Mameli | Pedrito | E-Book | sack.de
E-Book

E-Book, Italienisch, 179 Seiten

Reihe: Testimoni

Mameli Pedrito

Lamette a Caracas, fiori a Orgosolo
1. Auflage 2025
ISBN: 978-88-6429-405-6
Verlag: Il Maestrale
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

Lamette a Caracas, fiori a Orgosolo

E-Book, Italienisch, 179 Seiten

Reihe: Testimoni

ISBN: 978-88-6429-405-6
Verlag: Il Maestrale
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Pietro/Perdu di Sardegna diventa Pedrito in Venezuela dove arriva nel 1958, durante il governo del generale Pérez Jiménez. Dal sabateri che era già in paese si fa zapatero: provetto calzolaio nella fabbrica di scarpe del siciliano Mormino. Sono anni di emigrazione e di boom economico in Venezuela ma pure tempi di pesante dittatura, si vive nel terrore, una lametta basta a scannare con noncuranza i dissidenti. Pedrito Demontis viene arrestato in una notte di coprifuoco, deve essere fucilato con altri 'ribelli', ma per la spietata polizia venezuelana le cose non andranno come previsto. Intanto anche il fratello di Pietro rimasto in Sardegna subisce la minaccia dei fucili: quelli dei banditi che nel 1953 rapiscono Davide Capra, l'ingegnere presso la cui ditta Lillino Demontis fa l'operaio nei lavori della Statale Orientale Sarda. La vicenda del sequestro Capra avrà un esito drammatico, con strascico di misteri da colletti bianchi e appalti stradali. A Orgosolo, nel bosco della tragedia come sulle salme dell'ostaggio e del giovane fuorilegge Emiliano Succu, si spargono fiori. Di gente in gente viaggiano i fratelli Demontis, abituati all'altro, al diverso nella casa-locanda di mamma Luisicca, dove aveva soggiornato il linguista Max Leopold Wagner, in una delle sue inchieste di 'cose e parole', con l'esempio di babbo Celestrino (sì, con la erre in mezzo) tuttofare, da macellaio all'avanguardia a poeta estemporaneo. Di gente in gente procede Mameli con passo da autentico narratore, e di voce in voce, di stile in stile, viaggia il lettore, vivendo gioie e tragedie vecchie e nuove di un mondo che non ha più frontiere.

GIACOMO MAMELI (Perdasdefogu 1941), giornalista, scrittore. Laureato in Sociologia, alla Scuola superiore di giornalismo di Urbino ha discusso la tesi (Quattro paesi, un'isola) con Paolo Fabbri e Carlo Bo. È direttore artistico del festival letterario SetteSere, SettePiazze, SetteLibri a Perdasdefogu. Fra i suoi libri: La ghianda è una ciliegia (Cuec 2006; Il Maestrale 2020), Sardo sono (Cuec 2012), Il forno e la sirena (Cuec 2013), Le ragazze sono partite (Cuec 2015; Il Maestrale 2020). Per Il Maestrale ha già pubblicato due libri di successo La chiave dello zucchero (2019) e Hotel Nord America (2020).
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Episodio 1
Sigarette e coccodrilli


Pedrito (con la fisarmonica) e alcuni compagni di viaggio durante una tappa nel porto di Barcellona (foto: Famiglia Pietro Demontis - Perdasdefogu).

– Miguel, abre el portal, traigo otros diez revoltosos adecos. (Miguel, apri il cancello, sto portando altri dieci .)

– No, Guillermo, no queremos a nadie! Aquí no cabe ni una mosca! Esta prisión es un infierno, somos más de doscientos y sólo hay una letrina, olemos a orina y mierda! Y hoy ni nos han dado nada de comer. (Non portare nessuno, Guillermo, qui non ci sta neanche una mosca, questo cortile-prigione è un inferno, siamo più di duecento e c’è una sola latrina, puzziamo di piscio e di merda, oggi neanche da mangiare ci hanno dato.)

– Te he ordenado que abras o te mato! Eres un subordinado, obedece! (Ti ho ordinato di aprire o ti ammazzo, sei un sottoposto, ubbidisci.)

