O'Connor | Il geranio e altre storie | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 239 Seiten

Reihe: Minimum classics

O'Connor Il geranio e altre storie


1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-3389-540-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 239 Seiten

Reihe: Minimum classics

ISBN: 978-88-3389-540-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
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Il primo libro di Flannery O'Connor non è mai stato pubblicato nel corso della sua breve vita. Si intitolava Il geranio. Una raccolta di racconti, ed era la tesi di laurea dell'autrice, presentata all'Università dell'Iowa, dove aveva completato gli studi. Includeva i primi sei testi di quest'antologia, e rappresenta oggi una sorta di «ritratto dell'artista da giovane», nel quale la scrittrice affina progressivamente il suo talento e la sua capacità di condensare, in una serie di descrizioni corrosive e cariche d'ironia, il mondo nel quale era cresciuta. I sei testi successivi - tra i quali i racconti che, ripresi e rivisti da O'Connor, sono diventati alcuni dei capitoli più struggenti dei suoi romanzi La saggezza nel sangue e Il cielo è dei violenti - sono invece esempio di un'arte pienamente matura, caratterizzata da strutture narrative più complesse e da una feroce padronanza stilistica. Nel suo insieme, Il geranio e altre storie è il libro che meglio racchiude l'itinerario artistico di O'Connor, e rappresenta la summa ideale dei suoi temi: l'irruzione del numinoso nella vita quotidiana, la povertà di spirito e quella materiale, il razzismo e l'intolleranza, la grandezza e la miseria di un Sud insieme nobile e senza riscatto. La poetessa Elizabeth Bishop, alla morte di Flannery O'Connor, disse: «Sono sicura che i suoi libri vivranno a lungo nella letteratura americana. Sono pochi, ma sono chiari, duri, vividi e pervasi di una strana intuizione. Contengono più poesia di quanta se ne possa trovare in una dozzina di raccolte poetiche».

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Prefazione


Non mi stupirei se scoprissi che il Nobel portoghese, José Saramago, avesse letto «Il geranio» di Flannery O’Connor prima di scrivere In fondo si tratta di due vecchi che avevano la loro vita lontano dalla città, e che le loro figlie hanno sradicato per portarli a vivere all’inferno. Nel primo caso, in uno di quegli appartamenti un po’ periferici fatti di tanti piani e tanti lunghissimi corridoi con una porta dietro l’altra, nel secondo, addirittura in una casa dentro un centro commerciale. Un vecchio, in questi casi, su qualcosa deve fissarsi, e quello di O’Connor sceglie un vaso di geranio che non è nemmeno suo. Sta sul davanzale di una finestra di fronte. Quella pianta racchiude il suo passato, diventa il suo passato. Dunque tutto. La vecchiaia può essere fragile come un vaso di coccio. E i figli che scelgono, di certo in buona fede, per i loro anziani genitori, possono commettere danni pericolosi. Non è normale guardare tutto il giorno un geranio. E non è normale sentirsi morire quando un colpo di vento lo fa cadere e laggiù, nel cortile, non ne restano che le radici a spuntare dalla terra. Ma non lo è per i figli; lo è invece per quei vecchi che sono stati trascinati via da una stabilità mentale. Si pensa sempre che per un anziano l’assistenza sia tutto. O’Connor sa che gli occhi ci vedono male, e che l’entrata migliore, per vederci chiaro, è sempre quella del cuore.

