Nezhukumatathil | Morso dopo morso | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 264 Seiten

Reihe: terra

Nezhukumatathil Morso dopo morso


1. Auflage 2025
ISBN: 979-12-5480-189-5
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 264 Seiten

Reihe: terra

ISBN: 979-12-5480-189-5
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Il cibo è nutrimento: non solo fisico, ma anche emotivo, spirituale. Grazie al cibo possiamo riflettere sulla nostra storia personale, sulle connessioni che intercorrono tra noi e i nostri familiari, i nostri amici, e riscoprire le meraviglie del mondo naturale - che Aimee Nezhukumatathil conosce così bene. Dopo il successo di Un mondo di meraviglie, la poetessa volge il suo sguardo a una vasta gamma di cibi, da frutti esotici come il rambutan e il mango a piatti tradizionali come il lumpia e il risotto, fino ad arrivare a ingredienti semplici presenti in qualunque dispensa, quali la cipolla e il burro. Ciascuno è un portale per esplorare temi più ampi: il passato doloroso che ha segnato il viaggio attraverso il mondo di prodotti bramati dall'Occidente, e il presente in un'America che ama sempre meno i suoi cittadini di pelle scura - i mischia-mischia, come si autodefinisce Nezhukumatathil paragonandosi al prelibato dessert tropicale halo-halo. Morso dopo morso è un ricco diorama sul mondo del cibo e della natura, un invito alla lentezza e all'apprezzamento dei piccoli piaceri della vita, perché 'la cucina è un fatto di reazioni chimiche, una trasformazione da crudo a cotto, da ingrediente a piatto. È la trasformazione stessa, e non solo il prodotto finale, a recare bellezza. Dal seme alla pianta, dal bocciolo al frutto, da bambino a adulto'.

Aimee Nezhukumatathil (Chicago, 1974) è autrice di quattro libri di poesia che le sono valsi numerosi riconoscimenti. Il suo Un mondo di meraviglie (nottetempo, 2024) è stato a lungo tra i best seller del New York Times ed è stato un successo anche in Italia e in molti altri paesi. Nezhukumatathil insegna Inglese e Scrittura creativa nel programma MFA dell'Università del Mississippi.
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Rambutan


In seicento e rotti anni di Nezhukumatathil non ce n’era uno che alle medie avesse preso parte a un ballo studentesco, per cui potete immaginare l’importanza cruciale della scelta, da parte mia, dell’acconciatura per l’occasione. Ho tredici anni e sto tamponando con un telo i capelli freschi di doccia a casa mia, un ospedale psichiatrico nelle campagne a ovest dello Stato di New York. No, non sono ricoverata. Ai tempi mia madre lavorava lì come psichiatra, motivo per cui ho trascorso quattro anni – gli anni, mioddio!, cruciali della pubertà – negli alloggi del personale medico, una fila di tre robusti edifici in mattone appollaiati su una collina in quello che all’epoca era il Gowanda Psychiatric Center. Vado di fretta perché devo vedermi con le mie amiche Heather e Sara al parco giù in città per un gelato, e anche perché mi stuzzica un’idea: chissà che non ci sia qualche ragazzo da quelle parti.

Sto già afferrando il pomello della porta quando ecco un riflesso della mia immagine sbucare dalla condensa che vela lo specchio. Uh? Dai la cera, togli la cera e via che do una ripulita al tutto per vedere meglio. Ricordo che mi mancò il fiato. Eccoli lì, come se in qualche modo li avessi evocati con lo shampoo: bum!, riccioli. Quelle che un tempo – da che avevo memoria, o da quando avevo iniziato a farci caso – erano setose ciocche mosse e flessuose, ora erano ricci in piena regola. Nel senso di boccoli.

