Luzio / Renier | Buffoni, nani e schiavi dei Gonzaga ai tempi d'Isabella d'Este | E-Book | sack.de
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E-Book, Italienisch, 106 Seiten

Luzio / Renier Buffoni, nani e schiavi dei Gonzaga ai tempi d'Isabella d'Este


1. Auflage 2024
ISBN: 979-12-5593-061-7
Verlag: Paperleaves
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

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Fu già notato, e assai bene, come lo sviluppo dell'individualismo recasse seco nel glorioso nostro rinascimento il fiorire dei motti, delle facezie, delle burle, di tutto insomma quello spirito della beffa, che un Pontano stimò utile codificare nel suo De Sermone ed un Castiglione giudico, entro certi limiti, elemento urbano e piacevole nelle corti. Le facezie si raccolsero, si riprodussero, si divulgarono, divennero tradizionali, e con esse certi nomi di uomini sollazzevoli o di buffoni. Un cronista celebre di Perugia, il Matarazzo, notava alla fine del secolo XV essere dicevole alla magnificenza d'un gran signore il possedere, oltreché cavalli, cani, sparvieri, bestie feroci, anche buffoni. [...] Scopo di quest'articolo e di porre in luce, con la scorta di documenti, i buffoni della corte mantovana al tempo d'Isabella d'Este Gonzaga, che vi giunse sposa sedicenne nel 1490 e vi mori nel 1539. Non sarà purtroppo una storia seguita quella che potremo tessere, ma piuttosto una serie di spigolature, che le memorie di quei bizzarri personaggi, tanto cari ai signori del tempo, ci giunsero frammentarie e con molte lacune. Né solo ci occuperemo di quelli che in Mantova dimorarono abitualmente, ma terremo conto eziandio di coloro che vi passarono o di cui giunsero notizie alla corte mantovana. Gli stessi vincoli di parentela che nell'ultimo decennio del secolo XV legarono le famiglie degli Este, degli Sforza e dei Gonzaga pei matrimoni di Isabella d'Este con Francesco Gonzaga, di Anna Sforza con Alfonso d'Este, di Beatrice d'Este col Moro, spiegano i continui passaggi dei buffoni in quel tempo dall'una all'altra di queste tre corti, onde noi, per adottare un criterio qualsiasi di divisione, ci atterremo alla cronologia, e prima discorreremo dei buffoni fioriti nel secolo XV e nei primi anni del XVI, poi di quelli, che formano un gruppo speciale, vissuti più addentro nel cinquecento.

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I


Quella classe caratteristica di persone facete e sollazzevoli, ovvero per deformità fisica o per semplicità di mente atte a far ridere, alle quali fu dato fin da tempo assai remoto il nome di buffoni (che in origine, secondo il Ducange ed altri, accenna agli schiaffi prodigati loro sulle gote gonfiate) attrasse più volte l’attenzione degli eruditi stranieri. Sin dal 1789 K. F. Flögel consacrava loro un libro alquanto farraginoso, ma dotto, la Geschichte der Hofnarren, libro che insieme all’altra più fortunata opera del medesimo autore, la Geschichte des Grotesk-Komischen, veniva, trent’anni or sono, ripresentato al pubblico in una compilazione di Fr. Nick.1 Nello scritto del Flögel sono raccolte notizie dei buffoni di tutti i tempi e di tutti i luoghi, ma com’è ben naturale tali notizie sono incompiutissime, tranne forse per la Germania, su cui l’autore disponeva di materiale più copioso.

In Francia infatti, la terra classica dei buffoni di corte, si senti ben presto il bisogno di occuparsene, esaminando numerosi documenti d’archivio, e dopo le ricerche speciali od incidentali del Dreux du Radier, del Lacroix, del Leber, dello Jal, s’ebbe l’eccellente libro di complesso del Canel2, e, condotta su di esso, l’operetta non cattiva di divulgazione del Gazeau.3 Lavori particolari, su cui non e il caso di insistere qui, non mancarono neppure in Inghilterra, in Germania ed in Austria; ma l’Italia non segui il loro esempio.

