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Marchesi / Noury | Genocidi | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 128 Seiten

Reihe: Idee

Marchesi / Noury Genocidi


1. Auflage 2025
ISBN: 979-12-5979-378-2
Verlag: People
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 128 Seiten

Reihe: Idee

ISBN: 979-12-5979-378-2
Verlag: People
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



La parola 'genocidio' è tornata - ahinoi - a occupare il dibattito pubblico. A trent'anni dal genocidio in Bosnia assistiamo a una rinnovata attualità del crimine, che ci impone l'uso del plurale. In questo libro Antonio Marchesi e Riccardo Noury ripercorrono dal punto di vista storico e giuridico norme e fatti, mettendo tra l'altro in luce i limiti della disciplina attuale. Con approccio rigoroso ma allo stesso tempo divulgativo, i due autori 'desacralizzano' il concetto stesso di genocidio, mantenendo saldo il rispetto del diritto, delle vittime e dei sopravvissuti.

Antonio Marchesi insegna Diritto internazionale e Diritti umani e giustizia penale presso l'Università di Teramo ed è Direttore del Master in Peace Studies della American University of Rome. È iscritto alla sezione italiana di Amnesty International dal 1977 e ne è stato presidente dal 1990 al 1994 e dal 2013 al 2019. È autore di numerosi libri e contributi pubblicati in volumi collettanei, articoli per riviste scientifiche e commenti apparsi su quotidiani e periodici. Riccardo Noury è dal 2003 il portavoce di Amnesty International Italia, di cui fa parte dal 1980. Per People ha pubblicato La stessa lotta, la stessa ragione (2020) e, con Antonio Marchesi, Giustizia senza confini. Crimini internazionali e lotta all'impunità (2023). Dal 2003 è responsabile dell'edizione italiana del Rapporto annuale di Amnesty International. Scrive, attraverso i suoi blog, sul Corriere della Sera, il Fatto quotidiano, Focus on Africa, Articolo 21 e Pressenza. Collabora al quotidiano Domani.
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1. Genocidi ante litteram. La Shoah

Il termine “genocidio”

Il termine “genocidio” è stato utilizzato per la prima volta, com’è noto, al fine di qualificare condotte finalizzate alla distruzione di un gruppo umano protetto – concetto che avremo modo di approfondire – dal giurista polacco (ma nato nell’attuale Bielorussia) Raphael Lemkin, nella sua monumentale opera del 1944 intitolata Axis Rule in Occupied Europe. Laws of Occupation, Analysis of Government, Proposals for Redress. Qualche anno dopo – non molti, in verità – l’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il cui Statuto (la Carta delle Nazioni Unite) era stato nel frattempo approvato dalla Conferenza di San Francisco, ha adottato e aperto alla firma e alla ratifica degli Stati la Convenzione sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio, che contiene la definizione più autorevole e per certi versi “ufficiale” di genocidio, sulla quale ci soffermeremo in seguito.

Il fatto che prima del 1944 il termine “genocidio” non fosse stato ancora coniato non significa, evidentemente, che di eventi corrispondenti alla nozione di genocidio non ne fossero avvenuti in precedenza. Descrivere tali accadimenti storici come genocidi, sia pure ante litteram, non è sbagliato. Altra cosa sarebbe l’applicazione retroattiva, ai genocidi ante litteram, degli effetti giuridici derivanti dalle norme introdotte con la Convenzione del 1948.

Nelle pagine che seguono, non avendo alcuna pretesa di esaustività e non potendo, fra l’altro, correre indietro nei secoli per raccontare le conseguenze di tutte le “scoperte geografiche” e delle successive azioni dei colonizzatori, ricorderemo brevemente alcuni dei genocidi avvenuti prima della nascita del termine in questione. Una parte di questi, peraltro, è stata riconosciuta come tale attraverso atti successivi, anche se di natura politica o normativa (ammissioni di responsabilità, leggi statali, eccetera…) e non giurisdizionale.

