E-Book, Italienisch, 324 Seiten
Reihe: Minimum classics
McCarthy Gli uomini della sua vita
1. Auflage 2024
ISBN: 978-88-3389-610-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 324 Seiten
Reihe: Minimum classics
ISBN: 978-88-3389-610-6
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Ambientato nella New York degli anni Trenta, Gli uomini della sua vita è la storia di Margaret Sargent, una donna giovane e brillante che si fa conoscere nei circoli intellettuali più bohémien della città sostenendo posizioni politiche provocatorie e conducendo una vita sessualmente disinibita, lontana anni luce dalla rigida educazione cattolica ricevuta da bambina. Questo pionieristico romanzo a episodi fotografa Margaret in sei momenti chiave della sua vita: di volta in volta la vedremo rivelare un tradimento al marito, lavorare come segretaria per un gallerista truffaldino, attraversare l'America nel vagone letto di un uomo sposato, scandalizzare gli ospiti a una cena mondana, animare la redazione di una rivista culturale e infine stendersi sul lettino dell'analista per una lunga, forse salvifica, seduta. Pubblicato originariamente nel 1942, l'esordio letterario di Mary McCarthy è il ritratto di un personaggio indimenticabile ed estremamente moderno, che a distanza di ottant'anni ci affascina ancora con l'anticonvenzionalità e la libertà delle sue idee.
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Prefazione
Mezzo secolo prima di Candace Bushnell e , c’era Mary McCarthy. La cui Margaret Sargent ha in comune con Carrie Bradshaw l’ambientazione nella New York intellettuale e dosi di narcisismo e incapacità di stare sola tali da far sembrare Rossella O’Hara una personcina per nulla capricciosa.
Mezzo secolo dopo , uscito nel 1942, Elizabeth Wurtzel scrisse , memoir di una ventenne cresciuta in una società in cui gli psicofarmaci erano il peggiore, quindi il migliore, dei romanzi di formazione possibili. Wurtzel poi ha scritto altri libri di minore successo, è scomparsa, si è iscritta a legge, ora fa l’avvocato. Ma di recente ha detto una cosa curiosa: «Da quando è uscito il mio primo libro, nel 1994, sono stati pubblicati moltissimi memoir di sì e no ventenni. Mi chiedo se qualcuno sappia che non è sempre stato così». È vero, una volta le neanche-trentenni (McCarthy aveva ventisette anni, quando pubblicò sulla rivista quello che poi sarebbe diventato il primo capitolo di ) non scrivevano autobiografie. Una volta esistevano le buone maniere e, se a poco più di vent’anni avevi un ego così ingombrante da ritenere la tua vita già abbastanza interessante da essere scritta e letta, avevi la grazia di cambiare i nomi e far finta che fosse un romanzo.
All’inizio, l’autrice neanche si cambia nome. Nel primo dei sei racconti che blandamente fingono d’essere capitoli di un libro che blandamente finge d’essere un romanzo, è una cui non serve un nome, cui basta una definizione: una Donna Con Un Segreto. Ma già pregusta di rivelarlo. Già vede se stessa nella scena dello svelamento, quando l’interlocutrice trasecolerà e dirà: «Non avrei mai pensato che». In qualunque decennio di qualunque secolo abbiano vissuto e scritto, le narratrici egoriferite hanno sempre concesso ai loro io narranti il lusso di godersi quella specifica nevrosi per cui tutto è materiale narrativo, tutto si può mettere in scena, tutto è più bello, le relazioni sbagliate e le crisi di nervi e le difficoltà della vita, se guardato dall’esterno. Ricordano un po’ quella vecchia battuta, «Non sarai mai solo con la schizofrenia», o quel passaggio di uno qualsiasi dei romanzi di Erica Jong in cui l’autrice nonché protagonista nonché io narrante diceva: «Dovevo scopare in fretta, per poi correre a casa a scrivere».
La differenza, ovviamente, si consuma nella narrativizzazione dell’ego. La differenza tra una romanziera di formazione che continuiamo a leggere settant’anni dopo e una qualunque pubblicatrice di pensierini da diario. La differenza è che, mentre parla delle proprie nevrosi, Mary McCarthy racconta un pezzo di società. E non della società di allora: della società di oggi. Ancora una volta, si tratta di cambiare i nomi, ma in un libro del ’42 c’è, per dire, la discussione sull’op portunità di pubblicare un contributo di Trotsky su una rivista di sinistra in un momento in cui l’autocritica della sinistra sconfina nell’autolesionismo.
Si tratta di cambiare i nomi degli extraparlamentari di sinistra ma non quelli delle marche d’abbigliamento: l’Uomo Con La Camicia Brooks Brothers si comporta esattamente come farebbe un indossatore di camicie da uomo d’affari nel secolo successivo. Lei lo incontra su un treno e, dopo averci fatto roba nel vagone letto, cerca di svignarsela, giacché come ogni donna emancipata non vuole complicazioni. Ma lui, come ogni uomo lagnoso, si sveglia nel meno opportuno dei momenti e dice la cosa che meno vuole sentire una donna che se ne sta andando; peggio: una donna che ha appena deciso, per non temporeggiare cercando una calza finita chissà dove, di uscire dallo scompartimento a gambe nude. Le dice che non se ne può andare. Che lui la ama. Che ha già pensato a tutto. Che divorzierà.
