Muscatelli | Balena | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 168 Seiten

Reihe: Cronache

Muscatelli Balena


1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-7452-997-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 168 Seiten

Reihe: Cronache

ISBN: 978-88-7452-997-1
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Balena è la storia di un corpo che cambia e diventa gigantesco, ma è anche la storia di una donna che si riappropria di sé grazie a quel corpo. La morte improvvisa di un genitore è una perdita troppo difficile da sostenere per una bambina. Così, a undici anni, Giulia inizia a cercare di colmare quel vuoto enorme col cibo. Quasi volesse far posto 'sotto la pelle che si dilata' al padre che non c'è più, reagisce alla mancanza e al dolore assumendo le sue forme - quelle di 'un uomo grosso, un uomo enorme'. Il peso di Giulia passa da 40 a 80, a 96 chili, sembra non fermarsi mai. Poi, insieme al corpo, cominciano a crescere il rifiuto di sé, la vergogna, il senso di colpa, il bisogno di nascondersi. E presto arriva il bullismo dei compagni, ma anche di qualche insegnante, a colpirla e umiliarla ogni giorno persino nel nome, ormai diventato quello di un animale: Balena. Fino a quando, con l'aiuto di sua madre, Giulia cambierà ancora e troverà una nuova consapevolezza, un nuovo equilibrio per sé, e un nuovo spazio per Balena - non più in primo piano, ma sempre lì. Alternando racconto e riflessione, facendo dialogare il passato con il presente, Giulia Muscatelli scrive un libro coraggioso che sceglie la speranza ma rifiuta le facili consolazioni. Un memoir toccante e acuto che racconta la stigmatizzazione del corpo, il superamento del lutto e la ricerca di un nuovo inizio.

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Somiglianze


I vizi delle femmine, quelli da stereotipo, da barzellette dei maschichesilamentanodellemogli, io ce li ho tutti. Estetista, parrucchiere, shopping, tacchi alti, borse, e per levare ogni dubbio: parcheggio malissimo. Nonostante l’impegno non sono mai riuscita nell’intento di essere una donna “atipica” (scrivo, ma questo mi aggiunge soltanto una sfumatura intellettuale). Un pomeriggio, durante un panel su nuovi e vecchi femminismi, una donna mi ha detto che mi depilo perché sono ancora . “Da una come te non me lo sarei aspettato. Pensaci stasera, quando andrai a dormire”. L’ho fatto, ho pensato alla motivazione storica e sociale per cui a volte, quando ne ho voglia, spendo nove euro e novanta centesimi per un rasoio rosa slavato, e ho capito che conservo la mia frivolezza come un atto rivoluzionario; magari è un po’ enfatico dirlo così ma potrò appunto scegliere liberamente, fuori da qualsiasi stereotipo o imposizione, se depilarmi o meno? (Forse sono una femminista sbagliata – ma potranno, i due termini, stare uno accanto all’altro senza che il primo perda di valore?)

Ho fatto la prima ceretta a dodici anni, quando ormai pesavo 72 chili, circa trenta in più dalla morte di mio padre. Mia madre ci teneva: già sei enorme, pure pelosa no – questo deve aver pensato quando mi ha proposto di andare con lei da Mara, la sua estetista, quasi un’amica. Mara era quella che accoglieva mia madre quando la sua vita era così una merda da non poter immaginare altra soluzione che “farsi i piedi”. E soprattutto Mara costava poco. Anche se il denaro stava pian piano svanendo, nella mia famiglia alcuni “vizi” rimanevano. Ho spalancato la mia fica davanti a Mara a un’età in cui non avevo ancora mai pensato si potesse spalancare la fica davanti a qualcuno, figuriamoci davanti a una signora con la coda di cavallo e il camice celeste, e Mara ha sorriso. Dovrà farsi strada con le braccia, pensavo, tra la carne delle cosce che straborda e avanza; lì in mezzo troverà il mio pube. Povera Mara.

La settimana scorsa, mentre me ne stavo seduta dal parrucchiere, mi annoiavo e così ho cercato Mara su Instagram. Non l’ho trovata, ho ragionato sull’età che dovrebbe avere oggi e stavo per provare con Facebook ma non ho fatto in tempo, il parrucchiere mi ha interrotto. “Pettinata così sembri tua madre, è impressionante. Siete identiche”. Mi hanno detto più spesso che assomigliavo a lui, al morto. Stesso naso, stessa bocca carnosa, stessi occhi. Io non l’ho mai creduto se non per un particolare: le mani. Abbiamo mani identiche, io e mio padre – tanto che a volte ho il dubbio che non siano mie, ma sue, queste mani, rimaste attaccate a me come segno del suo passaggio sulla Terra; anche se le mie sono molto più piccole ancora oggi e le unghie sono sempre colorate e il dorso tatuato. Andavamo spesso in giro per mano. Ci tenevamo stretti anche l’ultima mattina passata insieme, sulla salita per Superga, quasi un anno prima della notte del tir.

La sua mano era enorme. Dentro la sua mano poteva starci comodamente una palla da tennis, o un arancino, un gomitolo usato per una sciarpa lasciata a metà, il muso di un piccolo cane. La mia era solo una mano di bambina, magra, dita lunghe e affusolate, unghie tagliate quello che bastava perché non diventassero nere quando giocavo al parco. Non riuscivo neppure a incastrare le mie dita negli spazi tra quelle di mio padre, e allora avevo preso l’abitudine di chiuderle in un pugno e lui mi afferrava. Senza fatica avrebbe potuto sollevarmi da terra così.

