finanza”.

“E l’ipotesi che siano barche seminate da navi che restano nelle acque internazionali?”

“Lei crede che non sappiamo da dove partono?”

Suona il telefono e, mentre il comandante risponde, cerco di capire dove vuole andare a parare. È tipico dei militari non svelarsi, accennare un pensiero lasciando che sia l’interlocutore a srotolarlo fino alle sue conclusioni, azzardare e ritrattare o rispondere con nuove domande. Il comandante ascolta ora il suo interlocutore all’altro capo del filo, emettendo suoni regolari di gola, poi chiede: “A quante miglia?”

“Ci segnalano una barca di clandestini a 30 miglia da qui. I miei uomini salpano subito, salga a bordo anche lei, è venuta per questo no?”

Ci siamo, era l’occasione che aspettavo, ma ho un appuntamento fra pochi minuti con il colonnello Giuseppe Conti e con il maggiore Melchiorre Di Gregoli della Guardia di Finanza di Agrigento. Sono venuti apposta in aereo, da Agrigento e da Catania, per incontrarmi e domani mattina ripartiranno. Nessuno ti prende sul serio come i militari, è un’altra delle loro caratteristiche, per consapevolezza dell’isolamento, ansia un po’ ingenua di fare buona impressione e smentire i pregiudizi, sopravvalutazione della stampa, orgoglio dell’arma.

“Come crede,” mi dice il Comandante, “sa dove trovarmi, sono sempre qui, anche la notte, ma non dica niente giú della segnalazione”.

vuol dire negli uffici della Guardia di Finanza: tra l’arma della Capitaneria di Porto e quella della Guardia di Finanza corre una tacita rivalità. I primi sono le colombe, fieri di distinguersi da un normale corpo di polizia per il fatto di essere prima di ogni altra cosa votati a soccorrere le vite umane che il mare mette in pericolo, i secondi, i falchi, il cui compito è quello del contrasto all’immigrazione – si chiama proprio cosí, sebbene nemmeno loro possano esimersi dal salvare chi sta rischiando la vita.

Mi attengo agli ordini del comandante e non dico niente, ma dopo il primo scambio di saluti, arriva anche nell’ufficio della Finanza la segnalazione del peschereccio e in pochi minuti sono catapultata a bordo di una motovedetta, una delle otto preposte al pattugliamento del Canale di Sicilia. Il dovrebbe essere una piccola imbarcazione e trovarsi al largo di Linosa, l’isola nera di origine vulcanica a trenta miglia da Lampedusa. Bisogna far presto, il mare è lievemente mosso, e in serata potrebbe aumentare, ma la macchiolina bianca che fra le tante potrebbe essere quella dei clandestini, appare e scompare sul radar.

Un elicottero, alzatosi in volo dalla Lavinia, la nave della Marina Militare che pattuglia le acque internazionali, ci sta sorvolando come un uccello amico che ci indichi la direzione. Lo seguiamo fiduciosi per scoprire che ci ha confuso la rotta, sembra stia inseguendo un altro bersaglio, avvistato nel frattempo e ancora piú lontano del primo. Torniamo indietro, nell’ultima luce del giorno, grigioargentea, in tempo per vedere i cinque naufraghi rannicchiati a poppa dell’imbarcazione della Guardia Costiera, arrivata prima di noi, le braccia strette sulle ginocchia come fossero seduti intorno al fuoco di un bivacco e un piccolo gommone verde, a traino, un gommone quasi nuovo, con il volante, destinato a navigazioni piú amene e meno avventurose.

“Piano!” ci urlano dalla barca, infastiditi dal nostro arrivo ingombrante e ormai inutile, e dai fari puntati addosso.

“E anche oggi abbiamo fatto fuori 1000 euro di carburante” butta lí, sghembo, un finanziere. “Abbiamo faticato a trovarlo”.

“Ma non siete in contatto costante con la Capitaneria?” chiedo io.

“La radio non funziona sempre e tante volte, per spirito di corpo, loro si tengono le informazioni”.

Il Maggiore Di Gregoli è stato per tutto il viaggio sulla plancia con me (non fidandosi delle mie rassicurazioni, temeva che in coperta avrei sofferto di mal di mare) a raccontarmi con passione, in piedi e controvento, il suo lavoro. Magrissimo, diafano, deve avere avuto un freddo cane, nel suo abito grigio estivo da funzionario, sulla camicia bianca. Non sembra aver niente a che fare con il mare e nemmeno con le gerarchie militari. Con quel suo viso antico e malinconico, potrebbe essere un bravissimo professore di filosofia o di latino o un medico di una volta devoto alla sua missione.