C’è più ventunesimo secolo nelle flebili proteste di lei che non ha alcuna intenzione di cedere ma non vuol essere così scortese da non nascondersi dietro scuse quali «Ma io sono fidanzata»; più ventunesimo secolo in quel farci sesso di nuovo perché si fa prima che a discutere, in quel sacrificarsi sperando che si sbrighi; più ventunesimo secolo in quell’uomo che due minuti dopo averla conosciuta già le stava parlando di quant’era infelice con la moglie, e in quella donna che spera lui sposti la sua estemporanea cotta su altro, lasciandola in pace e lasciandola scendere dal treno senza sentirsi in colpa: «Se solo avesse potuto convertirlo a qualcosa, se avesse potuto dire: “Rinuncia ai tuoi affari, va’ a Parigi, fatti cattolico, iscriviti al sindacato, arruolati nell’esercito, iscriviti al Partito Socialista, parti per la guerra di Spagna”». Basta che non mi ti appiccichi come una tellina, tu e il tuo essere un maschio sensibile di quelli che credevamo di volere. Più ventunesimo secolo che in moltissima narrativa di autrici viventi.
In un libro pieno di polaroid – o comunque si chiamino le istantanee nell’era della fotografia telefonica – ce n’è una che è più istantanea di una tipologia sociale delle altre. È un lungo frammento di dialogo all’inizio dell’ultimo capitolo. La protagonista è dall’analista (ve l’avevo detto che era una donna contemporanea), e lui fa l’errore (ma essendo un analista l’ha sicuramente fatto apposta, diamine) di chiederle come lo immagina quando non è nell’esercizio delle sue mansioni. Dice che sapere come lo vede può svelargli molto sulle dinamiche mentali di lei. Lo sventurato non sa (direbbe che finge di non saperlo apposta, perché è un analista, ma è chiaro che non lo sa) che ha davanti una che mica vive: scrive un saggio sui tipi umani. Una che non è dall’analista: è nell’esercizio del proprio ruolo di sociologa pop, e sta raccogliendo materiale. Una che non vede un essere umano: vede una tipologia. E la vede nei dettagli: lo sventurato le ha appena detto: «Che cosa crede che faccia per rilassarmi?» – . E perché non . Manca un niente a , o a . «, pensò lei; ecco la parola chiave. Qui il povero pedante si tradisce».
«Be’», rispose, «lei va a teatro circa sei volte all’anno. Sua moglie fa una lista degli spettacoli che valgono veramente la pena, e lei li spunta con cura uno per uno. Prendete i biglietti con molto anticipo e generalmente portate con voi anche un’altra coppia. Non ci andate mai d’impulso; non prende te mai i posti in piedi. A volte qualcuno del vostro gruppetto conosce la ragazza che fa la parte dell’ingenua, e dopo andate dietro le quinte. Fate la conoscenza di qualche attore e vi sembra un grande spasso. Una volta ogni tanto va a qualche concerto di beneficenza con sua madre o sua suocera. Le piacciono i film e non se ne perde mai uno di quelli che consiglia il New Yorker. Ogni tanto, se il gruppetto con cui sta passando la serata si sente particolarmente audace, andate in una sala da ballo. Lei non è un gran ballerino, ma invita la moglie dell’altro a fare un giro; dopodiché si mette in disparte perché la pista è troppo affollata. In estate si trasferisce a casa di sua suocera a Larchmont o a Riverside. Lì c’è una simpatica comitiva di giovani dottori, e vi pigliate in giro su chi deve entrare in acqua per primo. Probabilmente vi spruzzate un po’ d’acqua addosso, ma nessuno perde la pazienza, e poi giocate con la palla medica sulla spiaggia. A sua moglie piace il tennis, ma lei non ci si dedica per via degli occhi. Sua moglie ha un trequarti di volpe argentata e parecchie amiche carissime. Lei si prende grande cura della sua salute. Ha i piedi piccoli e ne è molto orgoglioso, e questa è la sua unica eccentricità».
Mary McCarthy lo scrive tutto di fila, così come ve l’ho copiato, e senza alcuna indicazione circa il tono della voce di lei, né descrizione delle reazioni da parte dell’analista in corso di ritratto. Io me la immagino piatta, la voce, col tono annoiato di chi giochi a vedere in trasparenza gli altri esseri umani da troppo tempo, e l’indifferenza di una che sta solo esponendo una cartella clinica, niente di personale. Lui, me lo immagino fare smorfie, cercare di tenere sotto controllo la stizza che ti prende quando ti fanno tana, specie se nel gioco di ruoli sei tu quello che dovrebbe aver capito tutto dell’altra. Me lo vedo con la tensione muscolare di chi per dovere professionale deve restare comunque impassibile, anche quando si rende conto che basta la scelta di un sostantivo per svelare dove va in vacanza, e a quel punto è praticamente impossibile darsi un tono, e si sa che darsi un tono è tutto.
L’analista reagisce con un compostissimo «Che cosa la rende così sicura di tutto questo?», e a quel punto segue una sfilza di pennellate che dovrebbero riportare la protagonista in una posizione di debolezza: piange, non ha un fazzoletto, racconta un sogno in cui è in un ristorante e si sente elegantissima ma poi s’accorge d’essere in mutande. Ma è troppo tardi. La polaroid era troppo a fuoco. La fatica e lo scorno di fare da analista a una che ti capisce meglio di quanto tu capisca lei sono ormai troppo evidenti. Essere così esatte nel tratteggiare la persona che si ha di fronte, deumanizzarla fino a renderla non più un essere umano ma un tipo umano, è una mansione chirurgica che condanna a una certa solitudine: quella che viene dalla disparità di mezzi. Non si possono, subito dopo, abbassare gli occhi e dire: «Non volevo», si...