Il suo passo rallentato, il mio passo velocizzato. Un 52 contro un 24, per fare un suo piede ci volevano più di due piedi miei. La mia scarpa sarebbe potuta entrare nella sua – un modo per stare più vicini, o forse solo per sfruttare meglio gli spazi nella scarpiera. Il suo braccio sinistro era teso e fissato sulla missione: tenermi salda. Il mio braccio destro stava al sicuro sotto la presa di un adulto. Con l’altra mano portava una corona di fiori, le piccole rose rosse spuntavano fiere da un tripudio di foglie verdi. Sembrava un giardino in miniatura.

Al centro della corona, su un nastro granata, la scritta in oro: GRANDE TORINO, ORA E SEMPRE. Era il 4 maggio 1999. Avevo dieci anni. La squadra contro la quale avevano giocato quelle persone il giorno prima di morire aveva un nome che mi faceva sganasciare ogni volta che mio padre lo pronunciava. “Non fare la sciocca, non c’è nulla da ridere,” mi rimproverava lui. Benfica – ma come fa a chiamarsi così? E poi gli chiedevo di raccontarmi la storia ancora una volta. Nel corso del tempo alcuni dettagli erano cambiati, ogni anno si aggiungeva un particolare a quella vicenda: più crescevo, più si faceva triste. Quando ero molto piccola, quei giocatori imbattibili avevano avuto un incidente ma una magia aveva fatto in modo che si trasformassero in quelli arrivati dopo (“E allora perché adesso perdono sempre?” domandavo). Poi l’incidente era diventato “un incidente aereo” in cui “solo qualcuno” era morto. E alla fine, verso gli otto anni, la verità.

Il 4 maggio 1949, alle ore 17:03, il Fiat G.212 stava riportando a casa da Lisbona l’intera squadra del Grande Torino, quando si schiantò contro il muraglione del terrapieno posteriore della Basilica di Superga. Era una giornata di pioggia. Le vittime furono trentuno. La mia famiglia non aveva mai perso una commemorazione: ogni anno, il 4 maggio, ci alzavamo alle 6, alle 6:30 eravamo fuori di casa, alle 6:40 passavamo a ritirare i fiori ordinati qualche giorno prima, e alle 7 parcheggiavamo l’auto all’imbocco della salita per Superga. Poi iniziavamo a camminare.

Quell’anno però né mia madre né mio fratello Mario erano venuti con noi. Troppo sonno, troppe le stranezze di mio padre, troppe fissazioni per gente morta da anni e per una squadra che giocava sempre peggio. Solo io c’ero. Io ci tenevo. Non era però il Torino a interessarmi, il calcio non mi piaceva, anzi, lo odiavo: portava mio padre lontano la domenica, e il lunedì e anche il resto della settimana. Oltre a essere il direttore di un giornale, , presentava una trasmissione su una rete locale, TeleStudio, che si chiamava , e lavorava anche come consulente per la società del Torino, si occupava di comunicazione e marketing. Ma guardarlo celebrare quel rito mi affascinava: come faceva a voler bene a quei calciatori che neanche conosceva? Quella domanda mi girava nella testa da giorni, e allora avevo deciso di chiederglielo proprio lì.

“Papà, ma tu perché vuoi bene a questi giocatori?”

“Non è che gli voglio bene. Loro sono degli eroi”.

“Allora si deve voler bene a tutti gli eroi?”

“In un certo senso sì. Però solo se sono eroi anche per te”.

Non avevo capito. Al tempo pensavo che l’eroe preferito da mio padre fosse quel cavaliere protagonista delle storie che mi leggeva la sera, Don Chisciotte. “È così che dovrebbero essere gli eroi,” mi diceva, “sognatori ”. Insieme, in suo onore, avevamo persino deciso di cambiare il nome del mio peluche preferito e chiamarlo Ronzinante. Mio padre era certamente un gran tifoso del Toro, forse il più tifoso che io abbia mai conosciuto – quando mi capitava di andare allo stadio con lui per il derby, sentivo il nostro cognome accompagnato da qualche insulto da parte della curva avversaria, e se chiedevo spiegazioni, lui rispondeva: “È per via di alcune cose che ho scritto sulla Juve, tranquilla amore. Tu preoccupati solo di non sposare un ”. Va bene, niente , papà, ma perché loro vincono e perché noi tifiamo una squadra di morti?

La salita per Superga è buia anche la mattina in una giornata di cielo azzurro. Gli alberi proteggono il sentiero dei tenaci che dimostrano devozione attraverso la fatica, il premio all’arrivo è il sole che illumina la basilica e la fa diventare bella come solo le cose che alternano la luce al buio sanno essere.

“È lì che sono morti, vero?” chiedo a mio padre indicando la punta del muraglione della basilica. Ma lui non risponde. Appoggia la corona al muretto di pietra e si gira di spalle per fissare la città dall’alto. Ogni volta che mio padre guardava giù, temevo avesse voglia di buttarsi. Non so spiegare il perché ma è come se emanasse un’energia che, quando la avvertivo, mi faceva tremare, una scossa elettrica improvvisa. Non farlo, papà, mi ripetevo nella testa, non ti lanciare nel vuoto come quei tuoi eroi. Neanche loro volevano farlo.

“Andiamo al bar?” chiedo, e lui un’altra volta non risponde. Poi, come se gli stessi tirando la giacca, si volta e mi guarda.

“Ci pensi mai a quei ragazzi? Ti chiedi mai cosa possa essergli passato per la mente un secondo prima di morire? Quando la loro carriera era alle stelle e avevano tutto ciò che da sempre sognavano?”

Una bambina che riceve una domanda non adatta a una bambina sorride di imbarazzo, oppure lascia perdere. Anche io l’avrei fatto se quella domanda non fosse arrivata da mio padre: non era insolito che mi chiedesse cose alle quali avrei potuto rispondere solo con dieci o quindici anni di più (mia madre mi diceva di ignorarlo quando si comportava...



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