E-Book, Italienisch, 407 Seiten
Reihe: Minimum classics
Malamud L'uomo di Kiev
1. Auflage 2022
ISBN: 978-88-3389-429-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
E-Book, Italienisch, 407 Seiten
Reihe: Minimum classics
ISBN: 978-88-3389-429-4
Verlag: minimum fax
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark
Basato su una vicenda realmente accaduta, L'uomo di Kiev è la storia di uno sconcertante caso giudiziario. È il 1911 e la Russia zarista è attraversata da frequenti scoppi di violenza antisemita. Yakov Bok è un ebreo che si guadagna da vivere come tuttofare; lasciato dalla moglie, cerca fortuna nella città di Kiev dove, spacciandosi per gentile, riesce a farsi assumere come sorvegliante in una fabbrica di mattoni. Ma quando accanto alla fabbrica viene ritrovato il cadavere di un bambino, si diffonde la voce che si tratti di un delitto perpetrato dagli ebrei a scopi rituali e scatta la ricerca del capro espiatorio: tradito da false testimonianze e incastrato dalla polizia, Yakov viene accusato del crimine. Rinchiuso in carcere senza processo, umiliato, abbandonato da tutti, non smetterà di lottare con tutte le sue forze per difendere la propria innocenza. Premiato con il Pulitzer e il National Book Award, L'uomo di Kiev non è soltanto una vigorosa denuncia del razzismo e della violenza del potere, ma un apologo universale sulla condizione umana: sulla nostra solitudine, le nostre paure irrazionali, il nostro incoercibile desiderio di giustizia.
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Prefazione di Alessandro Piperno
Non avevo ancora compiuto nove anni quando mio fratello mi mise al corrente di ciò che Hitler, una trentina d’anni prima della nostra nascita, aveva fatto agli ebrei. Il dato strano è che quella spaventosa rivelazione non mi indignò. Forse perché l’indignazione è preclusa ai bambini. Ciò che provai fu soprattutto terrore. Un terrore vago che non aveva niente a che vedere con la paura della morte. A nove anni, la morte, tanto più se non ha ancora lambito il piccolo confortevole mondo che ti protegge, è un evento astratto e implausibile. A terrificarmi, almeno stando alla dettagliata relazione di mio fratello, era il calvario di cui la morte rappresentava l’epilogo. Un crescendo ineluttabile: la diffidenza degli altri, la delazione, la discriminazione, le confische, la perdita dei diritti civili, l’isolamento sociale, la clandestinità, la deportazione, l’esclusione dagli affetti indispensabili (mamma e papà), la nostalgia straziante per tutto quello che hai perduto, le privazioni materiali, le torture fisiche, il sacrificio dei capelli e della dignità, la fame, la sete, il freddo, l’emorragia di fluidi corporei.
I grandi storici della Shoah (penso soprattutto a George L. Mosse) sono soliti ripetere che il dato distintivo del genocidio ebraico non può, e non deve, esaurirsi nella sconvolgente quantità di morti inflitte: il dato caratteristico è il contesto teatrale in cui tali stragi furono messe in scena. Come a dire che la morte, date le circostanze, era l’ultimo dei problemi. E, in alcuni casi, e da un certo momento in poi, era la cosa migliore che potesse capitarti. Non sorprende che, per alcuni decenni, gli ebrei, sia quelli che avevano subito personalmente la persecuzione, sia quelli che ne avevano solo sentito parlare, preferirono calare un sipario nero di omertà sullo spettacolo dell’orrore di cui erano stati i coprotagonisti. Anche qui potrei chiamare sul banco dei testimoni i miei nonni: loro non amavano parlare di questa storia, sebbene come altri ebrei romani fossero stati sfiorati dallo sterminio più o meno direttamente. Ricordo che ogni tanto a mia nonna capitava di commuoversi sulla sorte tragica delle sue cuginette.
Anni fa, durante un convegno a Gerusalemme tra scrittori israeliani e scrittori della diaspora, Aharon Appelfeld mi raccontò le straordinarie peripezie editoriali che portarono alla tarda pubblicazione delle sue opere dedicate all’esperienza di fuggiasco e di perseguitato nell’Europa centrale dominata dai nazisti. In Israele in quegli anni, mi spiegò Appelfeld, nessuno voleva sentir parlare di Hitler e dei suoi scagnozzi. E non solo in Israele.
La vergogna retrospettiva (la tortura postuma che i nazisti inflissero agli ebrei sopravvissuti) favorì la discrezione, se non addirittura l’omertà. Chi meglio di Primo Levi ha indagato i subdoli meccanismi della vergogna? Ma lui si è soffermato, per l’appunto, sulla vergogna dello scampato al campo di sterminio nei confronti della miriade di compagni di prigionia (non meno incolpevoli di lui) che non ce l’hanno fatta: i cosiddetti musulmani. Ma esiste un altro tipo di vergogna, molto meno terribile naturalmente, ma altrettanto subdola e velenosa. Quella che investì coloro che non avevano vissuto in prima persona l’esperienza concentrazionaria. Tutti gli ebrei che erano riusciti a nascondersi, o che a quel tempo vivevano in paesi e continenti più sicuri. Su tutti naturalmente spiccano gli ebrei americani. Una comunità tanto numericamente vasta quanto culturalmente influente. L’alveo su cui, dalla dissoluzione dell’Impero austroungarico e dalla Rivoluzione di Ottobre in poi, prese a scorrere il fiume impetuoso della nuova intellighenzia ebraica. Il laboratorio che ha prodotto un numero di scrittori, di artisti, di scienziati, di cineasti ormai tanto universalmente noti che è persino pleonastico citarli alla rinfusa. Be’, non mi pare così stupefacente che la maggior parte di loro abbia sentito l’esigenza di dare il proprio contributo personale alla definizione di un concetto odioso come quello di persecuzione. Né mi sorprende che molti di essi, per farlo, abbiano aspettato un po’ di tempo, se la siano presa comoda, lasciando che gli eventi incriminati decantassero. Film come di Polan´ski o di Spielberg sono opere di artisti maturi. E altrettanto si può dire a proposito di libri come e di Bellow, o del di Philip Roth.
