Meacci | Tutto quello che posso | E-Book | www2.sack.de
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E-Book, Italienisch, 357 Seiten

Meacci Tutto quello che posso


1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7521-765-5
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 357 Seiten

ISBN: 978-88-7521-765-5
Verlag: minimum fax
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Perché a Salisburgo, nel 1760, un Mozart di appena quattro anni si diverte a tormentare la propria bambinaia mentre il suo genio musicale cresce di pari passo con una smania irresistibile di pronunciare frasi oscene? E cosa spinge un giovanissimo e già snervato Ludwig Wittgenstein a dare ripetizioni di letteratura a un suo coetaneo particolarmente tardo che risponde al nome, non ancora inquietante, di Adolf Hitler? E cosa ci fa un impiegato comunale della Roma odierna alle prese con un saccente monaco del quindicesimo secolo? E come lavora un insegnante nell'Italia del 2020, dove l'istruzione si è aziendalizzata fino alla nausea? Questo, e molto altro, sono i racconti di Giordano Meacci: un mix straordinario di fantasia, passione civile e invenzione letteraria. Leggendoli si ride, ci si indigna e si rimane sorpresi dall'incredibile capacità affabulatoria del suo autore. Mescolando abilmente Orwell e Stefano Benni, Tutto quello che posso è una violenta e felicissima ventata di novità sul panorama della letteratura italiana.

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BRECHTDANCE


Riusciva a ricordarsi a fatica


dei momenti della sua infanzia in cui era stato al centro dell’attenzione paterna; di quando, tra i sei e i nove anni, vestito da Estragone, da ?veik, da Padre Ubu, affogato nei veli di raso di Irìna Nikolàevna Arkàdina, oppure muovendosi con disinvoltura da minigangster in pigiama gessato, si divertiva a sparare su un suo ritratto a olio a grandezza naturale con una Beretta d’ordinanza. Una pistola carica che il padre lo aiutava ad armare e puntare (“Alza il cane, , premi il grilletto... – BA BÀANG”), in una “a pannelli” da che lo stesso Carmelo Bene definì, una volta venuto a conoscenza dell’età del protagonista, “una crudeltà inammissibile”.

La fatica rugginosa dei condizionatori, in alto, vecchi di trent’anni, allagava l’ossigeno sottotetto del teatro di singhiozzi strascicati e lamentosi – enfisemi di polmoni d’acciaio che si mescolavano a vampate morbide di aria calda, al parlottare indistinguibile del pubblico di genitori: un bisbiglio sudato di telecamere digitali, risatine di compatimento, soggezione immotivata, cenni e torsioni improvvise del collo verso i vicini di fila. Da dietro la scenografia, che copriva metà palcoscenico – un fondale su ruote su cui era stata dipinta una libreria – Eugenio poteva vedere le scintille delle luci al neon del soffitto sul metallo cromato dei videofonini cellulari.

Incurante delle proteste più o meno silenziose degli spettatori, una teoria sparsa di trentenni e quarantenni in giacca o maglioncino girocollo, scollatura castigata da foulard e spille d’oro bianco, si alzava in piedi a sprazzi per puntare l’obiettivo sui visi dei figli. Come se la precisione mirata dell’inquadratura potesse incendiarne il tempo e concentrare i raggi dell’attenzione sui vestiti di scena, i tentennamenti impazienti dei minuscoli attori senza battute; e tutto in modo da permettere al di mangiarsi il presente, avvicinando i poli lontani dei parenti alla recita: che si stava consumando nonostante loro e che però ne avvertiva l’assenza – sagome sorridenti in carne e pixel – nell’aria tiepida del teatro. Quello cui Eugenio assisteva dal suo riparo di quinta era la smania comune del ricordo: la nostalgia del passato ancora inavvenuto che si rende già , prevede il futuro, riavvicina il tempo e lo spazio in un’unica ondata elettromagnetica bagnata dalla frenesia dell’orgoglio materno (o paterno: a seconda di chi, balzando in piedi come a un appello di leva muto, si assuma il compito della memoria).

Con gli occhiali appoggiati al cartone della libreria, all’altezza di un buco in una copertina verde disegnata di piatto, Eugenio rinveniva finalmente i giorni opachi della sua prima infanzia portentosa. Nella barba finta di Walter Regola, nella gualdrappa ridicola che sembrava a Clara dall’alto. Il blu coprente del velluto: e l’oro, ricamato a reticolo prunoso sulla stoffa pesante, creavano un effetto di soffocamento aggiunto; la rendevano l’incarnazione temporanea e ingigantita di un angioletto Thun con la gotta, mentre la bambina si trascinava da un punto all’altro della scena, in silenzio, compitando tra le labbra le parole di Walter a Stefano per non perdere la battuta.

