E-Book, Italienisch, 307 Seiten
Reihe: Indi
Mossetti Appugrundrisse
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-3389-447-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Tornare a Napoli
E-Book, Italienisch, 307 Seiten
Reihe: Indi
ISBN: 978-88-3389-447-8
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
/1983 vive a Napoli, dove nel 2005 ha fondato Il Richiamo, un gruppo di street art contro la camorra. Antropologo economico e giornalista, collabora con Esquire, Wired, Le Grand Continent e altre testate internazionali. Per la casa editrice spagnola Akal ha pubblicato Mil máscaras,un saggio sul nazional-populismo italiano.
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PROPRIETÀ
Vista dall’alto di una terrazza, la Napoli in lockdown era stupenda. Dal polmone verde di Capodimonte, con la dimora reale che un tempo veniva sfiorata dagli aeroplani, dalle stradine in basolato vesuviano che riflettono la luce del tramonto, su cui passeggiano cani impensieriti, la città sembrava stregata, in attesa della ricomparsa di spiriti antichi. All’inizio della chiusura di tutto, dentro questa enormità che ci ha lasciato senza parole e ha mandato molti abitanti dei bassi all’inferno, ti avviluppava l’odore del mare verde, dei boschi fuori le mura, dei limoneti privati, del detersivo che arrivava da finestre aperte su pavimenti strofinati ancora più energicamente del solito, dentro case fatte di tufo poroso.
La grande serrata dei napoletani è avvenuta in una strana calma primaverile, piena di stupori e di silenzi. Di smarrimenti e di riconciliazioni. Anche quanti tra noi si erano abituati a vivere lontani da Napoli, e che durante ogni ritorno in città troppo lungo scrivevano di essere esausti, di non essere più abituati a stare in famiglia, questa volta si sono dovuti calmare e fermare. Come se fossimo stati partoriti un’altra volta. A me è successo di sentirmi così sulla terrazza di una vecchia casa di fine Ottocento nel rione di Materdei, a due passi dal centro. Ero tornato in tutta fretta da New York, dove mi trovavo a lavorare come giornalista, prima che chiudessero le frontiere per chissà quanto. Un amico mi aveva lasciato una mansarda in affitto, alla metà del prezzo che solitamente chiedeva ai turisti; me l’avrebbe data anche gratis, diceva, ma sua moglie era rimasta disoccupata e avevano un bimbo piccolo.
Mia madre insisteva che andassi da lei, ma preferivo starmene qualche giorno in quarantena. Nei miei primi pomeriggi da «ritornato» guardavo oltre il parapetto, mentre stava per tramontare e le tende erano scosse da una brezza leggera, cercando di non ossessionarmi con le incalzanti notizie dei contagi, di un mondo che cambiava sotto i nostri occhi. Mi aggiravo per tutto il giorno vestito allo stesso modo in cui mi ero addormentato finché una mattina, scendendo al piano di sotto, ho trovato la madre del mio amico che stava svuotando la lavatrice. Si è irrigidita e sedendosi, le mani subito a portare la mascherina al volto, ha abbassato la voce per formulare la funebre ipotesi: «» Era parte della Napoli che da qualche tempo stava arrotondando grazie al turismo e ora scuoteva la testa per l’incredulità, cercava freneticamente informazioni in rete, bisbigliava presagi.
Così ho voluto approfittare di una città paralizzata come mai era avvenuto nella sua storia per studiarla come non avevo mai potuto fare prima, sperando di cogliere quello che in momenti normali mi era sfuggito: l’arrivo della pandemia come opportunità per raccontare la nuova Napoli, verificando dove e in che modo fosse finita la rinascita partenopea per come l’avevamo rappresentata nel decennio scorso. Napoli, città frastornata in una condizione impensabile, era a mia disposizione, come un paziente tramortito dall’anestesia, sotto il mio sguardo. Preso dall’impazienza ho recuperato il mio motorino e mi sono infilato nei vicoli, nello stato sospeso fra la paura di chi rischia una multa salata e la speranza di essere il testimone di un cambiamento radicale, una fase di passaggio che sarebbe stata raccontata ai nipoti.
Andare in giro da solo e senza meta con i controlli della polizia era da stupidi, ma se non lo facevo che narratore ero? E allora sono salito a bordo e in un silenzio mai sentito prima ho percorso contromano la Salita Pontecorvo, oltrepassando le scale della Chiesa di San Giuseppe, in quasi completo abbandono. Era una giornata limpida, e arrivato nei pressi della questura di via Tarsia si intravedeva la collina del Vomero con la Certosa di San Martino e Castel Sant’Elmo.
Davanti a un supermercato nei pressi di piazza Dante, poche forme di vita si aggiravano come schiacciate dall’ambiente circostante, con movimenti misurati in una situazione inedita. Pur nella trascuratezza della tenuta mattutina e delle file sul marciapiede davanti ai negozi, con guanti di plastica azzurri e mascherine, il viso di Napoli mi appariva grazioso; una città dalla pelle giallognola e l’espressione spaventata, ma con l’aria libera dalle polveri e gli occhi che sprizzavano adrenalina e sgomento, insieme.
