Pace Ottieri / Gaiser | Promettimi di non morire | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 205 Seiten

Reihe: Narrativa

Pace Ottieri / Gaiser Promettimi di non morire


1. Auflage 2013
ISBN: 978-88-7452-473-0
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 205 Seiten

Reihe: Narrativa

ISBN: 978-88-7452-473-0
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Dopo la morte della madre Silvana, Maria Pace Ottieri trova un pacco di lettere scritte in un italiano un po' sgrammaticato e firmate 'Carol'. Questa scoperta segna l'inizio di un viaggio appassionato attraverso il tempo, l'Atlantico e quarant'anni di amicizia tra le due corrispondenti, che si erano conosciute a Roma nei primi anni '60, quando Carol, giovane poetessa, era una brillante borsista Fulbright piena di umorismo e curiosità, catapultata al centro di una vivace stagione intellettuale: conosce Pasolini, La Capria, Elsa Morante, Moravia e Silvana Mauri, con cui nasce una complicità immediata e profonda. Per tutta la vita, Carol le indirizzerà lunghe lettere che involontariamente compongono una biografia epistolare e si rivelano il romanzo che non ha mai scritto: un romanzo pieno di passione, che partendo dal fulgore della stagione romana, attraversa il mondo esaltante del Greenwich Village e percorre poi parabole dolorose, perdite e amori inquieti. Una straordinaria storia americana: Se è vero che apprendi piú da un failure che da un successo, io a questo punto dovrei essere omnisciente.

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Greenwich Village, NY


Le sembrò di sentire un leggero fruscio, un gatto entrato di soppiatto dalla porta. La lasciavano socchiusa, Carol e la madre, per catturare un refolo d’aria che smuovesse la morsa soffocante di quell’agosto torrido.

Carol si alzò dalla sedia, rinfrescata da quell’improvvisa bava di vento, lasciando una frase a metà sul foglio nella macchina da scrivere.

Il caschetto di capelli neri e lucidissimi di Christopher faceva capolino da dietro una poltrona e i suoi occhi color terra guardavano da sotto in su l’alta figura della vicina. Madre e figlia sentivano cinguettare la voce da uccellino di Christopher di fronte alla porta al ritorno dall’asilo e si precipitavano entrambe ad aprire. Con voce da innamorata, Carol chiedeva: “Christopher sei tu?” Lo avrebbe abbracciato ma si tratteneva e lui correva dalla madre in poltrona a domandarle: “Come stai? Io bene,” poi subito cominciava a esplorare la casa toccando tutto, “i terribili due”, si diceva in America.

Aveva uno spiccato senso dell’umorismo, quel bambino, ed era pieno di inventiva. “Tu sei lo scudo magico e mi devi difendere dal Mostro spaventoso,” sussurrò avvicinandosi a Carol. Col dito sulle labbra Christopher segnalò l’inizio del gioco e corse a nascondersi dietro la lunga gonna di Carol che, con tono solenne, disse: “Dov’è finito Christopher? Non lo vedo piú!” “Se n’è andato via, com’è possibile che io senta l’odore del suo chewing-gum?” replicò pronto il Mostro spaventoso, seduto su una poltrona di fronte alla finestra con la schiena rivolta a loro. Christopher tremava di eccitazione, poi, di colpo, quando meno se lo aspettavano, la vecchia madre di Carol si alzò e brandendo il bastone avanzò verso di loro gridando: “Buuu,” e Christopher si mise a saltare su e giú e a ridere cosí forte da contagiare le due donne. Viveva sullo stesso pianerottolo, nell’appartamento accanto, e da quando trovava la porta socchiusa aveva preso l’abitudine di entrare. Di lí a pochi giorni sarebbe partito per Trinidad con i genitori che, per la prima volta, lo portavano a conoscere i nonni e il loro paese. Carol aveva preparato per il suo viaggio una T-shirt ricamata con palloncini blu e arancioni, in fondo c’erano le sue iniziali. “Guarda,” gliele indicò, “è il nome dell’artista, sono io!” “E io?” chiese subito il bambino. Allora Carol prese forbici, ago e filo dalla scatola di biscotti in cui li teneva, cercò un pezzo di stoffa bianca nel cesto degli scampoli, ritagliò le lettere del suo nome e le attaccò sulla tasca davanti. Christopher la guardava con gli occhi sgranati e a un tratto le saltò in braccio sciogliendosi in un sorriso come un sole liquido e splendente.

L’amicizia con il bambino di tre anni delle East Indias era una delle gioie inaspettate del ritorno di Carol nell’appartamento della madre al Queens. Era stato un violento strappo lasciare il monolocale di Sullivan Street al Village, ma da figlia unica non si sarebbe mai perdonata di starle lontana nei suoi ultimi anni. Da tempo, molto tempo, si preparava al vuoto della sua morte, perché il momento vero e proprio non riusciva a immaginarselo, e andare a vivere con lei era un po’ come trattenerla sulla terra il piú a lungo possibile. Non era pronta a perdere il suo unico punto di riferimento. I suoi parenti erano tutti antipatici e pieni di pregiudizi, gente semplice e incolta senza il minimo interesse per l’arte, la poesia, la letteratura.

Tornò alla macchina da scrivere, finí la pagina poi rilesse:

Azzurro mediterraneo era il colore che vedevo dalla terrazza della villa di Silvana, consumando una tardiva colazione, mentre la cameriera mi girava sollecita attorno, offrendomi marmellate e latte caldo. Ero sempre l’ultima a svegliarsi. Lasciando i figli alla bambinaia, Silvana scendeva la mattina presto al mare per tornare su all’ora di pranzo. Era un omaggio alla nostra amicizia il fatto che non si lamentasse mai del mio lento risveglio, e che mi lasciasse libera di adeguarmi ai suoi programmi solo quando fossi stata abbastanza sveglia per decidere.

