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E-Book

E-Book, Italienisch, 160 Seiten

Reihe: Amazzoni

Lepri Dna chef


1. Auflage 2023
ISBN: 978-88-6243-602-1
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark

E-Book, Italienisch, 160 Seiten

Reihe: Amazzoni

ISBN: 978-88-6243-602-1
Verlag: Voland
Format: EPUB
Kopierschutz: 6 - ePub Watermark



Guido Nocentini sa di essere destinato a diventare un grande chef: il nonno Giovanni, cuoco fiorentino confinato alle Tremiti durante il fascismo, è ancora ricordato dagli isolani per un piatto eccezionale, le tagliatelle al sugo di ricci, una delizia che anche il nipote propone in un rinomato ristorante londinese. Coincidenza o dna? Per eseguire le ultime volontà del padre e trovare conferma ad alcune intuizioni, Guido torna a San Domino, mentre il primo lockdown sta per abbattersi sull'isola. Ad attenderlo ci sarà un passato sorprendente, di cui è parte anche Vittorio, scomparso in modo tragico il giorno delle nozze dei nonni...

Nata a Città di Castello nel 1965, è cresciuta in Maremma. Vincitrice di alcuni premi letterari - tra cui Moak, Teramo e Cimitile - ha pubblicato: Sulla terra, a caso (2003), L'ordine inverso di Ilaria (2005), L'amore riflesso (2006), La ballata della Mama Nera (2010), Il volto oscuro della perfezione (2011), Io ero l'Africa (2013), Ci scusiamo per il disagio (2017), Facciamo tardi (2018), Le lacrime di Hitler (2019).
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2


In quanto “italiano pericoloso” il luogo di confino deciso per Giovanni Nocentini nel 1940 fu quello delle isole Tremiti. Come molti di quelli scelti per questa misura preventiva, non aveva commesso alcun reato grave ma il provvedimento si rese necessario proprio per evitare che ciò accadesse, viste le idee sovversive più volte manifestate.

Piccolo d’altezza, prepotente e attaccabrighe, era stato ammonito per il proprio comportamento antipatriottico – volantinaggio contro la visita di Hitler a Firenze nel 1938 – ma inizialmente gli avevano imposto come punizione, oltre al consueto massaggio a bastonate, l’obbligo quotidiano della firma in questura e il divieto di lasciare Firenze. Due anni dopo, considerato il suo reiterato atteggiamento criminale – volantinaggio e distribuzione di materiale sovversivo ispirato alle idee del comunismo – aveva in pratica messo da solo la firma sul foglio del trasferimento forzato in Puglia. La Commissione provinciale aveva così deciso per cinque anni di pena, il massimo previsto, rinnovabile secondo giudizio della stessa e ovviamente inappellabile.

“E ora come si fa?” gli chiese Beatrice con un filo di voce attraverso le sbarre del cancello. “Non siamo nemmeno sposati.” Si vedeva che cercava di non piangere ma aveva certi lucciconi che alla luce della luna brillavano, in barba a qualsiasi oscuramento. Per raggiungerla e parlarle un attimo era scappato dal tetto attraverso l’abbaino ma doveva rientrare subito, c’era il piantone della questura davanti all’osteria, un quartiere di due piani utilizzato dall’oste anche per affittarne le camere nella parte superiore. Giovanni ci lavorava e gli faceva anche da casa, in una stanza vicino alla dispensa, nel retro del locale. Un letto, un comodino, una lampada, un piccolo specchio. Non gli occorreva nemmeno un tavolo per desinare, tanto mangiava in taverna prima dell’arrivo degli avventori, colazione pranzo e cena, e poteva usare il loro stesso bagno. Una volta alla settimana, per lavarsi a modo, c’era il diurno, dove poteva restare nella vasca anche dieci minuti e leggersi in pace l’edizione clandestina dell’“Unità”.

