Matteoni | Tundra e Peive | E-Book | www2.sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 248 Seiten

Reihe: Narrativa

Matteoni Tundra e Peive


1. Auflage 2023
ISBN: 979-12-5480-013-3
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 248 Seiten

Reihe: Narrativa

ISBN: 979-12-5480-013-3
Verlag: Nottetempo
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Le piante della città non sono più le stesse, non offrono riparo e sollievo ma si stanno inesorabilmente mutando in ibridi pronti a soffocare ogni esistenza. Soltanto poche creature se ne accorgono: Talia, una ragazza dai sogni turbati, Bess, una donna che ricorda troppo, e infine il folletto Tundra con Peive, il suo gatto. Per salvare gli altri umani, indifferenti e ciechi di fronte al pericolo, intraprendono un viaggio nel tempo e nello spazio, in vite e luoghi remoti, alla ricerca della causa del male che affligge la natura. Gli strani compagni seguono le tracce dei loro affetti perduti che ora si ripresentano sotto sembianti traumatici come un ragazzo lepre, un uomo dall'ombra lupesca, uno stregone che avvelena gli alberi (è la causa del male delle piante? O è solo una manifestazione della follia degli uomini?). Su di loro vegliano beffarde due sorelle del destino, che in questo racconto di trasformazioni entrano ed escono dalle proprie pelli d'orso. Con Tundra e Peive, prima opera di narrativa della collana Terra, Francesca Matteoni ci conduce in un mondo naturale ferito dall'umano. Un'avventura rischiosa in cui servirà tutto l'amore possibile, per ritrovare un'armonia tra i viventi.

Francesca Matteoni è autrice di libri di poesia, saggi e opere narrative, fra cui Ciò che il mondo separa (Marcos y Marcos, 2021) e Io sarò il rovo. Fiabe di un mondo silenzioso (effequ, 2021). Progetta tarocchi e oracoli per il mercato internazionale. Collabora con diverse riviste scrivendo di magia, letteratura, ecologia e folklore.
Matteoni Tundra e Peive jetzt bestellen!

Autoren/Hrsg.


Weitere Infos & Material



Il gatto


Così ripeteva la voce nei sogni di Talia. Frusciava. Un albero che si flette seminando vento. E il vento chiedeva di entrare nella notte della ragazzina, che era più vasta dei suoi giorni. Li avvolgeva in una ragnatela, cullando la sua preda. Nella notte una ragazzina era molto altro. Un insetto tutto preso dal volo. Sfugge al ragno invisibile, ronza sulle rovine, lontano dalla città, verso l’acqua. Una conchiglia che si spezza nelle alghe. Un corpo intento a levarsi la pelle, mostrando l’animale. Un mucchio d’ossa infantili che ardono senza bruciare. Occhi.

“Che hai sentito nel buio?” le chiedevano le zie. “Lamentele? Spiriti?” la incalzava zia Rosa con quel suo timbro acuto, la testa una fiamma di capelli rossi. Zia Dori scuoteva le spalle, sistemava una forcina nella chioma ingrigita: “Passeranno. Passano sempre. Alla fine anche gli spiriti più cocciuti si arrendono”. Strane, certo, erano strane. Forse quei sogni e certe abitudini quotidiane la ragazzina li aveva ereditati da loro. Raccoglieva i corpi degli animali morti che poi seppelliva lontano dagli alberi mutanti – non voleva che straziassero quelle povere bestie. Quasi tutti gli alberi della città si stavano facendo pericolosi. Alcuni mugolavano, sporgevano uncini di ferro vecchio al posto delle gemme. Altri vomitavano una bile gialla dove le radici si immergevano nel terreno. Alberi demone, pieni di collera. Le persone non li vedevano, avvolte in una nube da cui scendevano lunghe piogge malsane, acqua color piombo che non purificava, non avvicinava il cielo nel fiato sottile di un genitore. Eppure era quello il momento perfetto per uscire. Talia vagava alla ricerca di piccole vite. Di coloro che erano state piccole vite.

“Non importa che tu le cerchi, ti troveranno loro, prima o poi,” commentava zia Dori.

“Loro chi?” chiedeva Talia.

“Le bestie. E il che le conosce,” tagliava corto l’anziana, e Talia sapeva che insistere era inutile. , avevano detto i sogni.

“Carne di palude, diciamo noi,” sibilava zia Rosa.