– Tú eres un sargento loco, no voy a abrir, busca sitio en otras cárceles. Aquí, te lo grito, no hay más sitio. Esta cancilla, con Miguel, permanece cerrada. Para que entraran a los últimos detenidos, el comandante de la Seguridad cargó a una veintena de adecos y viajaron por cientos de kilómetros ¿Y sabes cómo han muerto? Unos tirados al lago de Valencia, y otros al Orinoco, ¿entiendes? Eran chicos, todos devorados por los cocodrilos. (Tu sei un sergente pazzo, non apro, cerca posto nelle altre galere, qui, te lo urlo, posto non ce n’è. Questo cancello, con Miguel, resta chiuso. Per far entrare gli ultimi arrestati, il comandante della Seguridad ha caricato una ventina di adecos su un autocarro che ha fatto centinaia di chilometri. Sai che morte hanno fatto? Alcuni buttati nel lago di Valencia, gli altri finiti nell’Orinoco, capito? Erano ragazzi, tutti in pasto ai coccodrilli.)

Non dimenticherò mai, campassi cent’anni, questo botta e risposta - che per le urla ne cascava il mondo - tra Miguel el guardián e il sergente Guillermo. Sentendo e comprendendo anche poco quelle parole, in una lingua sconosciuta ma familiare, ero sì vivo, ma a sangue gelato. Mi passavano davanti agli occhi i volti disperati di uomini lanciati come sacchi di patate nel fiume dei piranha e dei coccodrilli chiamati ma anche nel lago di Valencia dell’Aragua o nei tanti corsi d’acqua sotto la Cordigliera.

Anche un vecchio avevano preso, Eduardo di nome, a barba lunga, “comunista de mierda” gli sputava in faccia Guillermo armato come il boia-capo di uno squadrone della morte. Appena sbattuto sul cassone, Guillermo lo solleva e lo massacra con tre colpi di nerbo di bue.

Eravamo in dieci, scaraventati su un , un camioncino nero e malandato. Ero l’unico non venezuelano, forse il più giovane, il più piccolo di statura.

Vicente sviene sul cassone sporco di tutto, sembra morto, io non reggo, solo i miei pantaloni potrebbero raccontare cosa mi è successo. Gli altri tremano, singhiozzano.

Paulo, che avevo incontrato nel barrio dei panaderos, provoca Guillermo fischiettando una canzone su Simón Bolívar, il Gesù Cristo laico del Sudamerica.

Appoggiato alla caba, come se nulla stesse succedendo, non protestava come gli altri desesperados Jorge, giovane professore universitario, sposato da una settimana, implora: Por qué? Por qué? Pronunciava il nome della moglie, Miranda, e giù un singhiozzo, Miranda, e tornano singhiozzo e lacrime.

Guillermo, occhi di fuoco e la carabina sempre puntata contro di noi, urla: Estoy disparando ahora. Jorge, davanti a lui, bianco come un cadavere, a ripetere: Por qué? Por qué?

Altri due arrestati rianimano Vicente. Dopo qualche minuto riapre gli occhi, capisce che guaio ha combinato per le sue sigarette, non ha il coraggio di guardarmi mentre cerco ancora invano di ripulirmi. Puzzavo più di una stalla.

Acqua non ce n’era nel cortile diventato lager. Né da bere, né da lavarsi. Una sola latrina per centinaia di dannati. Era l’inferno di un Paese con le dittature a lustri o ad anni alterni e che duravano da tanto. Soltanto i nomi cambiavano ma sempre dittatori erano. Due nomi ricordo: Gallegos e Larrazábal.

Un gruppetto di giovani - così erano chiamati i simpatizzanti di Acción Democrática - mi avevano raccontato tante storie di politica con colpi di stato, molto complicate, non sempre chiare, anche quei pochi nomi che vi ho detto mi ubriacavano. Parlavano del bombardamento del Palacio de Miraflores, la tortura su uomini e donne era regola quotidiana soprattutto nelle prigioni di Maracay (definita “la città caserma”) e di Caracas, affollate di prigionieri politici, qualunquisti o ribelli che fossero. Arresti in massa: il rettore dell’Università Cattolica, gente di chiesa come Pedro Pablo Barnola, Jose Sarratud, Delfin Moncada e Alfredo Osiglia. Centinaia di persone, anche donne, convocate per essere interrogate e mai rientrate a casa. In galera, in cortili chiusi a fil di ferro spinato e arrugginito tipo Germania di Hitler, in quei campi di sterminio sparsi in tutta Europa, Auschwitz e Buchenwald in Germania, Fossoli in Italia, Mauthausen in Austria, Treblinka in Polonia, tutti nomi che umiliano la storia dei popoli. Galera dura anche per i pochi giornalisti che tentavano di raccontare i fatti, direttori come Miguel Ángel Capriles di , il sacerdote Jesus Hernandez Chapellín del giornale . Per le donne avevano trasformato in galera un convento di Sacramentine, le suore trasferite da Maracay a Merida, a cinquecento chilometri, l’asilo usato come caserma era diretto da una badessa-colonnello, suor Miranda, chiamata suor Diablesa. La cappella di Sant’Agostino trasformata in aula di tribunale senza giustizia. Sevizie anche per combattere la piccola criminalità: ai ragazzotti, ma anche ai bambini che rubacchiavano riso, mais, caffè o pane negli abastos, il supplizio più comune era la mutilazione di due dita, indice e medio. A più d’uno avevano troncato direttamente le mani a colpi d’accetta.