Lo sbirro gli aveva permesso di andare a prendere le sue cose, sarebbe rimasto ad attenderlo per il tempo di una sigaretta. Chissà se si aspettava che scappasse, sotto alla giacca aveva la rivoltella a fare spessore, forse gli sarebbe garbato fare il tiro al piccione. Ma Giovanni non era scemo. Si era salvato dalla leva, era sopravvissuto a tante privazioni, aveva coltivato e mantenuto i suoi ideali, non voleva morire da bischero. Però per un ultimo saluto a Beatrice valeva la pena rischiare una rivoltellata. Quando lo aveva visto salire al sottotetto, l’oste si era girato di là ed era restato zitto. La pensava come lui, era un compagno. Una bella fortuna che l’istituto dove lei viveva fosse proprio lì accanto. Agli Innocenti aveva imparato a cucinare e quando era uscito aveva trovato lavoro alle Tre querce. Se n’era andato da un orfanotrofio per finire vicino a un altro ma quella era stata la cosa migliore che gli era capitata nella vita, altrimenti lei non l’avrebbe mai incontrata.

“Meglio che non siamo sposati, come moglie non t’avrei potuta avere vicina, i confinati devono restare separati dalla famiglia. Lo fanno apposta, i maledetti, è quella la punizione, altrimenti invece che una pena l’è una vacanza. E poi noi, come comunisti, ’un ci si sposa in ogni caso. Te sai fare la sarta, io il cuoco, in qualche modo vedrai che ci s’arrangia anche alle Tremiti. All’inizio forse non potremo stare insieme ma io ho fiducia. Devo partire subito, domani arrivo e te mi raggiungi prima possibile, quando m’avranno sistemato”, poi le passò un foglietto con scritte le istruzioni, gli orari dei treni e l’imbarco del traghetto da Termoli a San Domino, le strinse forte la mano e scappò via.

Beatrice avrebbe voluto ribattere che almeno al matrimonio civile ci teneva, proprio perché era sarta il vestito poteva farselo bello senza spendere quasi niente. La stoffa l’aveva già comprata e forse aveva sbagliato, magari prenderla prima portava sfortuna. Comunque non disse nulla, non era il momento di chiacchierare, magari prima o poi lui avrebbe cambiato idea.

Lo sapeva che a suor Veronica avrebbe spezzato il cuore due volte, per la partenza e per il matrimonio mancato. L’aveva cresciuta da quando a sei anni sua madre l’aveva lasciata agli orfanelli, e si comportava come se fosse un po’ figlia sua. La mamma sarebbe tornata a prenderla, le diceva all’inizio. E invece la malattia e le busse dei fascisti, prese alla prima manifestazione operaia a cui la donna si era trovata a partecipare, avevano deciso di no. Filomena era morta a venticinque anni e Beatrice non ricordava nemmeno più il suo volto. Era restata con le suore, viveva lì come fossero la sua famiglia, da loro aveva imparato un mestiere, cuciva e riusciva a mettere da parte qualche soldo.

“Brava, te tu hai scelto proprio bene, brava davvero! Quello gl’ha una testa calda di nulla,” le diceva la superiora scuotendo il capo “e anche se siete maggiorenni e magari dice che ti sposa, per me testa calda è e testa calda resta! ’Un ti far infinocchiare! I’ coho! Vedrai dove ti fa finire, i’ tu coho, poera bischera!”

Questo era il ritornello quotidiano, quando si infervorava la suora arrossiva e dimenticava di parlare forbito, cominciando a usare il fiorentino. Beatrice non se la prendeva. Magari poteva anche avere ragione ma non le importava, lo avrebbe seguito ovunque, perché lo amava e perché erano uguali. Poveri allo stesso modo, cresciuti tutti e due in collegio e senza nessuna speranza, in balia di un paese in guerra comandato da violenti che entrambi odiavano. Quindi non c’era da avere paura, e neanche qualcosa da perdere. Peggio di così. Dovevano solo appoggiarsi l’uno all’altra e tirare avanti fino al giorno successivo e poi a quello dopo e a quello dopo ancora. Fino a che non fosse finita.

