Nooteboom | Verso Santiago | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 487 Seiten

Reihe: Narrativa

Nooteboom Verso Santiago

Digressioni sulle strade di Spagna
1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-7091-860-1
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Digressioni sulle strade di Spagna

E-Book, Italienisch, 487 Seiten

Reihe: Narrativa

ISBN: 978-88-7091-860-1
Verlag: Iperborea
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



«Volevo andare a Santiago, ma le strade si sono sfilacciate come una corda spezzata»: il viaggio di Nooteboom in Spagna dura da più di quarant'anni e non è ancora finito. Puntando alla città in cui riposano le spoglie dell'apostolo Giacomo, come milioni di pellegrini che da oltre un millennio battono una rete di cammini che partono da tutta Europa, il viaggiatore olandese si perde nella penisola Iberica seguendo toponimi, cercando chiese romaniche diroccate, o sulla scia dei sogni della siesta, «sempre diversi da quelli della notte». Dall'illuminato ecumenismo medievale di un mondo arabo, ebraico e cristiano, fino all'oscurantismo dell'Inquisizione, da Velázquez a Zurbarán, da Cervantes a Unamuno, Nooteboom esplora la Spagna e la sua storia, la sua arte così varia, la sua letteratura. Ma neanche il grande uomo di cultura può resistere al semplice fascino di un paesaggio desolato in una città rovente di sole, delle fontane dell'Alhambra, le rocce e le nevi delle montagne asturiane, mentre si interroga sull'enigma insolubile di un paese in bilico tra l'Europa, l'Africa e l'America, chiuso per secoli al mondo eppure crogiolo delle culture di tre continenti. Con uno stile che trasforma le baruffe di re medievali in un dramma verdiano, il paesaggio in un luogo dell'anima, un passo montano in un'antica scena di battaglia, Nooteboom tenta di rendere possibile l'impossibile e ricucire la lacerazione del viandante, alla ricerca dell'inafferrabile essenza di un luogo che può cogliere solo chi vi si ferma, ma che si troverà sempre «un po' oltre la costa di Finisterre».

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Attraverso l’Aragona, destinazione Soria
(1981)


Non è dimostrabile, però io ci credo: nel mondo ci sono luoghi in cui l’arrivarci o il ripartire viene misteriosamente amplificato dalle emozioni di quanti in passato da lì sono partiti o lì sono giunti. Chiunque abbia un’anima abbastanza leggera avverte una lieve resistenza nell’aria attorno alla Schreierstoren di Amsterdam – la Torre del pianto – che promana dal cumulo di dolore di coloro che lì si dissero addio, un dolore che oggi non conosciamo più. Ormai i viaggi non durano anni, sappiamo esattamente dove siamo diretti, e le probabilità di fare ritorno sono molto più alte. Sotto il portico d’ingresso della cattedrale di Santiago de Compostela si erge una colonna di marmo che reca l’impronta di profondi solchi; una sorta di «zampata» espressionistica di grande impatto emotivo prodotta da milioni di mani, tra cui la mia. Ma se dico «tra cui la mia» è già una forzatura, perché io non ho certo mai afferrato quella colonna con tanta emozione dopo un viaggio a piedi durato più di un anno. Non ero un uomo del Medioevo, non ero un credente, e ci arrivavo in automobile. Ma anche a prescindere dalla mia mano, anche se non ci fossi mai stato, il solco resta, scavato nel duro marmo dalle dita di tutti quei morti. Eppure anch’io, appoggiando la mia mano su quel negativo di una mano, sono entrato misteriosamente a far parte di un’opera d’arte collettiva. Il pensiero diventa visibile nella materia: questo è sempre prodigioso. La forza di un’idea spinse re, contadini e monaci ad appoggiare la mano proprio in quel punto della colonna, e ogni singola mano ha consumato una parte infinitesima del marmo durissimo, e in questo modo, proprio nell’assenza del marmo, risultò visibile una mano.