Di schiena, oscillanti, gli altri bambini aspettavano il loro turno. Lorenzo, rapito dall’esplosione di luce del soffitto, era un Sagredo in pantofole alla strenua ricerca dei miracoli che gli si nascondevano nel naso: insinuava l’indice proibito fino al setto, per poi mettere alla prova il grezzo del tessuto, sulle maniche di panno, con poche pennellate di polpastrello. Marcello e Rosa si tenevano per mano, canticchiando la cover melodizzata di un vecchio successo rap di cui conoscevano soltanto il iniziale. E infatti lo ripetevano ossessivamente da quando erano state aperte le tende rosse del sipario. Lontani dagli occhiali in metallo di Eugenio, gli attori momentaneamente fuoriruolo – lui si era raccomandato: “Fate finta di non esserci, siate , finché non tocca a ...” – eseguivano versioni private degli esercizi di riscaldamento vocali. Anche Lorenzo: che tra una pietra di paragone e l’altra, tossicchiava con cura l’inizio della sua prima battuta: “Così sarai in grado di pagare il macellaio– così sarai in grado di pagare il macellaio–”

Ludovico, che interpretava il ruolo di Ludovico e si chiamava davvero Ludovico (e per questo aveva avuto non pochi problemi analitici nell’abbandonare qualsiasi tipo di immedesimazione), camminava carponi tra il lavello piazzato al centro del palco e la panca di legno su cui erano seduti Francesco e Teresa: lui, annoiato da un’attesa che avrebbe comportato sei quadri prima del suo arrivo; lei, schiacciata da una parrucca porpora (con tanto di permanente e laccetti di raso) che, nelle intenzioni, avrebbe dovuto ricordare l’acconciatura di Milva dei primi anni Ottanta; quando al Festival di Sanremo – così aveva provato a spiegarle Eugenio: Teresa ci aveva capito molto poco – “era riuscita a stregare il pubblico dell’Ariston cantando ‘La rossa’ a tutta gola”.

Davanti al lavello finto, Walter arringava Stefano dal riparo nascosto della sua barba di ovatta: un elenco a dito puntato verso un luogo preciso della platea, muovendosi come gli aveva consigliato Eugenio durante le prove.

“...Papa, cardinali, principi, scienziati, condottieri, mercanti, pescivendole e scolaretti”. Su , unendo con una linea immaginaria la punta dell’indice di Walter al suo obiettivo designato, l’attenzione del regista dietro la libreria si spostò dal bambino (in tunica nera e medaglione ballonzolante sul petto) fino alla madre di Stefano, in prima fila.

La signora Moroni si ritrovò all’improvviso lo sprezzo teatrale e inquisitore del piccolo Galileo al centro dell’inquadratura. E per questo fece scattare in ritardo il flash della macchina fotografica, cogliendo suo figlio in una smorfia incredula per un richiamo evidente alla propria madre: tirata in ballo senza preavviso dal gesto didascalico e indagatore del suo compagno di scena.

Stefano aveva tre anni più di Walter; ed era molto più alto. A Eugenio era sembrato significativo proprio questo: un bambino che spiega a un altro bambino, più alto di lui ed evidentemente infantile, la necessità splendente di verità, quando viene semplicemente esibita.

“Ti rendi conto, Walter?”, gli aveva detto Eugenio durante la lettura del copione. “La necessità di spiegare come l’intelligenza universale, se ben indirizzata – se cioè la questione estetica e l’attività etica vengono poste su un unico piano armonico – non abbia rispetto delle divisioni in classi”. Walter l’aveva guardato con la stessa espressione condiscendente di sempre. Un sorriso magro, disarmato, di quelli che non esistevano più nelle infanzie degli ultimi due decenni (almeno: Eugenio non li aveva più visti); e che lo trasformava in un uomo piccolo, allontanandolo dal bambino di sette anni che era: quasi l’esperienza che ancora aveva, della vita, gli pesasse in una smorfia incompiuta, gli raggrumasse tutte le parole di Eugenio in un’unica, impermeabile accettazione della realtà che gli veniva offerta. Il torrente balbettante e sdrucciolevole di Eugenio – divagazioni, curve tortuose tra le parole in grado di far superare, in qualche modo, tutti gli ostacoli di linguaggio attraverso ponti tibetani di sinonimi scelti con cura, corde e rampini che separavano le rive tra i loro anni con impalcature sospese, appigli linguistici di fortuna – affogava Walter di chiarimenti irrichiesti, estasi interpretative piene di allusioni simboliche.

“Tu, Walter...”, gli aveva detto Eugenio, prendendolo da parte e facendo attenzione che Stefano non lo sentisse. “Quando... quando sarai sul palco, quando farai l’elenco di tutti quelli che– che verranno beneficiati dalla scoperta di Galileo, no?” – Walter aveva mosso la testa verso sinistra, l’aveva guardato in silenzio. “Tu cerca tra il pubblico la mamma di Stefano... La signora Moroni, la conosci?” – Walter aveva fatto cenno di sì, sorridendo. “Ecco: tu puntale il dito addosso quando dici . Te ne ricorderai?... Sì... Bene. Perché– perché così ci sarà una fusione tra quello che dice Galileo e quello che dici tu, capisci?... Mi ? È uno... uno dei modi perché le parole che dici si riprendano la vita che hanno nascosto... lo capisci questo, è chiaro?”

Walter aveva capito; malgrado all’inizio Eugenio avesse avuto l’impressione che il bambino si limitatasse a seguire le labbra del suo maestro, parola dopo parola, senza comprenderle del tutto; fino a implodere in un cenno tentennante del mento in su e in giù, dopo l’ultima domanda, che però avrebbe potuto essere una semplice ratifica della fine; una cortesia. Dal sipario alzato fino alla fotografia in ritardo della signora Moroni, Eugenio aveva pregato il dio dei debutti che Walter se ne ricordasse: sarebbe stata quella – e solo quella – la conferma di tutte le speranze che Eugenio aveva riposto nel bambino.

“Io prevedo che noi non saremo ancora morti...”, stava dicendo ora Walter a Stefano – che lo guardava, intontito dalle luci e dal pubblico ai suoi piedi, in attesa della frase di attacco che gli avrebbe segnato la battuta (“O alba del mondo...”); mentre Ludovico cercava...



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