E-Book, Italienisch, 184 Seiten
Reihe: Cronache
Pace Ottieri Chiusi dentro
1. Auflage 2020
ISBN: 978-88-7452-876-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 184 Seiten
Reihe: Cronache
ISBN: 978-88-7452-876-9
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Racconto privato e insieme cronaca narrativa, Chiusi dentro è un viaggio nel microcosmo di una provincia 'cagionevole', sempre sul punto di estinguersi, ma tenacemente legata ai propri difetti e al ricorrere di tempo e memoria. Ci racconta una Toscana appartata e un po' bastarda, terra di famiglia conquistata negli anni, dove si incontrano rumeni che ripopolano le strade assumendosi il futuro di un passato a rischio, dove ha regnato Porsenna e ancora si gioca alla caccia al tesoro con il suo mausoleo, e dove cinema ormai vuoti si trasformano in pionieristici locali di spogliarello. Chiusi è allora una provincia che con 'l'audacia dei timidi si lancia nell'impudicizia senza accorgersene, inconsapevolmente convinta che le tentazioni contengano in sé il ravvedimento'. Con un sorriso misterioso sulle labbra, un sorriso etrusco, l'autrice ci guida tra gli specchi di una storia comune, in un'Italia fatta di paesi nonostante tutto ancora vivi.
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Chiusi dentro
Il corso precipita a valle come un torrente grigio, smanioso di gettarsi nel mare, sbatte e rimbalza su un frammento di paesaggio intatto, un’immagine ferma e bellissima: lunghe quinte di colline a perdita d’occhio, le macchie scure dei boschi, quelle verde tenero delle viti e color ocra del grano, un sottile velo azzurro pallido chiude l’orizzonte. Da un’altura Chiusi guarda la Val di Chiana, una regione di origine alluvionale che si stende da qui fino ad Arezzo, affogata dall’Alto Medioevo nella mal’aria delle paludi, l’etrusca Clevsin, soprannominata dagli stessi Etruschi Camars, “tra due paludi”.
Durante la bonifica, voluta dal granduca Pietro Leopoldo alla fine del Settecento, Chiusi divenne lo spartiacque tra una Chiana tributaria del Tevere e una tributaria dell’Arno, un double bind che solo molto piú tardi la psicoanalisi doveva bollare come una minaccia per la saldezza dell’identità. L’ultimo paese della provincia di Siena, al confine con l’Umbria e a pochi passi dal Lazio, una Toscana appartata, ruvida, riottosa e un po’ bastarda, Chiusi è sempre stato un paese cagionevole, piú volte sul punto di estinguersi nel corso della sua storia e ripopolato da esuli, perseguitati, debitori cacciati dalle loro terre di origine.
William Brockedon, un viaggiatore inglese della metà dell’Ottocento, la definí la città dei sepolcri. Tombe, cunicoli, catacombe, cisterne, le sue bellezze sono tutte sottoterra, “interiori” si direbbe se si trattasse di una donna poco avvenente, le uniche catacombe paleocristiane della Toscana sono qui. Perfino il Mausoleo di Porsenna, il grande re etrusco che fece di Chiusi una delle città piú importanti dell’Etruria, mai ritrovato, ma vagheggiato per secoli, doveva nascondersi nelle sue viscere. Da quei fasti, lontani duemilacinquecento anni, il paese non si è piú ripreso.
Etrusco si è chiamato il primo mall della zona, a Porsenna, che aveva saputo innalzare la città a importantissima lucumonia, ha dedicato il corso principale, quello che scorre in discesa e sul quale si affaccia il corpo della casa avita, un palazzo dalle severe pareti di mattoni, con la torre duecentesca di pietra grigia, che si fregia di rossi merli posticci, aggiunti nel Novecento da un ingegnere ambizioso e poco filologico: il mio bisnonno. L’edificio piega in un vicolo largo e ancora in uno piú stretto, intorno a un cortile rettangolare circondato da tenaci rampicanti. Qui, un piccolo cancello nero, nascosto dall’edera intrecciata ai lunghi tentacoli della rosa banxia, dà accesso a una porta e a una rampa di scale a cui ci si aggrappa per salire come a una fune invisibile intrecciata di odore di mosto che emerge dai fondi, di cera, fumo freddo, legna.
Al piano terra la casa si compone di un dedalo di cantine, e all’ultimo piano di altrettante soffitte, una dentro l’altra, su piani sfalsati. Ma è un labirinto, dicono immancabilmente i chiusini che ci entrano per la prima volta. Grandi stanze dai soffitti affrescati eppure modeste, ritrose e complessate come signorine di campagna nei confronti di disinvolte coetanee cittadine.
Se le cantine sono le province meridionali – turbolente, esposte alle incursioni del vicinato che, attirato fatalmente dagli spazi, chiede di potervi stipare la legna, i vecchi mobili e i motorini –, i solai, all’estremo nord, sono invece le province settentrionali, solitarie, altere, silenziose.
In mezzo, due piani suddivisi in varie unità, il grande appartamento di famiglia e altri, fittati, come si dice qui, a inquilini locali.
Questa non è per me una casa dell’infanzia. Ci venivo solo nel mese di settembre, con mio fratello, in vacanza dai nonni che abitavano a Roma, mentre noi stavamo a Milano.
I due ricordi piú vividi sono duri come pugni. Il primo è intorno ai dieci anni, una visita a uno dei poderi della famiglia, dove bambini della mia età magri come stecchi e a piedi nudi nel fango mi guardavano con occhi fissi e remoti. L’altro, una furibonda scenata del nonno. Con un gesto troppo energico avevo staccato dal muro la catenella che vi teneva fissata una porta perché non sbattesse col vento.