Penso a queste cose un giorno di luglio; è mattina presto e sto per imbarcarmi per Barcellona. Lì noleggerò un’automobile e per vie traverse, o forse addirittura dopo avere percorso tutta la Spagna, per la terza volta nella mia vita andrò a Santiago de Compostela. Non in pellegrinaggio, come gli altri, ma sulle orme di un io remoto che ormai è quasi un fantasma, riallacciandomi a un viaggio del passato. In cerca di che cosa? Una delle poche costanti della mia vita è l’amore – perché sarebbe riduttivo definirlo diversamente – per la Spagna. Donne e amici sono scomparsi, ma un paese non se ne va tanto facilmente. Quando nel 1953, a vent’anni, visitai per la prima volta l’Italia, pensavo di aver trovato tutto quello che cercavo da sempre, pur senza rendermene conto. Lo splendore mediterraneo mi colpì come una bomba, tutta la vita come un geniale teatro pubblico in un trascurato scenario artistico millenario. I colori, i cibi, i mercati, i vestiti, i gesti, la lingua, tutto sembrava più raffinato, più intenso e vivace rispetto al basso delta nordico da dove venivo: ne fui soggiogato. La Spagna, in seguito, fu una delusione. Sotto lo stesso sole mediterraneo la lingua sembrava dura, il paesaggio arido, la vita aspra. Non era fluida né gradevole, ma vecchia, intoccabile e ostile, dovevo conquistarla. Oggi non riesco più pensare in questi termini. L’Italia è tuttora incantevole, ma ho la sensazione – non è facile parlare di questi argomenti senza scadere in una terminologia mistica e bizzarra – che il carattere e il paesaggio spagnoli corrispondano a «ciò di cui mi occupo e scrivo», a una parte più o meno consapevole di me, a quello che sono. La Spagna è brutale, anarchica, egocentrica, crudele, la Spagna è pronta a gettarsi nel baratro per un nonnulla, caotica e irrazionale. Ha conquistato il mondo e non ha saputo che farsene, è legata al suo passato medievale, arabo, ebraico e cristiano e se ne sta lì, con le sue caparbie città circondate dagli infiniti paesaggi deserti, come un continente che sia attaccato all’Europa pur senza esserne parte. Chi ha percorso soltanto le tappe obbligate non ha visto la vera Spagna. Chi non ha mai provato a perdersi nella labirintica complessità della sua storia non conosce la terra in cui viaggia. È un amore per la vita, uno stupore che non finisce mai.

Dal ponte della nave vedo calare la sera sull’isola su cui ho trascorso l’estate. La notte s’insinua tra le colline, tutto si oscura, gli alti lampioni al neon si accendono a uno a uno e inondano la banchina di quella bianca luminosità inerte che è parte integrante della notte mediterranea quanto la luna. Arrivo e partenza. Da anni faccio la spola tra la terraferma spagnola e le isole. Le navi bianche ora sono un po’ più grandi, ma il rituale è rimasto lo stesso. Il molo è pieno di marinai bianchi, di gente venuta a salutare e di fidanzati, il ponte pieno di turisti in partenza, militari, bambini, nonne. La passerella è già stata issata a bordo, la sirena lancerà ancora un ultimo, lacerante grido di addio, e la città rimanderà quel suono, uguale ma più ovattato. Tra l’alto e il basso ancora un solo legame: rotoli di carta igienica. A riva un’estremità. Sopra, sul parapetto, il rotolo stesso che verrà svolto lentamente, man mano che la nave si allontana dalla banchina, fino a quando anche l’ultimo, il più esile legame con chi resta, che accompagna la nave finché può, si spezzerà e i sottili festoni di carta trasparenti annegheranno nell’acqua nera.