Quando lui la stringeva, era come se avesse già una casa, anche se una casa lei non sapeva nemmeno come fosse fatta. E questo era tutto ciò che voleva. Alle Tremiti per loro non poteva essere peggio che a Firenze, con la paura di venire picchiati per strada perché fischiettavano una canzone o avevano sotto il braccio un libro considerato sovversivo.

Perciò si asciugò gli occhi, appallottolò il bigliettino e se lo mise nel reggiseno, poi corse dentro e al buio, pian piano e tenendo le braccia davanti a sé per non rischiare di sbattere contro qualche porta, ritrovò la strada che la condusse al proprio letto.

Giovanni arrivò a San Domino in una giornata di dicembre del 1940 sferzata dal vento e dalla pioggia. Da lontano l’isola gli parve il monte del Purgatorio di Dante, come lui se l’era immaginato quando il maestro glielo raccontava a scuola.

Il postale che serviva anche da tradotta per i confinati ebbe qualche difficoltà ad attraccare, fece avanti e indietro due volte per timore che le onde mandassero la poppa a incastrarsi sotto il livello della banchina. I facchini del porto bestemmiarono in un dialetto che a Giovanni parve napoletano. Pensò di essere ammattito, visto dove si trovava. Venne infine messa un’ancora a prua che stabilizzasse l’imbarcazione e i prigionieri scesero in fila indiana, legati l’uno all’altro per i polsi con una cordicella che sarebbe stato facile strappare. Era però evidente, a quel punto, l’inutilità di qualsiasi sortita.

Ne contò in tutto quattordici, due croati, due francesi, uno spagnolo e tre zingari. Gli altri sei erano italiani e dai mezzi discorsi bisbigliati che era riuscito a sentire fu chiaro che erano tutti antifascisti, anche se di diverso credo ideologico. Durante la traversata aveva osservato un ragazzo che mugolava e si dondolava, questo aveva aumentato la sua inquietudine. Ne aveva già visti in condizioni simili, seduti nel giardinetto del manicomio che confinava con il collegio in cui era cresciuto. Alcuni guardavano il muro di cinta, altri sulla panchina stavano con gli occhi al cielo. Quello lì invece era rannicchiato in un angolo, seduto in terra si abbracciava le gambe e si lamentava piano chiamando la mamma. Poi a un certo punto della traversata era sparito. Gli sbirri che li scortavano non avrebbero avuto il cuore di buttare in acqua un povero cristo del genere. Non poteva crederlo, anche se i fascisti erano belve. Poi comunque se ne sarebbe accorto, il postale era piccolo e il ragazzo avrebbe urlato. Magari era il figlio di uno dei marinai ed era solo sceso sottocoperta. Se lo ripeteva per dominare l’ansia.

Arrivò al tramonto e il sollievo dovuto allo sbarco durò poco. Disorientato per il mal di mare e infreddolito per gli abiti umidi, capì subito che la meta finale non era l’isola di San Domino, dove si trovava, ma quella di fronte, sulla cui cima svettava una fortezza di colore chiaro.

Immusoniti e rassegnati, gli uomini vennero messi di nuovo in fila dai carabinieri per salire su piccole barche che li avrebbero condotti subito a San Nicola. Seduto su un muretto, un giovane ben vestito li guardava. Non sembrava uno del posto, e neanche un prigioniero. Uno dei carabinieri si staccò dal loro gruppo per andare a dirgli qualcosa all’orecchio, poi gli offrì da fumare. Quello annuì e si accese la sigaretta. Nel chiarore che gli si fece intorno al volto, a Giovanni parve che guardasse lui e sorridesse.

“Ho preso appuntamento con Vittorio domattina per sistemare i pantaloni” fu la spiegazione non richiesta che il militare, al ritorno da quel colloquio, dette al collega rimasto a sorvegliare i prigionieri. L’altro si strinse nelle spalle.

A Giovanni la salita al paese invece del Purgatorio ricordò il Golgota. Se era vero...



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