Anche quella notte le voci tornarono. La rinchiusero in un sogno cieco, interrotto da un raspare costante al portone della casa. Era il primo giorno d’inverno. A Talia piaceva l’inverno dei libri: il fuoco crepitante nelle stufe, cappelli di lana, neve, ma non conosceva nessuna di queste cose. Sperava che tornassero, se mai erano esistite. Indossò dei jeans e la sua felpa azzurra con il cappuccio, sistemò i capelli neri in una coda stizzosa, scese le scale. Le altre stanze erano intatte: non un abito sulle sedie, non un cuscino fuori posto e nemmeno un biglietto di spiegazioni. Afferrò lo zaino dall’attaccapanni e aprì la porta d’ingresso. Un gatto bianco con la coda e le orecchie arancioni la fissava dai gradini. Non appena Talia ricambiò il suo sguardo, il felino si stirò e scese verso la strada. Poi si voltò, in attesa.

“Mi dai ordini?” chiese la ragazza incamminandosi dietro di lui nell’aria calda e deserta, fra sospiri e crepe che si aprivano nei tronchi, lasciando intravedere strisce di pellame. Si fermarono sotto una betulla dove giaceva un altro gatto grosso e tigrato. Una riga di sangue gli colava dalla testa incrostandosi nel pelo. Talia si chinò per accarezzarlo. Questo era il suo lavoro, dopotutto. Scoiattoli, topi, passerotti, ghiri, una volta una ghiandaia. Poteva contare i suoi giorni in quel pelo intirizzito, nel piumaggio freddo, nelle dentature lievemente scoperte dei felini.

“Era un tuo amico? Come facevi a sapere che mi prendo cura di—” , avrebbe voluto concludere, ma occhi e bocca le si spalancarono di colpo: pochi metri sopra il gatto bianco, un bambino minuscolo spenzolava da un ramo fischiettando un motivetto a testa in giù.

“Alla buonora!” esclamò l’esserino, saltando con una capriola a cavalcioni del gatto. “Vedo che hai trovato compagnia. Bravo, mica posso trasportarlo da solo, il vecchio Kamelot!”

“Kamelot sarebbe il gatto tigrato?” chiese Talia, vincendo la sorpresa. Aveva sempre sperato di incontrare una creatura magica – una fata, un fauno, un folletto… come quello che le stava davanti: occhi irriverenti, capelli color stoppa con qualche ciocca blu a coprire gli occhi. Lo guardò bene: era esile e nervoso, portava stivali di pelo grigio topo, una casacca impolverata su pantaloni di toppe arlecchinesche e, allacciata in vita, una minuscola borsa di pelle incisa di simboli. Al braccio esibiva una serie di braccialetti di ogni materiale.

“Sì, sì, certo che lo conosco. Li conosco tutti. Siamo amici dal giorno che è venuto al mondo e devo dirti che tutto sommato ha avuto una lunga vita. Quanti anni hai tu?”

“Dodici,” rispose la ragazza.

“E non sei a scuola?”

“Sono iniziate le vacanze, oggi”.

“Ah be’, io non ci vado mai a scuola! Comunque lui ne aveva diciotto… centodiciotto… centottantuno. Bah, non ha importanza! Bisogna portarlo nella Radura, ci aiuti? Oh, a proposito! Lui, naturalmente, è Peive, ma quanti anni abbia è ormai un mistero. L’età, d’altro canto, è cosa sopravvalutata,” disse indicando il gatto bianco. “E io sono Tundra, il miglior folletto che tu abbia mai incontrato!”

“Nonché l’unico,” rispose Talia, stordita dal fiume di parole e movimenti dell’esserino.

“Piacere, io mi chiamo Talia”. Così dicendo prese il povero Kamelot e lo depose in una borsa di stoffa che aveva estratto dallo zaino.

“Ben fatto, Talia,” le sorrise il bambino antico. “Ora in marcia! E facciamo attenzione perché la peste degli alberi è al culmine. Tra poco nessuno di loro sarà più al sicuro”.