Solo scrittori appartenenti alla generazione successiva, a me più o meno coetanei, non si sono fatti scrupoli a inaugurare spavaldamente la loro carriera con libri in cui la persecuzione a danno degli ebrei veniva audacemente tematizzata, talvolta persino in forme surreali o parodistiche. Penso a Michael Chabon, a Nathan Englander, a Jonathan Safran Foer, Daniel Mendelsohn e a Nicole Krauss, solo per citare i più noti.
In questa odiosa storia, un ruolo esemplare (vorrei dire centrale, se l’aggettivo non risultasse incongruo al soggetto in questione) occupa Bernard Malamud. Mi pare che l’isolamento logistico cui si sottopose nel corso della sua esistenza discreta (un isolamento non patologico come quello di Salinger o di Pynchon, o della nostra Ferrante, e ciononostante un isolamento a tutti gli effetti) trovi un correlativo oggettivo nella sua opera, dotata di una coerenza implacabile e di un encomiabile understatement. Lui è diverso dagli altri scrittori ebrei americani della sua generazione. Per il fatto di aver conservato un legame con quello che Stefan Zweig avrebbe chiamato il «mondo di ieri». Forse perché figlio di due emigrati russi, ancora non abbastanza americanizzati, forse perché nato in una Brooklyn iper-ebraica, forse per ragioni di temperamento, fatto sta che nei romanzi di Malamud l’America non appare mai un’opportunità di riscatto. Uno dei suoi temi più frequenti è la marginalità. Gli eroi di Malamud sono l’incarnazione stessa del «». Nessuna fitzgeraldiana corsa all’oro. Solo grandi cadute nel fango.
«Sono americano, nato a Chicago – Chicago, quella tetra città – affronto le cose come ho imparato a fare, senza peli sulla lingua, e racconterò la storia a modo mio». Ecco il memorabile incipit delle di Saul Bellow: un attacco spavaldo, leggero, tracotante. Dubito che Malamud avrebbe mai potuto iniziare un romanzo con altrettanta insolenza. È chiaro che Bellow (nonostante fosse anch’egli figlio di emigrati) guardi a Mark Twain e a Walt Whitman, molto più che a Martin Buber o a Franz Kafka. L’assimilazione completa con la patria delle opportunità e delle ambizioni forsennate è tipica dell’ebreo bellowiano. Poco importa che molto spesso tale ambizione venga delusa. L’importante è che essa sia posta, sin dal principio, al centro della scena.
Per Malamud le cose stanno in modo diverso. La sua fedeltà alla sfiga giudaico-europea è decisamente più salda, sia da un punto di vista emotivo sia da un punto di vista stilistico. Gli eroi dei suoi romanzi e dei suoi racconti migliori (alcuni di stupefacente bellezza) sanno fare soprattutto una cosa: soffrire. La storia che Malamud racconta è sempre la stessa: quella di Giobbe. Ovvero la vicenda di un uomo su cui si abbattono mille calamità, che lui accoglie con stoicismo (mi chiedo quale debito enorme abbiano nei suoi confronti i fratelli Coen e Nathan Englander). Emblematico da questo punto di vista il mirabile incipit del racconto «L’angelo Levine»:
Manischevitz, un sarto, nel suo cinquantunesimo anno di età ebbe a patire molte disgrazie e molte offese. Uomo agiato, nel giro di una notte perse tutto quello che aveva quando il suo laboratorio prese fuoco e, dopo l’esplosione d’un recipiente metallico pieno di smacchiatore, bruciò fino alle fondamenta. Sebbene Manischevitz fosse assicurato contro gli incendi, le cause per danni intentategli da due clienti rimasti feriti tra le fiamme lo spogliarono fino all’ultimo centesimo di tutto ciò che aveva riscosso. Quasi contemporaneamente suo figlio, un ragazzo molto promettente, fu ucciso in guerra, e sua figlia, senza neppure una parola di preavviso, sposò un tanghero e sparì con lui come cancellata dalla faccia della terra.
Come vedete, non basta l’America a cambiare il destino degli ebrei. Del resto, malgrado Malamud, come molti altri suoi illustri correligionari, detesti essere considerato uno scrittore ebreo-americano, è indubbio che il destino dell’ebreo nel mondo dei gentili è ciò che più lo interessa e commuove. A un intervistatore del che gli chiedeva per quale ragione scegliesse sempre personaggi ebrei, Malamud rispose: «Perché li conosco. Ma soprattutto, ne parlo perché gli ebrei sono l’incarnazione perfetta del melodramma». Una risposta che, in contesti diversi, avrebbero potuto dare sia Kafka, sia Joyce, sia Svevo, e mille altri ancora da questa parte dell’oceano. Si pensi alla fine del romanzo (per molti il suo capolavoro), quando Frank Alpine decide di convertirsi all’ebraismo:
Un giorno d’aprile, Frank andò all’ospedale e si fece circoncidere. Per un paio di giorni se ne andò in giro faticosamente con un dolore tra le gambe. Il dolore lo esasperò e lo ispirò. Dopo la Pasqua divenne ebreo.
Diventare ebrei significa imparare a soffrire. Imparare a soffrire significa trarre dal dolore una voluttà inimmaginabile. Benvenuti nel mondo di Bernard Malamud!
Eppure anche uno scrittore del genere, così impegnato sul fronte della sofferenza ebraica, dovette...