Era un uomo collerico, bello, elegante e di un pallore cereo che restava inalterato anche nei suoi violenti attacchi d’ira. Gli volevo molto bene, la sera a letto mi tormentava il rimorso di avere per impulsività levato il coperchio al geyser che gli ribolliva nel petto. L’ira era la sua passione timida, il suo soprassalto d’orgoglio, l’altra faccia della sua disperata malinconia.
Duro, capace di insultare e offendere, negli ultimi anni si commuoveva spesso, il dolore traboccava dai suoi occhi chiarissimi come acqua da un bicchiere colmo.
Il filo del mio tempo chiusino si dipana dalla sua morte. Le terre, i poderi non c’erano piú, ma nessuno era pronto a vendere l’antico palazzo né aveva tempo e voglia di occuparsene. Io abitavo a Roma, ero la piú vicina, si diceva avessi preso da lui l’inclinazione al furore e alla nostalgia, è venuto naturale che fossi io l’interlocutrice di Assuero, il fattore, fedelissimo compagno di mio nonno per tutta la vita. Quando non c’è stato piú neanche lui, l’andirivieni si è intensificato e Chiusi è diventata per me un’origine conquistata tardi, “postuma”, per doveristica ed ereditaria fedeltà al passato e per il gusto della sfida, tener vivi un luogo e una memoria inesorabilmente votati al declino.
Negli anni è nato tra noi, tra me e la casa, un amore disinteressato che lei stessa si preoccupa di tener vivo.
I pretesti per attirare la mia attenzione si sprecano, acciacchi, logoramenti e malattie sono l’inesauribile risorsa dei vecchi, e non c’è volta che non scopra una finestra marcia che per miracolo non mi è crollata addosso, un muro fradicio di umidità, un tubo che perde sul punto di scoppiare. Ma altrettante sono le sorprese disseminate come abili trappole sul mio percorso: apro l’anta di un armadio e ci trovo un paio di mostrine di un’uniforme militare carnevalesca, una scatola brulicante di rotolini di carta fermati da un sottilissimo nastrino per una pesca di beneficenza, stendardi da appendere alle finestre durante le processioni, un diploma di zelatrice dell’Apostolato della Preghiera di un’ignota prozia, un paio di scarpe da campagna accanto al pezzo di sugna ancora vivo con cui il proprietario le ingrassava, un minuscolo corpetto di pelliccia di coniglio, provette e termometri per la misurazione del grado di acidità del vino, preziosi cocci etruschi trovati sottoterra nei campi, una federa su cui è ricamata la scritta “Siate felici”, con un biglietto accluso che ne rivela l’autore: Pietro, il trisavolo.
La casa racconta, proprio come una vecchia signora, e io cammino “l’indietro”, chi ha detto che si deve sempre procedere in avanti?
Quando Giacobbe esce da Be’er Sheva per sfuggire all’ira del fratello Esaú, sa che – per inventare un nuovo tragitto – bisogna ripercorrere ogni trama, sciogliere ogni nodo, che per risalire alle origini dovrà disfare quell’ira. Io mi limito a quella di mio nonno Alberto. L’ho conosciuto solo negli anni della discesa amara, non immagino i suoi momenti di piacere, di allegria, i rapporti con il paese, vorrei riempire gli spazi vuoti, eseguire un invisibile psicorammendo, ritrovare frantumi di passato, ricostruire lampi di vita come un archeologo fa con gli oggetti che affiorano dai solchi rivoltati nei campi.
E insieme tessere la memoria del futuro: fare delle stanze un vasto deposito di ricordi di tutte le generazioni, quello che resterà sul fondo quando anche l’acqua del mio tempo si sarà prosciugata, giocattoli, disegni, temi, fotografie, manufatti, libri, lettere, reperti di viaggio che qualcuno si divertirà a sua volta a comporre secondo principi combinatori imprevedibili, magari quello stesso cinese che un giorno comprerà la casa, prima di accendere un grande falò.
Salgo le scale, entro nella penombra: ho imparato a riconoscere che ora è dalla posizione della macchia di luce che filtra sul tappeto dalle stecche delle persiane accostate, questo significa conoscersi bene, avere intimità.
Percorro il lungo corridoio che attraversa un’infilata di stanze, d’inverno accelero il passo per sfuggire agli artigli del gelo e tuffarmi nel tepore delle stanze riscaldate e bene illuminate, all’altro capo.
Depongo la valigia e corro a comprare pane e prosciutto tagliato a mano dal macellaio. L’odore dell’aria del paese sa di ragú, di intingoli di carne, di pollo arrosto e di ciambellone, profumi solidi che si mischiano all’odore di fumo dei camini e delle stufe a legna, lo stesso dei villaggi africani nell’ora in cui tutti tornano dai campi con i rami secchi raccolti e si accendono i fuochi. A Chiusi mi assalgono proditori attacchi di mal d’Africa.
Nel negozio sono l’ultima di una lunga coda, il venerdí le famiglie pensano ai pranzi e alle cene allargati del sabato e della domenica. Malgrado gli abitanti diminuiscano di anno in anno, per morte naturale, i negozi di alimentari sono sempre affollati e la spesa piú che servire a procurarsi il cibo quotidiano, sembra un pretesto per dare sfogo al bisogno primario della schermaglia verbale.
“Cervellino ’un ce n’è punto?” chiede una signora accanto a me quando viene il suo turno. “’Un offendere, lo aspettiamo,” replica il macellaio padre dietro al banco. “Cavatevi il vostro piuttosto, ma ’un mi fate aspettà cosí, io ne ho bisogno ora”. Il macellaio figlio domanda: “Te la salo Antinesca l’hamburger?” “Sí Rossano, fammi tutto,” risponde una signora minuscola e sparuta. “’Un sarà geloso il tu’ marito?” replica...