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E-Book, Italienisch, 224 Seiten

Mesa Il concorso


1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-8373-503-5
Verlag: La Nuova Frontiera
Format: EPUB
Kopierschutz: 0 - No protection

E-Book, Italienisch, 224 Seiten

ISBN: 978-88-8373-503-5
Verlag: La Nuova Frontiera
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Sara ha un impiego temporaneo in un ufficio pubblico e studia per un concorso che dovrebbe assicurarle stabilità e sicurezza. Dal primo istante, però, si trova immersa in un ambiente vagamente minaccioso, fatto di mansioni fumose, regole contraddittorie e direttive insensate. Cerca di adattarsi, ma la macchina burocratica inizia lentamente a soffocarla. Il disagio cresce in silenzio, tra momenti di sconforto e piccoli atti di resistenza: la scrittura, il disegno, la poesia, l'osservazione minuziosa diventano gli unici strumenti per non smarrirsi, finché un suo gesto inaspettato metterà in crisi l'intero sistema. Con una prosa incisiva e implacabile, Sara Mesa coglie magistralmente le ridicole e grottesche storture dell'apparato amministrativo, consegnandoci un romanzo ipnotico e irriverente tra le cui pagine serpeggia un dilemma: adattarsi o ribellarsi? Scegliere la tranquillità o la libertà? Sottomettersi o fuggire?

Sara Mesa, nata a Madrid nel 1976, è una pluripremiata autrice di racconti e romanzi. Ha pubblicato Cuatro por cuatro, finalista del premio Herralde, Cicatrice (Bompiani, 2017), Un incendio invisible, Cara de pan, la raccolta di racconti Mala letra e la novella Silencio administrativo. Con La Nuova Frontiera ha pubblicato i romanzi Un amore, libro dell'anno per i maggiori supplementi letterari spagnoli e finalista al Premio Strega Europeo, e La famiglia.
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Contestazione

Fu anche la mattina in cui Teresa ci annunciò, tutta misteriosa, che il comitato di saggi dell’ompa era appena stato ufficialmente designato. Stavamo andando verso il bar, io con ancora i segni visibili dell’acquazzone, i capelli disastrati, gli stivali zuppi, e lei, Teresa, che parlava quasi sussurrando, fermandosi ogni pochi metri per aggiungere informazioni con il contagocce, contentissima di tenere per sé la parte più succulenta. Se era restia a dirci i nomi, spiegò, era perché Echevarría le aveva raccomandato riservatezza finché non fossero stati rivelati in conferenza stampa, non lo capivamo? Pazienza, pazienza, diceva, mentre il Monago e Beni la braccavano per carpire qualche indizio. Io non capivo la ragione di tanta segretezza e, francamente, dei nomi non me ne poteva fregare di meno. Per me, i saggi si potevano pure chiamare Gonzalo de Berceo o Lola Flores, io non conoscevo nessuno, tantomeno in ambito politico, per me quella notizia significava soltanto la fine del letargo. Si parte, si parte, ripeteva Teresa riferendosi alla campagna di diffusione in tutti i capoluoghi di provincia e all’ormai imminente passaggio dell’rplic@ dalla modalità prova alla modalità vera, perciò era meglio se mi davo una mossa, disse indicandomi con una strizzata d’occhio, presto sarebbero arrivati reclami autentici e io li avrei gestiti come una vera professionista.

Tutto quell’entusiasmo mi fece entrare nel panico. E se le carte si fossero ribaltate al punto da rendere il lavoro ingestibile? Tanta attesa, tre mesi ormai, e alla fine non ero minimamente preparata. Sentii una fitta allo stomaco, mi venne voglia di mangiarmi il tavolo che avevo davanti, le sedie, tutto il bar.