O’Connor diceva: «Chi non conosce tutte le cose non può essere ateo. Solo Dio è ateo. Il diavolo è il più grande credente e ha le sue ragioni». Come darle torto. In chi dovrebbe credere Dio, in se stesso? Il diavolo, invece (secondo John Milton un’invenzione di Dio), è talmente credente da essere diventato l’avversario del Bene. Ma tra i due può esserci collaborazione. Chi finisce nella famosa «terra del diavolo» ha spesso più possibilità di riconoscere la grazia rispetto a chi non si è mai perso. Dio, in genere, preferisce i reietti, i miscredenti, se non addirittura gli assassini (se pensiamo al Balordo del racconto «Un brav’uomo è difficile da trovare») I più arditi del male si lasciano tentare, seguono l’aria peggiore usmando, e quando si trovano nel territorio del diavolo, all’inizio nemmeno se ne accorgono. Sarà quando cominceranno a vedere l’invisibile, quando avranno la sensazione di udire un richiamo repellente e attraente insieme. Lo sentono, ma lo rifiutano, come Haze, protagonista dello straordinario racconto «Il pelapatate» che poi, rivisto con la meticolosità tipica della scrittrice americana, diventerà il terzo capitolo del suo primo romanzo: Nel racconto, intuita la possibilità della grazia (che non è mai un favore, semmai una necessaria dannazione), Haze si limita a camminare con dei sassi dentro le scarpe per punire la sua presunzione. Nel romanzo sceglierà ben altro. Perché la grazia, tutto sta nell’accettarla, e poi si entra nel dramma per sempre. I prescelti, si sa, sono tali per soffrire, per dare e darsi, per sacrificarsi. Insomma, per fare nel loro piccolo quello che il Figlio di Dio ha fatto per noi. La grazia è dunque un dono doloroso, difficile da accettare essendo uomini di questo mondo. Del resto, per avvicinarsi al Cristo che si è fatto uomo, e dunque essere meno Dio per comprenderci meglio, l’uomo dovrà fare lo sforzo di essere un po’ meno uomo per avvicinarsi al Signore ed esserne degno.

A Flannery O’Connor capita spesso di scrivere dei racconti che poi diventeranno capitoli di un romanzo. E non è nemmeno difficile accorgersene, perché finiscono lasciando al lettore molte possibilità per proseguire da solo, se davvero si è lasciato suggestionare dalla scrittura incendiaria dell’autrice, oppure con la certezza che sarà lei stessa prima o poi a rimetterci le mani. O’Connor diceva che scrivere romanzi era un impegno arduo e doloroso. Una vera sofferenza. In realtà era la sua malattia a renderle il percorso difficile, quel lupus eritematoso che scoperse di avere giovanissima e che aveva già ucciso suo padre Ed. L’unico della famiglia che aveva intuito il potenziale di quella ragazzina formidabile, diversa da tutte le altre. Il lupus era all’epoca una malattia molto debilitante e che portava alla morte. C’erano giorni in cui la scrittrice faceva fatica anche a battere a macchina, le sembrava che i tasti opponessero una forte resistenza. Era per questa ragione che considerava i romanzi una sfida, non certo per mancanza di fiato creativo.

Qualche volta, soprattutto quando era sotto l’effetto dopante del cortisone (e lo era purtroppo spesso), le idee non le davano pace nemmeno di notte. Davanti ai suoi occhi di un azzurro profondo, molto scuro, che puntava su un soffitto nero, devono esserle sfilate davanti storie meravigliose che poi, di giorno, non riusciva a rimettere insieme. La mente galoppava ben più veloce delle sue piccole mani. È per questo che per ben due volte ha riesumato qualche suo racconto nel quale sentiva che l’incompiuto prometteva moltissimo. E non sbagliandosi, dato che ne sono venuti fuori e . Titoli biblici e apocalittici, che già racchiudono il suo cattolicesimo ortodosso nemico di ogni perbenismo e bigottismo.

