E-Book, Italienisch, 417 Seiten
Meacci Il Cinghiale che uccise Liberty Valance
1. Auflage 2016
ISBN: 978-88-7521-730-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 417 Seiten
ISBN: 978-88-7521-730-3
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
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Nell'immaginario paese di Corsignano - tra Toscana e Umbria - la vita procede come sempre. C'è gente che lavora, donne che tradiscono i propri uomini e uomini che perdono una fortuna a carte. C'è una vecchia che ricorda il giorno in cui fu abbandonata sull'altare, un avvocato canaglia, due bellissime sorelle che eccellono nell'arte della prostituzione e una bambina che rischia la morte. E c'è una comunità di cinghiali che scorrazza nei boschi circostanti. Se non fosse che uno di questi cinghiali acquista misteriosamente facoltà che trascendono la sua natura. Non solo diventa capace di elaborare pensieri degni di un essere umano, ma, esattamente come noi, diventa consapevole anche della morte. troppo umano per essere del tutto compreso dai suoi simili e troppo bestia per non essere temuto dagli umani: «il Cinghiale che uccise Liberty Valance» si ritrova all'improvviso in una terra di nessuno che da una parte lo getta nella solitudine ma dall'altra gli dà la capacità di accedere ai segreti di Corsignano, leggendo nel cuore dei suoi abitanti. Giordano Meacci scrive un romanzo bellissimo, commovente, appassionante, che racconta l'eterno mistero dei nostri sentimenti e lo fa grazie all'antico espediente di trattare le bestie come uomini e gli uomini come una tra le molte specie viventi sulla Terra.
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6.
17 LUGLIO 1999
Il vento, lo scirocco puntiglioso e affannato
che sbatàcchia le cime dei cipressi come se volesse cercare di tirargli fuori un qualche tuùng di campana a morto, quasi scavando punta per punta per sottrarre ai pennelli il calore verde di un’ottava inferiore – o di una terza maggiore – che invece il poco spessore : e intanto alleggerisce lo stridore del fruscio verso i toni nylon dello sfregamento, a ogni oscillazione; il vento, una danza a vortici che da sud-sudest spàzzola via gli aghi di pino insieme con i folletti brumosi e storditi dall’afa del primo pomeriggio, sembra spaccare l’argine del Nardile come in un riflesso di Henry Fox Talbot appena fissato dall’ultima luce: il piano verticale sull’orizzonte di sassi della proiezione, ingiallito di spighe di mais, e di farina di granturco, il paesaggio dilavato di castano e di ecru, la terracotta del sole sbiadita nell’esplosione trasparente dell’acido e nei rossi vanificati dal solfito di sodio. E poi sotto, più sotto: la cenere febbricitante dell’argento quando smette di valere per eccesso di quotidianità.
Lui, Amedeo, suda nel fresco di lana grigio; è la seconda volta che lo indossa: è il primo a sinistra, la parte dell’esagono irregolare che contiene. Lei, Agnese. Lui è il lato obliquo minimo del trapezio: sente alla spalla destra un dolore umido che gli s’allarga senzatregua; e che gli formìcola zampate di bruciore diffuso tra la scapola e la piccola chiave dello sterno, tutta una pianura muscolare che lo costringe a una tensione costante, e innaturale, le mani che cercano di incollarsi e fare presa a ogni passo sul legno di ciliegio, mentre dietro di lui Marcello lo incalza, pantaloni cachi e maglietta rossa a maniche lunghe, l’asse sguincio che si muove e cammina a passi lenti e cadenzati, il destro con il destro, il sinistro con il sinistro: il rumore ovattato delle superga incongrue di Marcello; lo squittìo di cuoio delle sue scarpe inglesi, chiuse nella scatola di cartone da almeno due anni e mezzo, dal gennaio del matrimonio della Lena, e di Ottavio: e ritrovate apposta quella mattina a fare da concerto al vestito grigio e alla cravatta bordeaux, sua moglie a chiedergli conto di tanta premura e rispetto, «che non ce l’hai avuto pe’ i’ mmi babbo bellomorto», lui a stordirsi a furia di repliche di «Bella, » a ogni attacco mormorato di lei, Andrea ad ascoltarli nell’altra stanza senza farsi vedere; questo, lui, Amedeo, lo sapeva benissimo. Un figlio troppo intelligente è una condanna da patire anno per anno fino alla vecchiaia, le delusioni inferte a galleggiare su ogni sguardo ricambiato, nessun rispetto da regalare né esperienza da concedere al tempo che si ripete su sé stesso.
«Bella non rompere i coglioni stamattina», le aveva detto lui, i lacci neri delle scarpe infiocchettati come dovesse regalarle a qualcuno dopo averle conservate, gelosamente, insieme con i filodiscozia che s’impiantavano sul bordo arrotondato dello sperone. «Stamattina niente cazzate».
Lei l’aveva smessa, incredibilmente. L’aveva lasciato davanti allo specchio grande dell’armadio; s’era portata con sé i vestiti di cotone, leggeri – le sfumature slavate del malva della camicia, il rigore crema della gonna, lunga – e se n’era andata in bagno; in silenzio. La pesantezza dei rumori l’aveva assalito come il to-toc di un coperchio che si assesta. Il legno della tavoletta che sbatteva contro le piastrelle, il sedersi di lei con stizza contenuta, lo scroscio di urina che raggiungeva l’acqua in un ribollire torbido di umori lasciati andare, lo strappo ancillare della carta igienica e il successivo tentennare della seggetta sulla ceramica bianca del water. Tutti i rumori amplificati dalla cassa di risonanza del silenzio di lei come se le orecchie di Amedeo si fossero fatte, d’improvviso, cartilagine di lupo mannaro. Una regressione alla ferinità scoperta delle angosce pregrammaticali del dolore.