Ah, e un’altra cosa importante, aggiunse Teresa senza percepire il mio malessere. Dovevo recarmi alla conferenza stampa e farmi passare per una giornalista. Se qualcuno mi avesse chiesto di quale testata, bastava che dicessi che mi mandava un giornale online, senza specificare il nome, ce n’erano talmente tanti! Tranquilla, chiarì, non si tratta di fingere con nessuno in particolare, il punto è riempire la sala. Quelli dell’ufficio stampa avrebbero poi caricato sul sito una foto presa dal fondo in cui si sarebbero viste soltanto le schiene dei presenti, tante schiene. Una grande affluenza è sempre sinonimo di interesse pubblico, suggerisce un forte impatto sociale, mentre le sedie vuote danno un’immagine… Devastante, completò Beni. Esatto, orribile, disse Teresa. Chiesi se quella cosa di infiltrarsi fosse un’abitudine e si misero a ridere tutti e tre. Lungo da spiegare, ma, soprattutto, noioso da ascoltare, disse il Monago.

Quando tornai alla mia scrivania, andai dritta a guardare il sito. Era tutto vero. C’erano foto di conferenze stampa precedenti con un sacco di schiene interessate alle informazioni che qualcuno forniva, in alcuni casi Echevarría e in altri persone che non mi dicevano niente ma che davano l’impressione di essere molto influenti. Le teste viste da dietro avevano un aspetto vulnerabile, mostravano ciò che i rispettivi proprietari forse non sapevano di sé stessi, come una calvizie incipiente, l’etichetta di un vestito all’infuori o l’acconciatura scombinata. Ecco la rigida schiena di Beni; quella di Teresa, più larga, con i suoi blazer scuri in gessato; quella di Salu, la segretaria di Echevarría, con i capelli radi da cattiva alimentazione e le scapole pronunciate. Era come un gioco. Cercarle e trovarle in ciascuna immagine, quasi immancabilmente. Il Monago, invece, non lo individuai in nessuna foto. Forse il compito di fare numero era più da donne.

Quello che il caposezione numero due mi aveva detto fu: vuoi un gattino? Con le braccia penzoloni e l’espressione ansiosa, in piedi davanti alla mia scrivania, attendeva una risposta normale come se la sua fosse una domanda più che normale, ma, arrivati a quel punto, qualsiasi sua domanda mi sarebbe sembrata altrettanto estemporanea. Io non l’avevo mai visto frontalmente, era come incontrare una persona nuova, uno sconosciuto. Avrà avuto tra i quaranta e i cinquant’anni e neanche una ruga. La faccia stretta, il mento appuntito e uno strano tocco malva sulle guance, irritate da ciò che aveva tutta l’aria di essere una successione di rasature fatte male. I suoi occhi si muovevano da una parte all’altra, guizzavano incessantemente, come se stesse battagliando con sé stesso. E che voce strana aveva. La cosa del gattino era il meno. Il più era vederlo lì immobile – dopo mesi ormai! – a passarmi davanti senza proferire né a né ba. Mi costò articolare una risposta. Dissi una cosa tipo: che gattino?, dov’è il gattino? Anche lui ci mise un po’ a spiegarsi. Il nostro dialogo fu lento, come se ci si stessero scaricando le pile. Le parole non erano precise. Erano piuttosto approssimative, giravano attorno a qualcosa senza nominarlo. Lui disse che aveva visto una gatta. Prese fiato e corrugò la fronte come se ci stesse pensando intensamente. La sua voce era roca, lontanissima. Disse che la gatta gironzolava per i giardini dell’edificio, che si nascondeva tra gli oleandri. Non disse oleandri, disse un’altra parola, ma io sapevo che si riferiva inequivocabilmente agli oleandri. Forse non disse nemmeno gatta. Non lo so che cosa disse. Ciò che conta è che lo capii. La gatta aveva partorito, aveva fatto molti cuccioli di diversi colori, lui era preoccupato per la loro sorte, con tutto il trambusto che c’era la mattina, macchine che entravano e uscivano senza sosta dal parcheggio e tutto quel formicaio di impiegati a frotte, una minaccia, davvero non potevo prenderne neanche uno? Io dissi che la cosa più conveniente era lasciare i gatti dove stavano, la madre li avrebbe accuditi meglio di chiunque altro. Questa risposta forse lo mise in imbarazzo. Lo vidi ritrarsi un po’, un passetto all’indietro, come in reazione a un colpo inaspettato. La sua timidezza accentuò la mia timidezza e non sapemmo più che altro dire. Sotto i miei piedi c’erano ancora residui d’acqua sporca; le sue scarpe, invece, erano completamente asciutte, con il loro abituale strato di polvere. Sul colletto del cappotto si notava una traccia di lanugine, le unghie ce le aveva lunghe e sporche di terra. È curioso che io ricordi con tanta precisione quei dettagli e con così poca la scena nell’insieme. Credo che gli sorrisi e lo ringraziai, ma non ne sono sicura. Lui alzò una mano a mo’ di saluto. La mosse come un fazzoletto che non pesava niente, svoltò nel suo corridoio ed evaporò lungo il tragitto verso il suo ufficio, come faceva ogni giorno.