Incredula, mi passai le dita sui ricci umidi. Mi ero limitata a districare a mano quel groviglio indistinto e aspettare che asciugasse. Ripensai a tutte le pubblicità di prodotti per capelli, così diffuse a metà anni Ottanta: i toni fluo del gel Dep; L’Oréal, con quel mix elegante alla Mondrian di rosso, giallo e blu sui flaconi; e ovviamente l’affascinante viola della linea Aussie Hair Care – dall’Australia, così esotica – piena di gel e lacche dall’immancabile odore di succo d’uva.

In lingua malese “capelli” si dice rambut, per cui ha perfettamente senso che il frutto dalla cui buccia scarlatta irradiano selvagge spine ricciute – a mo’ di parrucca fatta a pennello per un inquietante clown in miniatura – prenda il nome di rambutan. Fu introdotto nelle Filippine nel 1912 dall’Indonesia, e ben presto le sue fronde sempreverdi si riempirono di grappoli da dodici o addirittura quindici frutti. La scorza rossastra dall’aria pelosa nasconde una polpa liscia e zuccherina, l’arillo, che splende di un bianco appena avvampato, quasi trasparente, e dall’odore vivace e terroso come le rocce che riposano sotto l’acqua di un ruscello.

Gli alberi di rambutan raggiungono un’altezza che va dai quindici ai venticinque metri e producono i loro frutti due volte a stagione. La drupa in sé è di forma ovale, lunga suppergiù come una pila aa, e all’interno ha un unico seme, scuro e vischioso, da cui può essere estratto un olio adatto a uso alimentare. Quando penso al rambutan mi viene in mente una frase di Virginia Woolf: “A nostra lode o a nostro biasimo, non si può negare – dentro ognuno di noi c’è un cavallo selvaggio”.

Si potrebbe dire che il cavallo selvaggio che è in me si esprima in primo luogo attraverso i miei capelli. Ma che brividi se ripenso a tutti gli anni in cui ho desiderato averli biondi o lisci, e solo perché ero circondata da quel colore e quella texture e volevo sentirmi inclusa. Non so se ci avrei creduto, ma quanto vorrei che qualcuno si fosse fatto avanti a dire alla piccola Aimee che, anche se in quei paeselli rurali l’impressione era un’altra, il nero è il colore di capelli più diffuso al mondo. All’epoca Madonna era già una pop star di fama planetaria, e quando era stata catapultata verso il successo la sua chioma castano naturale era stata tinta di biondo, e bionda restò per gran parte della mia adolescenza, con una piccola deviazione sui toni scuri nell’era di Like a Prayer. E potete giurarci che l’ho notato, che il video in seguito al quale un sacco di gente le ha voltato le spalle arrivando al punto di boicottare la Pepsi sia stato proprio quello in cui in testa aveva una cascata di ricci ribelli.

Fino al giorno in cui i miei ricci hanno fatto la loro comparsa mi era vietato usare qualsiasi tipo di prodotto per capelli. Mia madre, filippina, nel tentativo forse di esercitare una qualche forma di controllo su quella figlia nata su suolo americano che navigava un universo adolescenziale che a lei risultava incomprensibile, aveva sempre una qualche regola del tipo: “Niente riviste prima di cena!”, “Non si telefona dopo mangiato!”, “Non fate le bolle con la gomma da masticare!”, “Niente trucco!”, “Niente lacca!”. Ma adesso ero riccia. Quei ricci dovevo acconciarli. Mica potevo raccoglierli in una coda di cavallo come se niente fosse. Non sarebbe bastato. Tenete a mente che sto parlando degli anni Ottanta. I ricci dovevi strizzarli e fissarli con gel, mousse e lacca. Certe ragazze durante l’ora di ginnastica si sistemavano i capelli negli spogliatoi senza saltare un passaggio. E non c’erano mezze misure: la frangia doveva assolutamente sovrastare il più gonfio dei tuoi riccioli. Per farla breve, se avevi i ricci negli anni Ottanta ti servivano dei prodotti per capelli. Punto. Mi vestii il più in fretta possibile e filai giù per le scale per mostrare i capelli a mia madre, che era presa a preparare la colazione. Ma era evidente che non avrebbe ceduto di un millimetro.