Che l’aveva lasciato definitivamente solo, e perduto, a fissare senza vederla la sua sagoma in vestito grigio; il naso aquilino appoggiato sul labbro superiore – rosaceo, pallido come le palpebre acquose di un cadavere e amato per reggerne il ricordo – il rossore chiazzato della rasatura, i capelli cortissimi, una spazzola definita da cui i quarant’anni in agguato estraevano già una dose massiccia di bianco e di grigio sparso, puntiforme: il làscito della giovinezza che spiazzava il tempo a venire con una promessa di inverni parziali sottocute. Il mento divaricato dei Bui, la fossetta sulla bazza che s’era incisa come un destino mendeliano su suo nonno, e su suo padre, prima di lui: e che però aveva tralasciato colpevolmente Andrea; la penetranza perduta dei Bui che s’era resa mandibola liscia e a suo modo , pensava Amedeo tutte le volte che si dedicava al viso di suo figlio, un altro tratto nascosto tra i geni che sarebbe, probabilmente, ritornato in suo nipote, nel figlio – nella figlia – di Andrea.
Era stato lo scroscio a cascata dello sciacquone a definirgli con esattezza gli occhi, nello specchio. Il grigio striato di luce che s’era accasciato, alla fine, nella spossatezza disadorna di un lutto che non prevedeva di accettare. Sua moglie era uscita dal bagno già truccata, un alone di Hypnotic Poison Dior a spandersi a macchia d’aria.
«Si va?», gli aveva chiesto. Aiutato dalla luce curva dello specchio lui le aveva fissato il rigonfio violaceo dei seni.
«... Ti sei incantato?»
Finché lei non aveva distolto lo sguardo uscendo dal campo minato dei bordi dello specchio grande, e s’era persa di nuovo oltremondo, di là dai riflessi che lo spazio non riesce a cogliere nemmeno quando vengono . Lui l’aveva cercata, muovendosi piano verso destra per riportarla, di schiena, nell’angolo dello specchio, i capelli rossi raccolti sulla nuca, un accenno di sudore sotto l’ascella sinistra alle prese con lo chignon; la mano che arrotola i capelli e incastra l’asticella torta del fermaglio.
Vista dall’alto, la torsione laterale del serpente di persone che s’insinua, torrentizia, tra le curve della collina è un brulicare leggero e smanioso dei frammenti che la compongono e la condizionano: gran parte del paese che si muove al séguito di don Sebastiano, in punta di funerale: e appena dietro di lui il quartetto incongruo di Amedeo, Marcello dei Giacchetti, Mauro; e il vecchio Donato: ognuno uno sforzo differente sul viso, l’atteggiamento richiesto dalle attese emotive dei corsignanesi, mentre il vento riscrive i confini degli abiti — con una forza quasi sconosciuta ai pomeriggi di luglio dell’ultimo secolo, almeno stando a quello che si comincia a mormorare tra le file sparse e allungate della processione.
Un vento così, si continua a mormorare – i venticelli spersi della calunnia, il vento smargiasso che sciàbola il monte Arlecchino e arriva con la sua kilij di polvere e caldo sulle falde delle giacche, tra le pieghe di cotone delle magliette – un vento così non si vedeva (e poi « mai, mai così forte, madonnadiddìo», la voce dell’Argìla, in comunella standard con quella, più sgraziata e alta, della Norma dei Rosignoli, che conferma e rincàra) almeno almeno dal funerale della Telda dei Lucchesi, no? La Norma che risponde con un scontato del capo: un vento che allora – quanto? Venticinque? Trent’anni fa? Forse pure di più – allora era sembrato la conferma evidente e insindacabile dell’anima nera della Telda, visto anche il lavoro che faceva, giù, vìa, era quasi naturale che il vento «se la portasse all’inferno ancora prima dell’arrivo a’ ’i ccimitero...»: anche se poi – sempre – nessuna famiglia, nella contabilità fantasma dei ricordi di paese, poteva dirsi privata delle capacità lavorative della Telda dei Lucchesi, la levatrice.
«Ché quello che si tira via in un modo, si pò tirà ’vvìa anche , e’ si sa»: la brutale, – questa sì, nei modi – spiegazione dell’Argìla alla su’ figlia quando – anche lei: la prima a ricordarsi del vento, in questo pomeriggio di luglio, le raffiche dello scirocco ad alzarle il foulard azzurro e oro in poliestere – anche lei, anche l’Argìla, votata alle bravure della Telda quando la Nunzia, la su’ figliola, nell’estate del Sessantadue, all’inizio d’agosto, aveva dovuto affidarsi alle cure ambulatoriali della , il figlio dei Còlzari troppo stupido per pensarlo in una qualche forma natale, «almeno cco’ la mi’ figliola», aveva spiegato l’Argìla alla Telda, che aveva preso per mano la Nunzia e l’aveva fatta sdraiare sulla brandina da campo che la levatrice teneva accanto al letto matrimoniale, alto, i due materassi di crine poggiati a baldacchino: l’Argìla lì, ad accompagnare la figlia e a controllare che tutto fosse preciso , il caldo pressante dell’estate a imporre le medie record di quaranta gradi, mentre il corpo di Marilyn Monroe – proprio allora, in quel preciso momento chirurgico, solo a diecimila chilometri di distanza – traslocava in overdose da Brentwood alle terre sfitte (se poi si tratta di terre) dai cui confini, di solito (qualche caso chiacchierato a parte) non torna nessun viaggiatore.
Idrato di cloralio e...