Mi sedetti nell’ultima fila, studiai le schiene dei presenti. Quali erano gli intrusi, quali no? Alcuni avevano taccuini di carta, altri dei tablet. Siccome il pubblico impiego tendeva a essere antiquato – io stessa, senza andare troppo lontano, mi ero presentata con il mio quaderno a spirale –, mi sembrò un valido elemento di identificazione. Ma non era determinante, andavano considerati anche altri fattori, come l’atteggiamento. C’era chi prendeva appunti e chi ascoltava e basta, chi guardava il cellulare e chi sbadigliava. Forse quelli che bluffavano di più erano quelli che mostravano più interesse: lì per esempio c’erano Beni o Salu a manifestare la loro approvazione con brevi cenni di assenso, fingendosi neofite. Tra i simulatori, individuai quel signore anziano con il corpo a pera che era solito aggirarsi per i corridoi e avvicinarsi a chiunque per parlare. Con le mani incrociate dietro la schiena, titubante, sembrava sempre spaesato, ma ora, seduto e attentissimo, pareva perfettamente a suo agio, come se avesse finalmente trovato il suo posto nel mondo.

Riconobbi anche una donna molto elegante, vestita di nero dalla testa ai piedi, che aveva attirato la mia attenzione al bar per l’altezza e l’esilità; più che camminare era come se levitasse tra i tavoli. Ora sulle sue ginocchia era poggiato un piccolo portatile e digitava con delicatezza, tac tac tac. Che cosa digitava? Quello che stava dicendo il delegato, immagino, che era un politico che non aveva niente a che vedere con il nostro ompa – non faceva parte della piramide –, ma ricopriva un altro ruolo, quello del volto pubblico, secondo Teresa, e che era seduto lì, accanto a Echevarría, circondato da microfoni. Con grandi preamboli, parlava di partecipazione democratica e dovere amministrativo, parole che sicuramente il Monago aveva scritto per lui. Aveva la pelle verdognola, come se l’avessero avvelenato, e non sembrava affatto convinto del suo discorso. Neanche i fiori nei vasi su entrambi i lati del tavolo scoppiavano di salute: crisantemi avvizziti e gigli ai quali nessuno doveva cambiare l’acqua da giorni. La donna elegante alzava la testa per ascoltare il delegato, la abbassava poi con un rapido movimento e continuava a digitare spedita. Una gazza, pensai, è una bella gazza con una frangia blu nascosta sotto l’ala, e pensai anche: non sarò mai come lei.

Il delegato passò il testimone a una proiezione di diagrammi con scritte tipo Flussi di Azione, Obiettivi Operativi, Strategie Regionali e così via, e José Joaquín fece la sua spettacolare entrata in scena con un carrello pieno di dossier da distribuire ai presenti, oltre a una cartellina con riassunto multicolore, penna istituzionale, segnalibro e due adesivi. Il dossier era di 141 pagine in carta di alta qualità, l’aveva realizzato la ditta esterna ingaggiata a tal fine e includeva grafiche molto elaborate che non avevano nessuna attinenza con ciò di cui si stava parlando lì.

José Joaquín saltò a piè pari il signore anziano con il corpo a pera, che fece una faccia di sale,...



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