Al supermercato un uomo anziano ha aperto un cassetto del pane fresco senza guanti e ha toccato una decina di sfilatini diversi prima di decidersi: una donna l’ha sgridato; lui le ha dato della cafona, mentre i dipendenti del supermercato accorrevano subito a togliere di mezzo il pane toccato (tutti i presenti erano certi che subito dopo lo avrebbero rimesso nel cassetto). «Una cosa così non si vedeva nemmeno ai tempi del colera», ha commentato una signora in fila per la cassa, a debita distanza da chi la precedeva. Si riferiva all’epidemia del 1973, dovuta a cozze contaminate, un’onta incancellabile rimasta sulla pelle di Napoli. Ma all’epoca – si lamentava la signora – la gente in strada ci poteva stare, e comunque dopo poche settimane dalla crisi il vaccino era già pronto, con un milione di napoletani siringati in dieci giorni grazie all’aiuto dei soldati americani. Adesso il deserto provocato dalla quarantena risaltava ancora di più in una città abituata a essere un formicaio. La città che aveva faticato tanto per togliersi di dosso il contrassegno del sudiciume e della violenza, per presentarsi con abiti nuovi agli occhi della nazione, adesso si era convinta di essere stata da quella nazione infettata, e resa potenzialmente contagiosa.
Che negli ultimi dieci anni a Napoli si sia respirata un’aria diversa, è innegabile. La città della monnezza e di non faceva paura. Dal 2008 al 2016, i turisti nell’area metropolitana sono aumentati di oltre un terzo, e nel 2019 hanno superato i tre milioni e 700.000 – oltre due milioni in più rispetto al 2009. La stragrande maggioranza degli arrivi, specialmente degli stranieri, è stata intercettata inizialmente dagli alberghi tradizionali, poi è esploso il turismo nei bed & breakfast dei privati e il capoluogo campano è diventato un caso che faceva scuola. Dal 2015 al 2018 gli annunci sul Airbnb sono triplicati, superando quota 7000. Certo, nulla al confronto degli oltre 30.000 di Roma o gli oltre 17.000 di Milano, ma era la velocità del trend a impressionare. Il grosso del fenomeno è iniziato a partire dai decumani, le arterie principali del centro risalenti alla Napoli greca, per poi espandersi nei quartieri collinari e adiacenti al porto.
In una città dove i numeri sono impietosi, dove è disoccupato un napoletano su quattro, più del doppio della media nazionale, dove i beneficiari del reddito di cittadinanza sono più di quelli di Lombardia, Veneto, Piemonte, Trentino e Val d’Aosta messe insieme, nella città che perde più giovani per emigrazione tra tutti i capoluoghi italiani, con la provincia al 107° posto nella classifica per vivibilità legata all’ambiente, in questa città, in questo contesto, molti a metà degli anni Dieci si sono lasciati sedurre da una voce strabiliante: riconvertire in case vacanze vecchi appartamenti di famiglia, o comprati a prezzo stracciato nei quartieri poveri, poteva significare inventarsi uno stipendio dal nulla, o quasi. Il tutto tramite una piattaforma online, di facile accesso, che prometteva di scavalcare la burocrazia italiana.
Il fatto che mete turistiche concorrenti come Parigi, Barcellona, Nizza e Istanbul siano state sfregiate dal terrorismo in quegli stessi anni ha significato una manna dal cielo per Napoli, che riceveva in regalo una fetta sostanziosa dei viaggiatori low cost in cerca di una destinazione alternativa: così interi vicoli si sono fatti travolgere dalla febbre dell’oro, e l’industria dell’ospitalità è finita in mano a chi ha il sangue agli occhi. Dal grande proprietario che stava aspettando il momento propizio per mettere a frutto il suo portafoglio immobiliare, all’insegnante in pensione rimasta vedova con la vecchia cameretta dei figli ormai libera, si sono aperte prospettive di guadagno facile all’insegna dell’improvvisazione. Quando poi è diventato chiaro che per affrontare un flusso senza tregua di turisti bisognava anche parlare l’inglese, il francese o almeno una parvenza di spagnolo, e che per gestire più di un appartamento servivano più mani, ecco che entravano in gioco una serie di mestieri di contorno: l’intermediario che prendeva in carico il profilo online e interagiva con gli ospiti in cambio di un pagamento fisso o in percentuale; l’addetto alle pulizie preso tra le badanti dei nonni o tra le signore dei quartieri o tra i giovani immigrati, i più robusti ma i meno puntuali con gli orari; i tassisti in nero; i cuochi a domicilio per serate a tema. E poi quelli che i sociologi o gli antropologi definirebbero , ovvero abitanti del luogo che si prestano ad accompagnare un gruppo per i vicoli o il quartiere prescelto, aprendo cancelli e porte che di norma resterebbero chiusi.
Sembrano lontani i tempi cupi della faida di camorra, a metà del decennio precedente, con le reception abituate a ricevere telefonate impensierite da parte di clienti dall’Italia e dall’estero: «Non correremo rischi in città?» Lo scrittore francese Jean-Noel Schifano proclamava: «Roma è la città più ignorante... La verità è che l’unica vera città capitale di cultura che c’è in Italia è Napoli». E a tutti i napoletani non poteva...