Su questa, come su tante altre particolarità della nostra storia del costume, a noi manca un libro soddisfacente, basato sulle antiche attestazioni a stampa e manoscritte; e quel pochissimo che il Flögel ci dice di alcuni buffoni italiani fioriti a Ferrara, a Verona, a Mantova, a Milano, in Toscana merita appena d’essere rammentato. In Italia appena ora, prendendo specialmente a considerare la corte di Leone X, si raccolsero notizie sui più celebri giullari di quel papa, cui l’Aretino era in dubbio se piacessero maggiormente “le virtù de’ dotti o le ciancie di buffoni.”

Sul soggetto in generale non v’ha che qualche articolo, come quelli di Adolfo Bartoli4 e di Valentino Giachi.5 La storia dei nostri buffoni, così di piazza come di corte, è ancor tutta da fare ab imis fundamentis. Eppure le tradizioni buffonesche italiane, se anche non ebbero la ventura d’essere raccolte dagli storici, come fin dal secolo XVI quelle francesi dal Brantôme, o rammentate da poeti come il Rabelais, se anche non vantarono un buffone scrittore, come quel don Frances de Zúñiga, che al servizio di Carlo V stese una lunga cronaca umoristica de’ tempi suoi, di cui v’e una copia nella biblioteca palatina di Vienna6; eppure le tradizioni buffonesche italiane sono ben lungi dal meritar trascuranza. La terra celebrata pei belli spiriti e i belli umori, la terra ove si vennero formando quelle figure tipiche giullaresche, che sono le maschere della commedia dell’arte, non poteva difettare di buffoni cortigiani e non cortigiani.

Fu già notato, e assai bene, come lo sviluppo dell’individualismo recasse seco nel glorioso nostro rinascimento il fiorire dei motti, delle facezie, delle burle, di tutto insomma quello spirito della beffa, che un Pontano stimò utile codificare nel suo De Sermone ed un Castiglione giudico, entro certi limiti, elemento urbano e piacevole nelle corti.7

Le facezie si raccolsero, si riprodussero, si divulgarono, divennero tradizionali, e con esse certi nomi di uomini sollazzevoli o di buffoni. Un cronista celebre di Perugia, il Matarazzo, notava alla fine del secolo XV essere dicevole alla magnificenza d’un gran signore il possedere, oltreché cavalli, cani, sparvieri, bestie feroci, anche buffoni. Erasmo di Rotterdam, in quel suo arguto Elogio della pazzia, considera i buffoni come ministri di verità, perché da loro i principi tollerano senza rimostranze quello che sarebbe bastante a fare appiccare un filosofo.

Il maggior maldicente del secolo XVI, Pietro Aretino, professa in uno de’ Ragionamenti che “la buffoneria è vita et anima de la corte.” Tommaso Garzoni, vissuto in pieno cinquecento, ha nella sua bizzarra Piazza universale una pagina, già più volte richiamata, sui buffoni de’ tempi suoi, sulle loro piacevolezze, e sul favore di cui godevano. Non è senza amarezza ch’egli esclama: “Hor ne’ moderni tempi la buffoneria e salita sì in pregio, che le tavole signorili sono più ingombrate di buffoni, che d’alcuna specie di virtuosi….Quivi il buffone recita i testamenti villaneschi di Barba Mangone e di Pedrazzo; adorna l’instromento che fa ser Cecco di parole più grosse che quelle del Cocai; narra le fusa torte, che fece la moglie del medico la notte di carnevale; racconta il dialogo di Mastro Agresto con la Togna di S. Germano; discorre di legge come un Gratiano da Bologna; parla di medicina come un Mastro Grillo; favella da Pedante come un Fidentio Glottocrisio; fa del Bergamasco a spada tratta, come se fosse il primo della vallata; è Magnifico nel sporgere, è Spagnolo nel gestire, è Todesco nel caminare, e Fiorentino nel gorgheggiare, è Napolitano nel fiorire, è Modenese in fare il gonzo, è Piemontese nel languire: e la simia di tutto il mondo nel parlare e nel vestire.”

E prosegue enumerando gli altri lazzi e smorfie e giuochi, con cui i buffoni esercitavano l’arte loro: contraffare la fisonomia, stralunar gli occhi e torcer la bocca, sporgere la lingua, ingrossare le fauci, simulare gibbosità, rattrarre le braccia e le mani come “il bagattella de’ trionfi” o, come si direbbe noi, il giocoliere de’ tarocchi. Costoro “trionfano ai pasti de’ principi, mentre il dotto poeta, il facondo oratore et l’arguto filosofo fa la sua residenza nel vilissimo tinello,” e qui segue una intemerata contro i signori che trascurano i dotti per i buffoni, intemerata così calda ed efficace, che agevole è l’avvertire come il Garzoni parlasse in causa propria.