Quando era già molto malata e sapeva che il tempo a lei concesso si stava accorciando, ha accarezzato l’idea di scrivere un romanzo (ci metteva sempre cinque anni) tratto dal racconto «Amore e rabbia». Non si fa fatica a crederle e a rimpiangere che questa immensa autrice non abbia avuto il tempo per farlo, perché c’erano tutti i temi a lei cari. Un padre un po’ despota che ha un colpo apoplettico, una madre generalessa che solo perché donna si rifiuta di prendere il comando della casa, e Walter, il figlio designato, che invece si crogiola in lunghe, teologiche e filosofiche letture che sua madre ritiene inutili. È nel finale che si sente la necessaria nascita del romanzo, quando andando a sfogliare a caso un libro di suo figlio, la madre legge di un re con una spada che gli spunta dalla bocca e che rade al suolo tutto quello che trova sulla sua strada. Allora, in un soprassalto, solo ripensando a quelle parole, si rende conto che quel re è Gesù, lo stesso che non è venuto a portarci la pace, bensì la spada, e che ci esorta a lasciare l’ombra in favore della luce. È sempre una questione di grazia che ci viene offerta quando ci smarriamo, e accettarla è una sfida travolgente. Il più delle volte, però, chi riceve la «chiamata» sa che non potrà tirarsi indietro. Nasce così quella lunga lotta che porterà alla dolorosa accettazione. Pensiamo a Haze che voleva predicare una religione senza Cristo, e ricordiamo la risposta di Flannery a una cena durante la quale è stata sempre muta; quando però ha sentito la padrona di casa dire che l’eucarestia era ormai solo un simbolo, rischiando di essere blasfema le ha risposto che personalmente di un simbolo non sapeva cosa farsene. Per lei la religione, la vera fede significava credere ciecamente nell’eucarestia, a quel miracolo che si riproduceva ogni volta durante la messa, e cioè che il figlio si era fatto uomo diventando per noi di carne, sangue e ossa.

Ma la O’Connor, proprio a dispetto di ogni retorica bigotta, era anche una cattolica ortodossa progressista, e lo esprime con chiarezza e dolore nel racconto «Il barbiere» Qui il tema sul quale dobbiamo ragionare è che i bifolchi hanno sempre la meglio su chi ha studiato. Se lo mangiano proprio in insalata, perché chi ha studiato conosce il dubbio. Il bifolco mai. E così, parlando di certe votazioni e del candidato da scegliere, il povero cliente uscirà sbeffeggiato. Le sue idee progressiste fanno ridere. Che farà allora il pover’uomo? Si scriverà una specie di relazione che farà leggere a una distratta e disinteressata moglie, per poi tornare trionfante dal barbiere e dai suoi bifolchi clienti, che della conversazione precedente si erano addirittura dimenticati. Sarà lui a ricordarla, e a leggere quelle parole in modo stentato, così trascinato dalla timidezza che tutti rideranno di lui.

Chi ha cervello sembra non avere molta fortuna nei racconti di O’Connor. Perché averne significa essere diversi dalla massa. E i numeri contano, i numeri possono far apparire un uomo di buon senso un perfetto idiota agli occhi degli altri. La vera difficoltà sarà dimostrare il contrario.

In «La Festa delle azalee», per esempio, la O’Connor me la immagino con arco e frecce per scrivere quell’impeccabile racconto sulla idiozia umana. E questa volta non salva nessuno. C’è un paese che ha il suo momento di gloria durante la Festa delle azalee, sembra non coltivino altro e pretendono che tutti comprino il distintivo. Be’, una sciocchezza. Che potrà mai succedere a chi si rifiuta? Dipende da chi è: se è uno che ha fama di mezzo matto può accadergli di tutto, anche che lo chiudano in una prigione improvvisata e sporca in compagnia di una capra. E che lì dentro lo tengano giorni e giorni, per tirarlo fuori a loro comodo. Non esiste senza rischi. Quell’uomo era già disturbato di suo, e cosa fa? Torna in tribunale con un fucile e ne fa secchi sei. Poi va in una prigione psichiatrica senza muovere un muscolo.

Nel paesotto, però, arriva il nipote di due anziane signore che lo vezzeggiano come fosse ancora un bimbetto. Ha le sue idee, è convinto che il mezzo matto abbia ragione e chi gli dà manforte è una vicina di casa, una ragazza bella e snob. Quell’uomo ha agito così perché è...



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