Il fatto che sia trascorso, soprattutto in alcuni casi, molto tempo dalle circostanze narrate, mentre ne attenua per taluni la memoria, non ne mitiga ovviamente la gravità. Del resto, i famigliari delle vittime o semplicemente le generazioni eredi – cioè quelle persone appartenenti al gruppo nei confronti del quale sono state messe in atto azioni finalizzate alla sua distruzione – continuano a lottare affinché sia riconosciuto che un genocidio c’è stato. Il passato, in questi casi, non può essere dato per morto e sepolto.

Il genocidio degli hazara

Il primo genocidio di cui vogliamo dare conto è quello degli hazara, musulmani sciiti cittadini di un Paese, l’Afghanistan, prevalentemente sunnita. Gli hazara hanno una propria lingua, l’hazaragi, che è una variante del persiano. Nelle manifestazioni che dal 2021 hanno segnato i successivi anniversari del ritorno al potere in Afghanistan dei talebani, di etnia pashtun, la comunità hazara – prima ancora di denunciare quanto sta accadendo in questi anni – non ha mancato di ricordare la campagna genocidaria subita alla fine del xix secolo, epoca in cui il gruppo, anziché essere una minoranza oppressa com’è ai giorni nostri, rappresentava quasi i due terzi della popolazione del Paese.

Era pashtun, come i talebani, Abdur Rahman Khan, l’uomo forte al comando quando, secondo le stime disponibili, furono eliminate tra un minimo di cinque e un massimo di otto milioni di persone, oltre metà della popolazione degli appartenenti al gruppo. Abdur Rahman dichiarò e condusse, tra il 1890 e il 1893, un jihad (o guerra santa) contro gli hazara, mobilitando non solo le forze governative ma anche diverse milizie tribali, a cui promise in cambio terre e schiavi. Per sostenere il suo sforzo bellico coinvolgendo altri gruppi, egli enfatizzò la natura religiosa dello scontro. A partire dal 1893, con l’occupazione di Hazarajat, principale centro abitato degli hazara, fu creato un sistema di persecuzione comprensivo dell’imposizione di tributi economici non dovuti, della requisizione di terreni e di raccolti, delle razzie nelle case e della riduzione in schiavitù (fino al 1923 legale in Afghanistan) di membri della comunità hazara.

Dopo la guerra del 1890-1893 molti hazara fuggirono in India o in Pakistan e i loro eredi vivono attualmente nella città pakistana di Quetta o nelle province orientali dell’Iran. Quelli che tuttora risiedono in Afghanistan occupano la parte più bassa della scala sociale e sono tendenzialmente impegnati in lavori poco qualificati e vittime di diverse forme di discriminazione.

Non sono mancate, neppure in tempi recenti, le esplosioni di violenza. L’8 agosto 1998 migliaia di hazara della città di Mazar-i Sharif sono stati trucidati, le donne dopo essere state stuprate. In qualità di “guida suprema” vi era un altro pashtun, il mullah Mohammed Omar.

Il genocidio degli herero e dei nama

Il genocidio commesso ai danni degli herero e dei nama all’inizio del Novecento (cioè pochi anni dopo quello degli hazara in Afghanistan) non chiama in causa leader locali, bensì la Germania, cui alla Conferenza internazionale di Berlino del 1884 furono assegnati alcuni territori africani, tra i quali la cosiddetta Africa sudoccidentale tedesca, corrispondente all’attuale Namibia. Il genocidio fu la conseguenza diretta del progetto coloniale d’insediamento, agevolato dalle teorie razziste all’epoca ampiamente diffuse in Europa. Tale progetto prevedeva la riduzione in schiavitù delle popolazioni native, ritenute primitive e inferiori, e l’impossessamento dei loro terreni e del loro bestiame.