Qualcuno grida, qualcuno risponde, ma non si capisce più chi sia, né il significato di quei messaggi. Usciamo dal lungo porto stretto, passiamo davanti al faro, all’ultima boa, e poi l’isola diventa un’ombra tenebrosa avvolta dalla notte scura. Ormai non si torna più indietro, apparteniamo alla nave. A poppa riecheggiano chitarre e battimani, si canta, si beve, chi ha soltanto il posto ponte si prepara a trascorrere una lunga notte sulle sdraio di legno; suona il campanello, il pasto è servito, nell’antica sala da pranzo i camerieri in giacca bianca vanno avanti e indietro sotto il ritratto del re di Spagna dal volto serio. Nel salottino il televisore trasmette dal mondo reale fantasmagoriche immagini sfuocate, ma quasi nessuno guarda. Si tira tardi ciondolando sul ponte, si beve fino a quando non chiudono i bar. Poi anche l’ultimo canto ribelle tace e non si sente che lo sciabordio delle onde contro la chiglia. Il passeggero solitario va nella sua cabina e si sdraia sul lettuccio di ferro. Di notte si sveglia un paio di volte e sbircia fuori attraverso l’oblò. La grande superficie del mare si muove in una lenta danza scintillante, sembra misteriosa e un po’ inquietante, così taciturna e potente, percorsa solo da quel pigro moto magnetico sotto cui tanto si cela. Uno spicchio di luna bianca appare e si nasconde tra le onde setose, voluttuoso e al contempo inquietante. Il passeggero è un cittadino e non sa come comportarsi con quel grande elemento silenzioso che improvvisamente è diventato il suo mondo. Tira la misera tendina davanti alla finestra rotonda e accende la piccola luce della cuccetta. Un armadio, una sedia, un tavolo. Una bottiglia d’acqua su una mensola nichelata contro la parete di ferro, sopra un bicchiere rovesciato. Un asciugamano della Compañía Mediterranea che domani si porterà via, proprio come il bicchiere con la bandierina della compagnia. Ne ha parecchi, di quegli asciugamani e di quei bicchieri, perché già più volte ha fatto quella traversata.

Pian piano si è abituato al rollio della nave, un ampio dondolio materno, e sa come continua il viaggio. Nel corso della notte riuscirà finalmente a prendere sonno, poi la prima luce filtrerà attraverso l’inutile tendina. Andrà sul ponte con gli altri passeggeri dalle facce assonnate a vedere la città che si avvicina lentamente, più bella sotto i primi raggi del sole che danno un impressionistico tocco dorato agli orribili serbatoi del gas e allo smog, così per un istante sembrerà che lì si stia cullando un brumoso paradiso tutto d’oro invece dell’impietoso paraurti di una metropoli industriale.

Ora la nave scivola silenziosa tra le braccia di pietra del porto. Sembra piccola, sotto le alte gru. Il moto dell’acqua si è arrestato, non fa più parte del mare, e anche a bordo ogni confidenza è finita, i passeggeri non appartengono più a una stessa comunità. Ognuno è occupato dai propri pensieri nell’attesa di quello che verrà. Nelle cabine gli uomini dell’equipaggio disfano i letti e contano gli asciugamani mancanti. Sulla banchina fa già caldo.

Lasciar dissolvere il tempo mi sembra un atteggiamento tipicamente spagnolo, e in nessun luogo il tempo si è dissolto così bene come sull’orologio molle, disciolto e liquefatto di Dalí. Mentre aspetto che mi consegnino l’automobile leggo sul la lettera che il pittore ammalato scrive al popolo per spiegare quanto non è ammalato. La firma sotto la lettera battuta a macchina (intestazione: «Teatro Museo Dalí») è tremula, ma l’immagine è ancora riconoscibile – le lettere del nome magico si confondono con i tratti di un donchisciottesco cavaliere in sella, la lancia coraggiosamente in resta a trapassare la carta da lettere. Guardando quella firma penso a quanto spagnolo sia il fenomeno Dalí, e con quale...



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