La particolare sfumatura di blu che vedevo dalla terrazza, un blu zaffiro brillante con pozze di bagliori verdi, finí col rappresentare per me l’estate passata, trent’anni fa, a San Felice, un villaggio di pescatori sulla riviera ligure. Ero ospite di un’amica italiana e di suo marito, Giorgio Mantegna. Dal primo istante in cui ne percepii lo scintillio all’orizzonte, riconobbi quell’azzurro come l’esatto colore dell’incantamento. La barca a motore che mi portò dalla terraferma a San Felice tagliava le onde a una tale stupefacente velocità, che mi sembrava di librarmi in volo sospesa in un attimo di pura gioia.

“Ecco come si devono sentire i ballerini,” ricordo di aver pensato, “quando si accordano alla musica”.

In piedi, a prua, mi levai il foulard dai capelli decisa a non preoccuparmi della pettinatura. Due ore e tremila lire buttate dal parrucchiere, ma che piacere mi diede quella nuova sensazione di avventatezza. Il vento frustava i miei lunghi capelli all’indietro come se srotolasse uno stendardo, e mentre stavo sul traghetto in piedi, assaporavo la certezza che la mia visita a Silvana sarebbe stata un’avventura impareggiabile. Sapevo che mi avrebbe accolto con tale generoso e autentico entusiasmo che mi sarei sentita come sempre mi faceva sentire quando ero accanto a lei. Stupefatta e prescelta come mai mi era capitato prima.

Carol, quell’anno, il 1960, era l’invidia di tutti gli studenti Fulbright di Roma. Ma essere invidiata la metteva talmente a disagio che prese a evitarli del tutto. L’ultima volta che li aveva visti risaliva al mese di novembre, quando si erano incontrati all’Ambasciata Americana per ascoltare i risultati del primo turno delle elezioni presidenziali e tifare per il loro candidato, Jack Kennedy. Era sempre stata nel posto sbagliato nell’età sbagliata, ma questa volta, studentessa di Cinema a Roma nell’anno in cui veniva eletto il primo presidente giovane e affascinante del suo paese, si era sentita nel posto giusto al momento giusto.

Mentre gli altri Fulbright passavano il tempo di fronte all’American Bar vicino a via Veneto, lamentandosi dei termosifoni troppo bassi nelle case in affitto o della scarsità di cubetti di ghiaccio nei loro drink, lei ebbe la straordinaria fortuna di essere notata da Alberto Moravia.

Quando Moravia la baciò per la prima volta, Carol gli disse: “Non mi piace il tuo stile”. “Vuoi dire lo stile dei miei baci o dei miei libri?” “Entrambi”. Ma questo fu piú tardi.

Le sue dita lunghe e magre come zampe di ragno picchiavano sui tasti di una vecchia macchina da scrivere che occupava gran parte della scrivania. La prima lettrice di quelle pagine doveva essere proprio lei, Silvana. Quando pensava all’amica, si incantava come se ascoltasse le voci di quell’estate cosí lontana, il fruscio del mare nella conchiglia. Erano passati piú di trent’anni, ma i colori, le voci e i suoni erano rimasti vivi.

Avrebbe tenuto a riposo quelle pagine fino all’indomani per rileggerle ancora una volta e, dopo averne fatta una copia, gliele avrebbe spedite per posta. Si alzò e si mise a scrivere in poltrona una lettera all’amica italiana.

Le lettere preferiva scriverle a mano, le venivano di getto, e quei tasti duri e poco amichevoli avrebbero frenato il fluido scorrere delle parole, che le procurava il piacere di scrivere. Il computer apparteneva a un’era di cui non aveva osato varcare la soglia, non ne sentiva il bisogno ed era troppo povera per concederselo.

Carol aveva conosciuto Alberto Moravia alla Libreria Einaudi di via Veneto, un mese dopo il suo arrivo a Roma. Accompagnata da un critico letterario, un tipo tondo e lascivo, cercava una traduzione in inglese di Ungaretti.

L’occhio da faina dello scrittore si posò su di lei già dalla porta d’ingresso e avvicinandosi, a bruciapelo, le disse: “Sono Alberto Moravia, chi è lei?”

“Sono Carolyn Gaiser”.

“Lei mi conosce?”

“Sí, ma non ho mai letto un suo libro, sono ancora sotto l’incantesimo di Salinger”.

“Li leggerà”.

Dopo molte discussioni si ritrovarono a cena al ristorante Il Bolognese, a piazza del Popolo, il critico lascivo, Carol e Moravia. Si era fermato a una cabina telefonica per chiamare la sua ex moglie, Elsa Morante, che arrivò un’ora dopo, assente e silenziosa per tutta la cena. Sembrava drogata, non seguiva la conversazione, tutta assorta nei suoi pensieri che non dovevano essere allegri, quella sera.

Dopo cena, Paolo Milano, il critico, ed Elsa Morante se ne andarono, mentre Carol si fermò con Moravia da Canova a prendere un espresso con una fetta di limone. Rimasti soli, lo scrittore le sparò addosso una raffica di domande sulla sua vita sessuale. “Davvero non ha proprio nessuno?” le chiese deluso dalla sua morigeratezza, poi pagò i caffè, si alzò all’improvviso e, voltandosi verso di lei, disse: “Venga da me domani alle due se vuole leggere i miei libri, ho alcune traduzioni in inglese”. Scrisse l’indirizzo su un pezzetto di carta e se ne andò.

Alle due del pomeriggio successivo, Carol era di fronte alla porta in mogano dell’appartamento di...



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