A essere chiamati individualmente in causa furono Guglielmo ii, kaiser del secondo Reich, e il generale Lothar von Trotha, nominato comandante supremo dell’Africa sudoccidentale tedesca. Questi, nel 1904, trasse i frutti delle continue provocazioni dei coloni per indurre alla resistenza violenta i nativi. Il giorno chiave di quell’anno fu l’11 agosto, data a partire dalla quale venne applicata la strategia “resa o fame”, adoperata anche nei conflitti contemporanei. Gli attacchi dell’esercito tedesco costrinsero gli herero a fuggire attraverso l’unico varco libero, il deserto del Kalahari. Dove non colpirono le armi – l’ordine del generale von Trotha era di uccidere tutti gli herero maschi, che fossero armati o disarmati – lo fecero la fame e la sete (e i pozzi avvelenati). I sopravvissuti vennero trasferiti in vari campi di concentramento, tra cui i due costruiti presso il porto di Swakopmund e sull’Isola di Shark, dove nei cinque anni successivi a migliaia morirono di fatica e di fame (e, in alcuni casi, in seguito a esperimenti medici). Si stima che persero la vita complessivamente 65mila herero, circa tre quarti della popolazione.

Un trattamento analogo venne riservato a un altro gruppo nativo namibiano, i nama, che ebbero il torto di ribellarsi anch’essi, nel 1905, ai colonizzatori e furono sommariamente uccisi o rinchiusi negli stessi campi di concentramento degli herero. Si stima che quell’anno morirono 10mila nama, circa metà della popolazione.

Nel 1999 nel deserto del Kalahari sono state rinvenute delle fosse comuni, in cui si ritiene fossero state sepolte le vittime del genocidio del 1904. Il governo namibiano non ha tuttavia accolto la richiesta degli herero di riconoscere ufficialmente il sito. Nel 2004 il governo tedesco ha finalmente riconosciuto le proprie responsabilità per il genocidio ma non ha presentato scuse ufficiali né ha disposto misure di riparazione economica.

Il Metz Yeghérn, genocidio degli armeni

Il più conosciuto fra i genocidi dell’inizio del xx secolo, pietra di paragone con quelli contemporanei, è quello degli armeni dell’impero ottomano. In lingua armena, Metz Yeghérn (il ‘Grande Male’).

Accadde durante la Prima guerra mondiale, sotto il regime nazionalista dei Giovani turchi, i cui leader – Djemal, Enver e Talaat – erano “consigliati” da consulenti tedeschi in nome della loro alleanza bellica. Gli armeni, di religione cristiana e presenti da due millenni nel Paese, erano considerati il principale ostacolo alla “turchizzazione” rapida e forzata di tutto l’impero e vennero accusati pretestuosamente di collusione con il nemico russo. A compiere materialmente il genocidio fu un gruppo paramilitare legato a doppio filo con il governo, noto come Organizzazione Speciale.

Anche in questo caso vi fu una data d’inizio: la notte del 24 aprile 1915 le élite armene di Costantinopoli diventarono le prime vittime del piano genocidario. Seguirono i coscritti armeni, rimossi dall’esercito e destinati ai lavori forzati per costruire la tratta locale della ferrovia Berlino-Baghdad, e poi tutto il resto della popolazione, trasferita con la forza nel deserto di Deir el-Zor, dando vita a quelle che sono oggi note come “marce della morte”. Anche in quel caso, terreni e proprietà diventarono oggetto di confisca. Si stima che le vittime, considerati anche gli anni a seguire, arrivarono fino a un milione e mezzo.

Un sistema, assai innovativo, di accertamento e punizione dei “crimini contro l’umanità e la civiltà” commessi nel contesto del Metz Yeghérn fu previsto dal Trattato di Sévres del 1920, stretto fra le potenze alleate e la Turchia, la cui Parte vii anticipava per molti versi gli sviluppi che si ebbero solo dopo la Seconda guerra mondiale. Le disposizioni in questione, purtroppo, non furono attuate, non essendo state riprese nel Trattato di Losanna del 1923 che sostituì...



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