Scioperi su scioperi. I cacciatorpedinieri della Marina, a La Guaira, fumavano dalle loro caldaie attraverso le ciminiere. C’è una rivolta: i cadetti della Scuola Militare si ribellano contro la dittatura. Pérez Jiménez è costretto a un esilio frettoloso, lascia il suo ufficio presidenziale e fugge con la famiglia nell’isola dominicana. Ad agosto del 1963 viene accettata la richiesta di estradizione presentata dal governo di Rómulo Betancourt agli Stati Uniti. Jiménez è imprigionato nella contea di Dade, rinchiuso nella prigione di Los Morros dove la polizia politica aveva assassinato Antonio Pinto Salinas. Fu poi portato nel carcere “Modelo” a Caracas. Scontò cinque anni. Finì anche in Spagna dove rilasciava interviste a nostalgici, giornalisti, complottisti di ogni risma.

Io, partito dall’Italia per cercare lavoro, mi ritrovavo dopo il fascismo con un altro tipo di guerra combattuta con golpe ripetuti, in un mondo che non era il mio e che ribolliva di atrocità. Giunto nel 1958, ho passato cinque anni a Maracay, città bagnata dall’Oceano Atlantico e dal mare Caraibico, cento chilometri o poco più da Caracas. I miei amici arrestati - Vicente, Jorge e Paulo - sapevano di tutto, li ascoltavo e li ammiravo, raccontavano dei loro padri pestati con barre di ferro come cani rognosi. Citavano una frase di Lenin: «Ci sono i decenni in cui non succede nulla e settimane in cui passano decenni». Sì, io ero capitato in un Paese straniero in anni e giorni senza fine, tra terremoti politici e democrazia calpestata. I miei compagni di lavoro mi avevano portato nella Plaza Bolívar dicendomi che era la più grande del Venezuela. Leggevano giornali ufficiali e fogli clandestini. Vivevano in città o rioni grandi e piccoli, Santa Cruz, Polo Negro, Ocumare che esplodevano di opere pubbliche ma ogni giornata era dominata da sempre più frequenti rivolte e repressioni feroci. Di queste ultime, come degli scioperi, guai a parlarne. Anche i civili, spie del regime in ogni angolo, ti massacravano di botte, ti affidavano alla Seguridad o a un’altra più feroce polizia governativa detta “La Sagrada” ed erano sevizie strazianti. Parlavano molto di Pedro Estrada e lo definivano verdugo, feroz y despiadado: spietato, feroce e carnefice.

In quel periodo, per le strade, nelle fabbriche, negli uffici, in spiaggia, bisognava dire che la vita scorreva normale e che non ci si accorgeva della dittatura. E poi erano anni di boom: ci si divertiva con pochi soldi, si compravano frigoriferi e giradischi, radio e cucine a gas, dall’Italia giungevano le Vespe Piaggio e le Lambrette, anche le macchine per scrivere Olivetti 22 e 32, per le strade urla di venditori di merci le più strane, odore nauseante di fritto che quasi ti toglieva il respiro. Dall’alba al tramonto sentivi nomi di tanti generali, spuntava sempre il dittatore Marco Pérez Jiménez che per i più era un benefattore. Lui aveva fatto entrare più di un milione di stranieri ma di libertà, ai venezuelani, zero e doppio zero.

Le ruote girano meglio quando si insedia una Junta Patriótica che voleva essere democratica ma anche quella era imbottita di ministri, burocrati d’alto rango molto spesso corrotti, si erano formati in scuole militari all’estero. La svolta viene tentata con Rómulo Betancourt, leader di Acción Democrática. Nel 1958 subentra a Jiménez, diventa presidente della Repubblica nel ’59 (lo sarà fino al ’64) e rilancia una politica riformatrice espropriando latifondi, realizzando lavori pubblici. Ma la rivolta cova ancora e si scontra con le opposizioni della destra conservatrice e della sinistra filo-castrista. Tutti a venerare il dio-petrolio, grande...



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