“Ma perché no, mammaaaah?” domandai scalciando le gambe del tavolo di legno mentre lei tagliuzzava dei pomodori.

“La lacca ti secca troppo i capelli. Tempo due anni e resti pelata. Non c’è bisogno della lacca! Sei troppo piccola, per la lacca!” E via a sminuzzare. Inclinò il tagliere per aggiungere i pomodori all’omelette che già sfrigolava sui fornelli.

Non avrebbe cambiato idea, il che voleva dire che me ne sarei andata a scuola con una chioma da barboncino e sarei rientrata nel pomeriggio per spazzolare i miei dieci centimetri e passa di frangia prima che mia madre tornasse dal lavoro. Avrei rimediato la lacca gratis nel bagno delle ragazze, da Heather, che aveva una borsa gigante sempre fornita di mini bombolette di Aqua Net.

A un certo punto credo di aver avuto sul viso (il che per me significa tutta la parte davanti alle orecchie), in due ciuffi ampi e ondulati, la stessa matassa di capelli che avevo sulla nuca (tutta la parte dietro le orecchie). Eccomi a dodici anni. La tizia un po’ losca del salone di parrucchieri Fantastic Sam (che mentre mi tagliava i capelli fumava sempre) mi fa la riga di lato e raccoglie la parte davanti in un unico ciuffo, sul retro invece… un bizzarro mullet al femminile. Questa donna mi insegna a usare l’arricciacapelli. “Bisogna che lo gonfi, teso’. E gonfia!” Mentre rigira e ferma con una molletta una sezione di quel gran ciuffo a mo’ di davanzale tirandolo su di sette centimetri buoni, afferra una bomboletta gigante di Aqua Net e spruzza dappertutto – ferro e compagnia bella. I capelli sfrigolano emanando sopra la testa una nuvoletta di vapore, e chissà come provo una certa soddisfazione. La osservo attentissimamente per ricreare il tutto il venerdì sera, quando resto a casa a guardare Miami Vice col resto della famiglia.

“Gesù, dov’è che devi andare con quei capelli?” domanda mia sorella mentre divora orsetti gommosi accanto a me sul divano.

“È venerdì! Non si sa mai”. Incrocio le braccia sul petto e sospiro come se quella risposta fosse scontata. Ma sappiamo entrambe che “non si sa mai” un corno. Ma neanche “chissà, chissà”. C’è solo la soddisfazione di starmene seduta lì, coi capelli a posto – un gonfio nido scuro in cima alla testa, cercando di non dare a vedere che tutto sommato mi diverte guardare la tv con la mia famiglia quando non mi è concesso di andarmene in città con i miei amici a guardare un film vietato ai minori non accompagnati.

Nessuno chiede conto al rambutan della sua chioma in disordine. Si sa soltanto che, se è un rambutan che vuoi, dovrai vedertela con quelle spine indomabili e pazze. Voglio parlarvi degli anni che ho passato a mettere in piega, piastrare, tirare e domare i miei capelli pur di dargli una raddrizzata, ma l’idea mi sfinisce. Ore trascorse a esaminare i miei capelli sulla nuca con un doppio specchio, chiedendomi di che colore avrei dovuto tingerli per schiarirli almeno un po’ da quel marrone cioccolato extra-fondente. Qualsiasi cosa pur di evitare che qualche sconosciuto mi chiedesse: “Ma tu cosa sei?” Pur di assomigliare un po’ a Sara, Americ, Debby, Stephanie, Jennifer – chiunque altro.

Voglio raccontarvi della prima volta che ho fatto visita a mia nonna in India durante la stagione dei monsoni, e lei (fresca di bagno) mi ha raggiunta sul divano, dove me ne stavo a leggere e tenere il broncio perché le zanzare mi mangiavano viva. Fino ad allora non avevo mai visto la nonna se...



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