“Come vede, dottoressa, il nostro compito si tramuta in un completamento del loro viaggio, ma come si fa a farli morire a mare? E anche se facessimo da scudo, loro si sposterebbero. Si rende conto con quanta disinvoltura si dice ‘respingiamoli’? È una guerra pacifica che il Terzo Mondo sta conducendo contro il mondo sviluppato, l’ingresso clandestino resta un non reato e per loro, dopo la morte, non c’è danno peggiore che quello di rimandarli in patria”.

Sono quasi delusa da tutta questa umanità, cosí potrebbe parlare un volontario della Caritas. O mi trovo di fronte al modello esemplare dell’inerzia italiana, a quel modo accomodante di predicare male e finire col razzolare bene perché il bene richiede tutto sommato meno impegno? Resta il fatto che mi piaceva credere all’ipotesi semplificante dei buoni e dei cattivi, il nobile e alto codice del mare contro quello vessatorio e mediocre della polizia, ma le cose sono piú complicate e solo da qui, da questa isola dell’isola, questo pezzo d’Italia che sembra anch’esso una barca alla deriva, il fenomeno degli sbarchi lo si percepisce come qualcosa che appartiene alla storia assai piú che alla cronaca.

“Si fa presto a dire ‘scafisti’” continua il maggiore, riprendendo il parere di Niosi e utilizzando ‘scafisti’ come un termine gergale per indicare tutti coloro che trasportano clandestini via mare.

Una notte, racconta, fu svegliato nella sua casa di Catania da un pescatore che, in preda all’ansia, gli annunciava l’avvicinarsi di una grande nave con la prora puntata verso terra. Il maggiore inviò immediatamente una motovedetta, ma la nave non volle fermarsi nemmeno di fronte all’alt, avanzava imperturbabile in accostata secante verso la costa. Il solo modo per fermarla era l’abbordaggio, una manovra coattiva molto pericolosa che Di Gregoli si sentí in dovere di autorizzare. Due finanzieri salirono sul ponte sfruttando il moto ondoso e gli appigli sulla fiancata della nave e si fecero indicare da alcuni passeggeri il comandante, confuso tra i seicentottantasette clandestini in viaggio da settimane dallo Sri Lanka.

“Si chiamava Bandula, ed era un povero cristo come gli altri, gli avevano promesso diecimila dollari a Suez che non ha mai visto. Voleva scendere ma i passeggeri hanno minacciato di ucciderlo se non li avesse portati a destinazione”.

Anche la nave Monica, arrivata a Catania alle 16 del 18 marzo 2002, non voleva fermarsi di fronte all’alt. Su indicazione di una fregata francese, il cargo era stato segnalato dalla Marina Militare Italiana, nel Mediterraneo orientale, in acque internazionali. Batteva bandiera di Tonga e il comandante aveva detto di dirigersi verso Tunisi. A dieci miglia a sud di Capo Passero, ormai in acque italiane, l’aveva allora intercettata la Guardia di Finanza ricevendo l’ordine di fermarla, secondo le nuove disposizioni. Ma come? Prenderla a cannonate come fa la Grecia, da noi non si può. La nave veniva avanti, a bordo alcuni passeggeri esposero dei bambini fuori dalla murata, minacciando di gettarli in mare se si fosse tentato l’abbordaggio. La motovedetta si avvicinò, il comandante urlò: “Siamo una nave italiana” e sul ponte della nave dei profughi scoppiò un applauso scrosciante. Poi chiese agli stessi passeggeri di bloccare l’equipaggio, i motori si fermarono e la nave, alla deriva, fu rimorchiata a Catania. A bordo c’erano novecentoventotto profughi kurdi iracheni: cinquecentosessantasette adulti (la metà dei quali donne, di cui tre incinta) e trecentosessantuno bambini.

Durante il trasporto una donna ha partorito e un elicottero è sceso come un’aquila a ghermire lei e la neonata per portarle in salvo. Il comandante e i marinai si sono confusi tra i passeggeri, tutti saliti sulla nave, secondo le loro testimonianze, da tante piccole barche confluite intorno all’isola di Rodi.

Dissero di essere partiti dal porto turco di Mersin, ma la polizia di Ankara negò, sostenendo che la nave era partita la notte dell’11 marzo da un porto libanese. Solo giorni dopo, nel campo di Bari Palese, dove tutti i passeggeri della ‘Monica’ erano stati raccolti, furono scoperti i sei componenti dell’equipaggio del...



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