Come tutti avranno notato, i modi che i buffoni tenevano per far ridere non erano certamente de’ più eletti. Oggi appena sulla piazza d’un villaggio sarebbero applaudite le buffonerie grosse e triviali, che quei nostri antichi signori apprezzavano tanto. Ed anche delle stesse facezie, degli stessi motti di spirito, che ci sono serbati nelle raccolte, ben pochi oggi ci inducono al riso. La facilità di ridere e di trastullarsi cresce quanto più si rimonta nei secoli. Le società primitive ridono facilmente come fanciulli, e del fanciullo teneva ancora, in questo come in altro, la nostra società del rinascimento, per tanti rispetti così accorta e raffinata. In un’altra opera narra lo stesso Garzoni di un buffone chiamato Cicala da Forlì, il quale “trovandosi un giorno in una barca da Francolino a Venezia, fece venire un accidente bestiale ad un gentiluomo Milanese, con le sue buffonerie, da farlo quasi morire; dove fra l’altre raccontando a che modo sia fatto il paese della cuccagna, lo spiegò con la seguente stanza molto ridicolosamente”.8

L’autore la riferisce, ma noi vi troviamo appena di che increspare le labbra ad un sorriso. E quando leggiamo in documenti mantovani che il celebre frate e buffone Mariano Fetti, in un convito romano cui assistevano vescovi e cardinali, montò in piedi sulla tavola e prese a correre da un capo all’altro menando di mano ai convitati, e che in un altro banchetto solenne “li polastri volavano per la tavola, cacciati dal frate, poi da li preti; con li sapori et minestre si dipingevano li volti et panni”9, non sappiamo davvero se sia maggiore in noi lo schifo o la meraviglia per cotesti sollazzi da facchini e da guatteri.

Gli è che nel rinascimento perdurò gran parte di quella volgarità sfrenata di tripudio, di quella passione per le feste degeneranti in orgie, che tutto il medioevo predilesse. Chi non ha presenti gli eccessi delle cosidette feste dei pazzi, e delle feste dell’asino? I popoli cristiani conservarono in esse le antiche tradizioni dei saturnali pagani, mescolando irriverentemente nelle loro gazzarre la parodia delle più sacre e solenni cerimonie ecclesiastiche, riducendo a teatro di buffonate la chiesa.10

Il quale uso, durato floridissimo in tutta l’età di mezzo, resistette ai divieti delle autorità civili ed ecclesiastiche nel secolo XV e poi venne a scomparire lentissimamente, ma non sì che non se ne trovino esempi anche nel cinquecento e, per eccezione, persino nel seicento.11 Una lettera del 18 gennaio 1495, che Federico da Casalmaggiore diresse da Lodi al marchese di Mantova, ci descrive una festa de’ pazzi che colà, sembra, era consuetudinaria.

La marchesa Isabella Gonzaga partì da Mantova il 15 gennaio 1495 per recarsi a Milano ed il Casalmaggiore la precedeva per apprestare gli alloggiamenti: “Gionto ne la terra, egli scrive, a uno voltare di strata presso la piaza fui asalito da parechi fanti insieme col capelano e lo prete Copino cum la cavalcata poi, che se ne veniva de mano in mano: et io maravigliandomi di tale asalto, se ne acorseno et ilico mi fecino animo dicendo; “non ve dubitate ponto de dispiacere alcuno, l’usanza nostra è che in tale dì usamo questi termini in comemoratione del nostro patrono San Bassano.”

Et intendendo io questo, presi animo dicendo: fati il volere vostro. E alora mi cominciorno come se fosse stato una sposa a redinare la mia mula, e cusì caminando me condusseno nanti a la chiesa cathedrale insieme cum li seguaci mei. E gionto che fui lì gli ritrovai dui homini armati, quali erano a la guardia de la porta et erano a cavallo a dui lioni; et io sbigotito per la molta giente che era su la piaza gli dissi: hor volete altro da me? Me rispuseno de si, dicendo che l’era de...



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