Talia lo vide: da un taglio nel tronco della betulla fluiva una poltiglia violacea; qualcosa o qualcuno si agitava rabbioso sotto la terra. Nelle siepi si affacciavano spine di plastica; negli steli dell’erba si dimenavano filamenti di nylon che strozzavano i fiori resistenti alla stagione, facendoli a pezzi. Alcune piante avevano incorporato i rifiuti accumulati sotto di loro, li avevano trasformati in musi grifagni, occhi gonfi di bestie decrepite, senza volto. Le cortecce si scrostavano in muscoli tesi e pulsanti, rivelando corpi alieni sotto una pellicola sudicia di linfa. Iridi dardeggianti. Era stato così anche il giorno prima? O la settimana, il mese? Talia non riusciva a ricordare. Enumerava i suoi molti animali morti, quasi sospesi in un universo di vegetazione muta o assente. Era così, si chiese all’improvviso, che credevano di salvarsi le altre persone? Dimenticando, nel momento stesso in cui avanzavano per le vie, ciò che rifluiva attorno?

Peive e Tundra guidavano la piccola processione verso la misteriosa Radura. Le vie apparivano vuote. Forse era solo fortuna, pensò la ragazza. Mentre camminavano l’esserino suonava su un flauto rudimentale lo stesso motivo che fischiava dondolandosi dal ramo.

“Che cos’è?” chiese Talia.

“Che ignoranza! Sono i Ramones! . È punk, hai presente? Creste alte mezzo metro e ribellione,” rispose il folletto stizzito.

“Non credevo che i folletti ascoltassero musica punk”.

“E cosa dovremmo ascoltare, MadamaDorè? Dopotutto il punk è roba da emarginati, e noi rientriamo a pieno titolo nella categoria. Comunque ascolto tutto quel che passa il convento”.

“Il convento?”

“È un modo di dire: quando qualcuno passa dal parco con le cuffie, gli auricolari, be’, io lo seguo da vicino. A volte gli salto pure in testa e quello nemmeno se ne accorge! Potrei farci le capriole, là sopra,” disse Tundra ridendo.

“Ma come, non ti vedono?”

“Non sono invisibile. Gli umani però non sono abituati a riconoscermi,” rispose lui e riprese a suonare.

Superarono caseggiati e orti dismessi, capanne di legno e ruggine; svoltarono in una stradicciola sterrata che costeggiava il parco a sud della città, finché non si arrestarono davanti a un’apertura nella siepe di bosso da cui si intravedeva la rete sbrindellata.

“Ci siamo,” disse.

“Come farò ad attraversare?” esclamò Talia, osservando che il passaggio era grande appena per il gatto e il suo cavaliere.

“Non ci pensare,” le rispose Tundra distrattamente. “Riesci a metterti a quattro zampe? Fallo e andrà tutto bene. Chiudi gli occhi”.

La cura dei morti


La ragazza si accovacciò. Le foglie sciamavano forte, come se una foresta intera fosse pronta ad accoglierla. O era il ricordo di una foresta? Una foresta in cui era stata, un mondo che non poteva ricordare, che non esisteva, perché era tutta un’illusione e lei presto si sarebbe svegliata nel suo solito letto, capendo di aver sognato. Ma le foglie e gli sterpi la sfioravano, fatti di vento e oscurità, la chiamavano con un nome a lei sconosciuto e lei si perdeva… finché in fondo alla sua visione, sotto le palpebre, apparve una luce bianca. “Ci sei!” esclamò Tundra. Peive le leccava il naso. Talia aveva strisciato per poco più di un metro, oppure aveva attraversato il tempo. Si guardò intorno. La Radura era uno spazio raccolto, percorso da radici che ogni tanto emergevano dal terreno e circondato da una varietà di alberi – faggi, betulle, qualche castagno, un ontano e perfino, accanto a una polla d’acqua senza affluenti, un tasso solitario e alcuni noccioli contorti. Alla loro ombra salivano menta,...



Ihre Fragen, Wünsche oder Anmerkungen
Vorname*
Nachname*
Ihre E-Mail-Adresse*
Kundennr.
Ihre Nachricht*
Lediglich mit * gekennzeichnete Felder sind Pflichtfelder.
Wenn Sie die im Kontaktformular eingegebenen Daten durch Klick auf den nachfolgenden Button übersenden, erklären Sie sich damit einverstanden, dass wir Ihr Angaben für die Beantwortung Ihrer Anfrage verwenden. Selbstverständlich werden Ihre Daten vertraulich behandelt und nicht an Dritte weitergegeben. Sie können der Verwendung Ihrer Daten jederzeit widersprechen. Das Datenhandling bei Sack Fachmedien erklären wir Ihnen in unserer Datenschutzerklärung.